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Sul sito Historia ludens è stato pubblicato un breve saggio di Claudia Villani, a nostro parere di grande rilevanza, dedicato alla teoria del Powerful Knowledge, dello studioso inglese Arthur Chapman, docente di didattica della storia presso la University College di Londra, che a sua volta si richiama alle riflessioni del sociologo dell’educazione Michael Young. Ovviamente, è sempre consigliabile consultare le fonti originali; ma in ogni caso, per ampiezza di riferimenti, e per la presenza di un numero adeguato di tabelle comparative, il lettore è in grado di farsi un’idea più che esauriente di questa proposta teorica, e delle rilevanti conseguenze che potrebbe esercitare nel dibattito in corso sulla didattica.
In particolare, l’attenzione di Chapman fa diretto riferimento alla didattica della storia. Argomento di estrema attualità, soprattutto nella presente fase politica, dal momento che nei numerosi documenti di carattere programmatico del MIUR alla storia sembra essere concesso uno spazio piuttosto modesto. E anche perché il ministro ha recentemente istituito una Commissione per ripensare l’insegnamento della storia, presieduta dal prof. Giardina.
Non è nostra ’intenzione replicare l’analisi già esauriente di Claudia Villani. Ci limiteremo a ricordare alcuni punti fermi della teoria di Chapman, proporne un’interpretazione in parte diversa, anche in vista di possibili suggerimenti da offrire alla Commissione appena insediatasi.
Una delegittimazione delle competenze
Quanto Chapman sostiene si oppone radicalmente alla deriva antidisciplinare che ha investito negli ultimi due decenni il percorso di studi pre universitario (ma secondo il ministro Bianchi sarebbe auspicabile che tale processo coinvolgesse la stessa Università). La teoria del Powerful knowledge parte infatti dal presupposto dell’evidente «fallimento in alcuni paesi dell’approccio delle competenze trasversali», così ancora ostinatamente difeso proprio in questi giorni in Italia, e in fondo alla base del discusso elaborato che gli studenti italiani sono stati costretti a produrre per l’Esame di stato. I punti chiave dell’argomentazione sono i seguenti (e se il lettore ricorderà alcuni nostri precedenti interventi sulla didattica della storia, troverà totali convergenze):
· le discipline all’interno del curriculum devono essere adeguatamente distinte tra loro, comprensibili nella loro specificità contenutistica e metodologica;
· allo stesso modo deve essere ben visibile il limite esistente tra la conoscenze disciplinari e quelle «spontanee, provenienti dalla vita quotidiana»;
· la conoscenza disciplinare è quella che produce effettivamente emancipazione intellettuale, in quanto «deve essere acquisita volontariamente dagli studenti a scuola, grazie alle conoscenze specialistiche degli insegnanti».
Secodo Chapman, le attitudini professionali di cui dovrebbe essere in possesso un insegnante sono: la «conoscenza del contenuto», la «conoscenza del concettuale», ovvero delle «idee che strutturano il contenuto» e la «conoscenza procedurale», ovvero «la comprensione di come le conoscenze sono convalidate e sviluppate (epistemologia)».
A nostro parere, tali indicazioni corrispondono esattamente a quel modello di scuola e di professionalità docente che da più di due decenni si è deciso di smantellare. Ovvero quella in cui la trasmissione di conoscenza è affidata a un insegnante dotato di una solida preparazione universitaria nella disciplina che è chiamato a insegnare, capace di padroneggiarne gli apparati concettuali e di tenersi sempre aggiornato grazie al continuo contatto con la comunità scientifica (epistemica).
Un'idea totalmente opposta a quella che sta guidando i recenti concorsi per il personale docente, che puntano proprio a svalorizzare la preparazione disciplinare; nonché le proposte per l’aggiornamento obbligatorio, con la prossima Scuola di Alta formazione, in buona parte affidata ad INVALSI e INDIRE e non invece, come sarebbe opportuno, alle facoltà universitarie della disciplina insegnata dal docente.
Un’alternativa alle proposte dell’OCSE
Si tratta insomma di un’idea di scuola radicalmente alternativa, che avrebbe almeno il diritto di essere presa in considerazione da quei decisori politici che intendono intraprendere una direzione affatto contraria. Una scuola completamente differente da quella che sembra avere in mente l’OCSE. Nell’articolo che andiamo commentando vi sono utilissime tabelle comparative tra quanto propone la teoria Powerful knowledge e il progetto dell’OCSE; le risultanze che però l’Autrice ne trae, di parziale convergenza, non sono, a nostro parere, coerenti con l’analisi. È vero che è lo stesso Chapman a dichiarare che «si sarebbe prodotta recentemente una inversione di tendenza, con il ritorno della centralità delle conoscenze e delle singole discipline». E che si sarebbe verificato «un vero e proprio knowledge turn sia a livello internazionale (OCSE 2019), sia in Inghilterra». Per cui l’articolo non forza certo la mano all’Autore che intende commentare. E sarebbe bene che in Italia si tenesse conto di queste inversioni di tendenza, prima di importare modelli che altrove hanno mostrato tutta la loro inefficacia. Eppure, se si esaminano attentamente le benemerite tabelle comparative, le differenze appaiono nette, e le due ipotesi totalmente alternative; per cui l’affermazione di Chapman sembra essere più un auspicio che una constatazione.
Proponiamo solo alcuni brevi esempi, rimandando per una verifica a una lettura integrale dell’articolo; e tralasciamo i riferimenti storico-culturali che, secondo l’OCSE, caratterizzerebbero le società del XIX, XX e XXI secolo, motivando di conseguenza diversi approcci educativi. Sono così generiche e piene di errori che la stessa autrice ne prende in parte le distanze. Veniamo invece ad esempi più significativi: in riferimento alla flessibilità, laddove la powerful knwoledge la intende come «l’aggiornamento coerente con i progressi delle conoscenze nelle università», la learning compass (ovvero la proposta didattica dell’OCSE declinata sugli obiettivi dell’Agenda 2030), la intende come «non linearità e dinamicità del curricolo, in nome di obiettivi generali».
L’impressione è che quanto auspicato dall’OCSE risulti decisamente generico, limitandosi a una semplificazione dei contenuti didattici, per valorizzarne esclusivamente il risvolto pratico, a scapito di un'adeguata preparazione teorica. Di conseguenza, la «personalizzazione dell’apprendimento», se da una parte è «garanzia che tutti gli studenti possano acquisire la “migliore conoscenza” offerta dalle singole discipline [...] colmando le differenze che possono aumentare la distanza tra scuola e vita», per l’OCSE è «adeguamento alle differenze tra i singoli studenti [...] per consentire di “imparare in modo diverso”»; si tratta di una rinuncia all’unicità della cultura, per adattare il sapere trasmesso a scuola alle condizioni di partenza dell’alunno stesso, impedendogli un reale progresso cognitivo ed esistenziale. Proponiamo un ultimo esempio: il powerful knowledge auspica che la conoscenza trasmessa a scuola sia distinta «dall’esperienza quotidiana» e «prodotta da comunità epistemiche disciplinari»; la learning compass invece intende le “conoscenze epistemiche” come «conoscenza delle diverse forme e usi della conoscenza, per capire lo scopo dell’apprendimento, l’applicazione dell’apprendimento» e «comprendere come i professionisti pensano, agiscono, lavorano»; non a caso, come viene precisato più avanti, «valorizzando soprattutto quelle conoscenze procedurali che sono trasferibili, utilizzabili in diversi contesti e situazioni».
Una conferma di quanto è già patrimonio della professione docente
Non ci sembra allora di sostenere una posizione faziosa, se notiamo come esista ancora una grande distanza tra le proposte dell’OCSE, legate al vecchio paradigma delle competenze, e la proposta della Powerful konwledge. In ogni caso, quest’ultima è assolutamente alternativa alla politica scolastica in atto in Italia.
Di conseguenza, non riteniamo -ed è questa la principale nostra presa di distanza da quanto sostenuto da Claudia Villani- che la powerful knowledge prevederebbe una sorta di “terza via” sulla scuola, prendendo sia la distanze da quella orientata tutta alla valorizzazione delle competenze trasversali, ma anche da un vecchio modello di scuola (non ben precisato però nelle sua coordinate storiche ed usato in funzione idealtipica) dove, non si sa perché, mancherebbe soprattutto la funzione epistemica, ovvero il legame tra ricerca universitaria disciplinare e aggiornamento degli insegnanti. Se ciò non è avvenuto è per una evidente scelta politico-culturale degli ultimi anni, non certo perché quel tipo di scuola non era predisposta a un tale modo di concepire l'aggiornamento.
Sembrerebbe essere questo il pensiero della Villani, soprattutto quando invita a prendere le distanze dai vari Appelli sulla scuola, che difenderebbero un modello d’istruzione ormai desueto. Se prendiamo a riferimento sia l’Appello del 2017, sia il recente Manifesto della nuova scuola, e ne leggiamo attentamente le proposte, ci sembra di poter notare un’assoluta convergenza nei contenuti (privilegio delle discipline, restituzione di centralità alla lezione rispetto ai continui progetti e attività extracurricolari che ne interrompono continuamente il corso, valorizzazione della funzione docente). Ne è da sottovalutare come in entrambi i casi compaiano, tra le personalità che lo hanno sottoscritto, le firme dei principali storici del nostro paese. Certo, l’approccio metodologico è diverso; Chapman usa un linguaggio più vicino al mondo della pedagogia anglosassone. In effetti, è possibile arrivare alle medesime conclusioni anche rimanendo nel solco della tradizione pedagogica italiana; semmai il merito di quanto sostenuto dallo studioso inglese è da una parte quello di ravvivare il dibattito in corso e opporsi a delle derive riformatrici che sembrano inarrestabili; dall’altra confermare delle ovvietà in merito a ciò che veramente aiuta gli studenti nel loro processo di emancipazione intellettuale, che sono già evidenza empirica del lavoro di buona parte dei docenti della scuola.
Conclusioni sulla storia
Come anticipato all’inizio, l’analisi in oggetto, nell'ultimo paragrafo, significativamente intitolato La storia come Powerful knowledge, intende mettere a fuoco soprattutto il tema della didattica della storia. Si rimane in parte delusi per la genericità del giudizio; da una parte, giustamente, si fa notare la grande sottrazione di tempo che in questi anni l’insegnamento della storia ha subito, schiacciata «tra i tempi delle giornate della memoria, gli obiettivi delle competenze trasversali (di cittadinanza, ambientale, ecc.)» e i danni che tali interruzioni producono a livello cognitivo sugli studenti, ben sintetizzati dalla citazione di Young, che conclude la riflessione: «Senza l’opportunità di acquisire concetti storici, la capacità intellettuale degli studenti può essere impoverita». La parte propositiva rimane invece generica: «Si può disegnare un curricolo di storia all’altezza dei tempi in cui viviamo: un curricolo “ricco di conoscenze”, “potente” negli strumenti epistemologici, in grado di aiutarci a navigare consapevolmente nel presente globalizzato e iper-mediatizzato in cui viviamo, “aperto” al futuro e non custode di tradizioni». Prescindendo dall’ambiguità di quest’ultima affermazione, non compare alcuna presa di posizione su alcune proposte che stanno fortemente preoccupando gli insegnanti della disciplina; e un tale auspicio potrebbe essere condiviso anche da chi in questi anni ha fortemente ridotto la rilevanza dell’insegnamento della storia nelle scuole, con la scusa di ricercare le mitiche “competenze trasversali”.
È mancato insomma il coraggio di mettere in corto circuito queste riflessioni con quanto si va auspicando per la didattica della storia in Italia: ovvero un percorso indistinto per macro argomenti in cui la storia rientrerebbe al di fuori di ogni continuità storicistica (e in parte già presente nelle modalità con cui l’Esame di Stato prevede la prova orale); l’imposizione ai manuali di inutili ed elefantiaci apparati didattici; l’umiliazione metodologica della disciplina piegata alla logica del problem solving; la riduzione dell’approccio interpretativo, e quindi storiografico, al sapere; lo scarso riferimento al bagaglio concettuale della storia (quindi al suo contributo veritativo alla conoscenza universale), in nome della valorizzazione esclusiva della praticità del sapere.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 21 LUGLIO 2021 |