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Il tema della stratificazione assume a Roma una valenza particolare perché non riguarda solo lo spessore della città nel suo accumulo secolare di suoli e di materiali urbani, ma coinvolge in pieno la produzione progettuale, il sovrapporsi di piani, di proposte, di destinazioni d’uso. Questo processo è al centro del libro curato da Piero Ostilio Rossi Flaminio Distretto Culturale di Roma. Analisi e strategie di progetto (Quodlibet, 2020).
Il Flaminio è un’area a nord di Roma tra le Mura Aureliane e il Tevere, circondata da rilievi collinari (Monti Parioli, collina di Villa Glori, Monte Mario). Qui si attestava l’accesso settentrionale alla città articolato in due nodi: da un lato Porta Flaminia, dall’altro Ponte Milvio. Tra i due nodi si trova un asse rettilineo destinato a divenire la matrice dello sviluppo urbanistico ed edilizio di un’area la cui urbanizzazione inizia sostanzialmente dopo il 1870 con Roma Capitale.
Il libro è il risultato di una approfondita ricerca del complesso processo di conformazione del quartiere Flaminio e del suo intorno, per ricavarne gli elementi conoscitivi su cui fondare una proposta di riassetto e riqualificazione urbana. La proposta assume la forma di un masterplan d’indirizzo i cui contenuti sono messi immediatamente in chiaro da Piero Ostilio Rossi: “un masterplan di questo genere – scrive – è sostanzialmente un action plan perché non prefigura una forma verso la quale il quartiere deve tendere, ma individua una serie concatenata e interrelata di azioni che permettono obiettivi prestabiliti. Un programma performativo, costruito cioè per produrre effetti” (pp 12-13).
Un masterplan così concepito richiede impegno e capacità di gestire nel tempo la formazione degli strumenti attuativi, nel senso che questi si definiranno solo con la condivisione delle scelte, l’affermazione di azioni e pratiche sociali, la realizzazione mirata di alcune opere strategiche. “Il masterplan deve quindi riuscire a tenere insieme la città di pietra (quella che il progetto prefigura) con la città delle persone, l’urbs con la civitas” (p. 13). Cosa che effettivamente è avvenuta tant’è che dopo aver avviato un confronto con la cittadinanza e le istituzioni locali (il II Municipio), questo progetto è stato ora messo a disposizione del Comune (sarebbe bene farlo conoscere ai candidati sindaci alle prossime elezioni amministrative).
Il masterplan ha un forte radicamento nella storia, nella conoscenza delle trasformazioni che nella lunga durata hanno via via costruito la trama fisica e sociale di un quartiere che non ha ancora trovato un assetto compiuto. L’area inizia ad essere oggetto di attenzione progettuale nel periodo napoleonico, quando Roma assume il ruolo di seconda capitale dell’impero. Giuseppe Valadier colse la potenza dell’asse e lo affiancò con un corso alberato per passeggiate, delineando per l’area una destinazione a parco urbano, di grande spazio aperto a servizio della città. Idealmente l’asse si congiunge con il rettilineo di via del Corso (l’antica via Lata) per raggiungere il cuore della città, il Campidoglio. È solo l’inizio di un processo di accumulazione di progetti e di interventi: alcuni saranno realizzati, molti non avranno attuazione, ma tutti lasceranno una traccia, un segno. Il libro ha il merito di ricostruire questo processo, di trovare la trama che lega piani, istituzioni, personaggi, interessi, opere. Attraverso la sua lettura possiamo orientarci in un palinsesto incredibilmente ricco e in parte misconosciuto.
Quando Roma nel 1870 diventò capitale, oltre porta Flaminia, c’è solo campagna. L’urbanizzazione iniziò con il piano di Edmondo Sanjust del 1909 che predispose la maglia urbana tra l’asse della via Flaminia e l’ansa del Tevere, lasciando le aree sul lato opposto a verde e attività sportive. L’Esposizione Universale del 1911 confermò questo orientamento con la realizzazione dello Stadio Nazionale, progettato da Marcello Piacentini, e dell’ippodromo dei Parioli. Furono episodi determinanti per lo sviluppo futuro dell’area. Accanto allo Stadio Nazionale venne presto allestito un campo di calcio di minore dimensione, mentre alle sue spalle, al piede di Villa Glori, fu realizzato un impianto ippico per il trotto. Dobbiamo a queste destinazioni d’uso se successivamente è stato possibile trovare lo spazio per l’edificazione del Villaggio Olimpico e dell’Auditorium di Renzo Piano. Lo Stadio Nazionale fu ampliato e rinnovato nel 1927 (sempre da Piacentini). Nel dopoguerra lo troviamo ancora operante; come non ricordarlo come sfondo del film Ladri di biciclette. Lo stadio fu demolito in vista delle Olimpiadi del 1960 e ricostruito secondo il progetto di Pier Luigi e Antonio Nervi. Il libro ha la capacità di narrare le vicende urbane attraverso un intreccio di rimandi, di riferimenti culturali, di aneddoti, come l’episodio dell’incontro di Nervi con Le Corbusier in visita al Villaggio Olimpico di cui apprezzò, tra le diverse opere, il viadotto di Corso Francia (lo vedeva come una infrastruttura in sintonia con la sua Ville Radieuse).
Tra i progetti per il Flaminio, quello del 1971 di Mario Fiorentino – incaricato dalla società Bonifica di predisporre un masterplan per un centro direzionale – è probabilmente il meno noto. In realtà, si tratta di una proposta che non ebbe seguito per la sua mancanza di fattibilità e di prospettiva. La proposta mirava a realizzare nelle aree del Villaggio Olimpico un segmento aggiuntivo al sistema direzionale orientale (SDO), uno dei capisaldi del piano regolatore del 1962. In questa occasione, Fiorentino utilizzò una morfologia insediativa molto vicina a quella proposta per l’Asse attrezzato dal gruppo di lavoro di cui faceva parte insieme a Zevi, Passarelli, Morandi, Dalleani e Quaroni anche se, per la verità, l’obiettivo di realizzare un decentramento delle attività direzionali non fu mai perseguito con convinzione fino a scomparire del tutto nel piano regolatore generale del 2008. Ancora più rapidamente scomparvero le suggestioni dell’Asse attrezzato per una progettazione alla grande scala. Più realisticamente, il Flaminio ha dimostrato di avere una struttura porosa, flessibile, in grado di accogliere nel tempo, in modo incrementale, interventi diversi. Tra le maglie del tessuto residenziale del Villaggio Olimpico, nel 1979 si inserì agevolmente la bella chiesa di San Valentino di Francesco Berarducci, mentre nell’area del vecchio ippodromo di Villa Glori, dopo un concorso internazionale del 1994, prese avvio la realizzazione dell’Auditorium di Renzo Piano.
Lungo l’asse nord-sud della Flaminia, invece, si perse gradualmente la possibilità di realizzare un parco lineare (su cui si era cimentato anche Raffaele De Vico) per far posto ad edifici residenziali (palazzine e fabbricati alti lamellari) e prese forza l’asse perpendicolare est-ovest attestato su via Guido Reni. Nel 2010 venne inaugurato il Museo MAXXI di Zaha Hadid, l’anno successivo il Ponte della Musica progettato dal gruppo inglese Buro Happold. Il ponte avrebbe dovuto accogliere anche una linea tramviaria in direzione piazza Risorgimento, ma anche nella sua funzione attuale esclusivamente pedonale, ha avuto il merito di connettere il Flaminio al versante opposto, al quartiere delle Vittorie e al complesso del Foro Italico, delineando finalmente la correlazione paesaggistica tra il rilievo di Villa Glori e Monte Mario. L’asse est-ovest emergeva con evidenza, consolidandosi ulteriormente con la previsione di realizzare nell’area militare di via Guido Reni un museo delle scienze e un nuovo complesso residenziale (il concorso bandito nel 2015, fu vinto da un raggruppamento coordinato da Paola Viganò).
I due assi (come un cardo e un decumano) si intersecano all’altezza del Palazzetto dello sport di Pierluigi Nervi, formano una croce e rinnovano una sorta di rito fondativo, o meglio di rifondazione. Si tratta infatti di una fondazione tardiva, a posteriori, che nasce dalle vicende di un contesto complesso le cui valenze si sono accumulate e stratificate nel tempo. Per il futuro occorrerà mettere a punto una diversa capacità di governare la dimensione attuativa e temporale dei programmi. È questo, in fondo, il punto di arrivo delle argomentazioni che sostengono il masterplan delineato nel volume curato da Piero Ostilio Rossi. Ed è questo ciò che rende questo lavoro di interesse per una riflessione più ampia che deborda dal caso specifico.
La storia del quartiere Flaminio è strettamente legata a quella del versante al di là del fiume, alla vicenda del Foro Italico (ai progetti di Enrico Del Debbio, alle architetture e ai piani di Luigi Moretti); alla realizzazione dello stadio dei Centomila, poi Olimpico, ricavato nel sito del precedente Stadio dei Cipressi; alla presenza, sulle pendici di Monte Mario, del Ministero degli affari esteri (il Palazzo Littorio progettato dal Del Debbio, Foschini e Ballio Morpurgo); alla difficile sistemazione paesaggistica di Monte Mario; al ruolo strategico e simbolico dei ponti (per condizioni e ragioni diverse tutti i ponti ricadenti nell’area hanno bisogno di programmi di riqualificazione e valorizzazione: dal Ponte Duca di Aosta di Vincenzo Fasolo con le sue gradinate per la discesa sulle rive, all’antico Ponte Milvio pedonale dal 1985, al monumentale ed estraniante Ponte Flaminio di Armando Brasini). Un sistema particolarmente complesso e incompiuto come spiega Andrea Bruschi – uno degli autori del volume – impegnato a ricercare una soluzione urbanistica per riqualificare l’enclave di Prato Falcone e la connessione del Foro Italico Sud con il quartiere Della Vittoria.
Un aspetto avrebbe dovuto essere tenuto presente nella trattazione dell’area del Foro Italico. Prima della sua edificazione, nei primi decenni del ‘900, l’area era destinata ad accogliere una linea ferroviaria che dal nodo di Roma Smistamento (alla Serpentara), doveva congiungersi con Roma San Pietro con due fermate intermedie a Ponte Milvio e a Piazzale Clodio (dove poi è stata realizzata la Città Giudiziaria). La decisione di realizzare il Foro Italico fece accantonare il progetto, ma il problema di predisporre una cintura ferroviaria nel settore urbano settentrionale rimase e portò in occasione dei Mondiali di calcio del ’90 alla costruzione di una galleria sotto Monte Mario con una fermata (Farneto) a servizio dello stadio e una seconda a Vigna Clara. L’operazione fu un disastro (la rete rimase in funzione soltanto per otto giorni) e portò all’abbandono delle due stazioni (1). Il riferimento non è di poco conto, tutta l’area sarà investita da una mobilità di dimensione territoriale: non solo con lo sviluppo della linea C della Metro, ma in prospettiva anche il completamento dell’anello ferroviario (2). In ogni caso fin da ora forse la fermata Farneto dovrebbe essere rimessa in gioco.
Il masterplan presentato nel libro si articola in tre sistemi interrelati: la passeggiata Flaminia (a cura di Paola Guarini), l’asse Monte Mario-Villa Glori (a cura di Andrea Bruschi), la città del fiume (a cura di Paola dell’Aira). Relativamente alla città del fiume, ci sembra opportuno intervenire su una questione sollevata da Dell’Aira quando riferendosi ai muraglioni eretti per contenere le esondazioni del Tevere afferma “mentre l’ingegneria salvava la città, un paradosso ne derivava ineluttabile. La Roma territorio, Roma paesaggio, Roma natura, cedeva il passo alla Roma antropica, città da adeguare, attrezzare e funzionalizzare anche in assolvimento del suo nuovo ruolo di città capitale” (p.185). I muraglioni assolvono questo ruolo, ma costruiscono anche una tipologia assolutamente nuova per la città: i Lungotevere, veri e unici boulevard della capitale (3). Siamo convinti che i muraglioni siano una delle poche infrastrutture moderne di Roma, opere potenti che hanno trasformato il sistema produttivo e sociale del fiume, ma non ne hanno impedito la fruizione, come anche questo libro documenta (il capitolo è di Caterina Padoa Schioppa e Luca Porqueddu). I Lungotevere dei muraglioni hanno integrato a lungo la funzione di arteria stradale con lo spazio pubblico di un viale alberato affacciato sul corso del fiume. Il Lungotevere in sponda sinistra è stato servito da una linea tramviaria fino al 1959, poi è divenuto un corridoio automobilistico ad alta congestione che ha distrutto la sua funzione di passeggiata e spazio pubblico. Tra i Lungotevere dei muraglioni e quelli del Flaminio c’è una differenza che va richiamata e su cui è necessario riflettere. Nei primi, nonostante tutto, è possibile ancora affacciarsi e ricercare – come osserva Dell’Aira – un dialogo tra le “linee alte” (parapetti) e le “linee basse” (banchine). Nei secondi, l’accesso e la visione del fiume sono impediti da una successione continua di impianti e circoli sportivi che di fatto fanno privatizzato il territorio e l’ecosistema dell’alveo.
Come ridimensionare questo processo di alienazione di un bene comune così centrale per la qualità urbana, individuando procedure amministrative ma anche pratiche sociali in difesa di un diritto pubblico, dovrebbe far parte di una politica di piano. Il masterplan indica strategie tese all’inserimento di innesti protesi sul fiume (come a Piazza Mancini), ma è troppo poco rispetto alla dimensione politica e strutturale del problema che, a dire il vero, riguarda anche i waterfront di molte città italiane.
Il volume, nella sua parte conclusiva, ricorda che l’area del Flaminio si colloca in due ambiti di programmazione strategici del piano regolatore generale del 2008: il Tevere e l’asse Flaminio-Fori-Eur. Purtroppo, il riferimento non offre al momento prospettive rassicuranti. Gli ambiti strategici sono stati individuati con attenzione: sono tutti legati alla struttura della città, alla sua storia, alla sua identità, sono tutti ambiti determinanti per il suo futuro. Ma i progetti strategici non possono rimanere sulla carta e nei cassetti, hanno bisogno di visioni d’insieme, di investimenti, di opere, di infrastrutture, di programmi d’intervento incrementali e coordinati nel tempo, di interventi pubblico-privati, di condivisione, di soluzioni adeguate di governance e soprattutto di capacità di regia, di indirizzo e di controllo da parte dell’ente pubblico.
Tutto questo, a Roma come in molti altri casi, ancora non c’è.
Rosario Pavia
Note
1) Omar Cugini, Giovanni Giglio, La storia dell’anello ferroviario di Roma, http://www.ilmondodeitreni.it/anello.html 2) Rosario Pavia, Lungotevere Boulevard, in EWT 21, 2020, www.ecowebtown.it 3) Walter Tocci, Roma come se. Alla ricerca del futuro per la capitale, Donzelli, Roma 2020
N.d.C. - Rosario Pavia, già professore ordinario di Urbanistica all'Università degli Studi "G. d'Annunzio" di Chieti-Pescara, ha diretto il Dipartimento Ambiente Reti e Territorio dello stesso ateneo e il periodico "Piano Progetto Città".
Tra i suoi libri: Le paure dell'urbanistica (Costa & Nolan, 1996); con A. Clementi, Territori e spazi delle infrastrutture (Transeuropa, 1998); Babele. La città della dispersione (Meltemi, 2002); con L. Caravaggi e S. Menichini, Stradepaesaggi (Meltemi, 2004); Adriatico risorsa d'Europa (Diabasis, 2007); con M. Di Venosa, Waterfront. Dal conflitto all'integrazione (LISt, 2012); Il passo della città. Temi per la metropoli futura (Donzelli, 2015); Tra suolo e clima. La terra come infrastruttura ambientale (Donzelli, 2019).
Per Città Bene Comune ha scritto: Il suolo come infrastruttura ambientale (11 maggio 2016); Leggere le connessioni per capire il pianeta (21 giugno 2018); Questo parco s’ha da fare, oggi più che mai (19 aprile 2019).
Sui libri di Rosario Pavia, v. i commenti di: Renzo Riboldazzi, Città: e se ricominciassimo dall’uomo (e dai suoi rifiuti)? (23 settembre 2015); Patrizia Gabellini, Un razionalismo intriso di umanesimo (22 settembre 2016); Paolo Pileri, Suolo: scegliamo di cambiare rotta (28 giugno 2019); Luca Zevi, Forza Davide! Contro i Golia della catastrofe (28 febbraio 2020); Patrizia Gabellini, Suolo e clima: un grado zero da cui ripartire (24 aprile 2020).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
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