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Il nuovo libro di Giulio Ferroni sulla scuola (Una Scuola per il Futuro, La Nave di Teseo, 2021) si presenta come un’approfondita riflessione “in tempo reale” sugli effetti prodotti dal lockdown, che hanno coinvolto il tessuto sociale, così come il mondo della cultura. Un’esperienza così improvvisa e sconvolgente, che costringe in particolare gli intellettuali a ripensare l’intero loro bagaglio concettuale. E, in virtù di questa nuova esigenza, anche il ruolo della scuola si ripropone come decisivo, restituendole una missione irrinunciabile in vista di questa nuova auspicata consapevolezza; proprio assumendo questo punto di vista, appare ancora una volta manchevole la ormai più che ventennale azione riformatrice. Il libro di Ferroni potrebbe però sorprendere, in quanto contiene sì la parola “scuola” nel titolo; ma alla scuola in senso stretto dedica solo uno dei sei capitoli, quello centrale. Non si tratta affatto di un’incoerenza, e la riflessione sul destino dell’istruzione ne esce -come vedremo- addirittura rafforzata.
Il COVID-19 ha creato condizioni d’esistenza così nuove, che è impossibile non riformulare con radicalità i fondamenti epistemici con cui i vari saperi disciplinari si fanno interpreti dei mutamenti storici. Ferroni propone come esempio l’esigenza da lui avvertita di rimettere in discussione alcuni paradigmi, in particolare i criteri di periodizzazione, della storia della letteratura da lui scritta per i licei. Ma per compiere questa operazione intellettuale occorre un grande sforzo di storicizzazione, necessario ogni volta che si affronta un profondo mutamento contestuale, da cui si origina una diversa epoca storica. Il secondo capitolo non casualmente è dedicato al rapporto tra storia della letteratura e storia d’Italia, al fine di cogliere proprio la corrispondenza, con il procedere del tempo storico, tra lo sviluppo della cultura e il formarsi della coscienza nazionale; un confronto non dissimile a quello che, in campo filosofico, ha riguardato il cosiddetto italian thought.
Il quarto capitolo, dal titolo molto impegnativo (Per la scuola: dal capitale umano all’umanesimo ambientale), trova senso proprio a seguito di questa riflessione. Si tratta di considerazioni, come era lecito aspettarsi, piuttosto critiche verso l’azione riformatrice del ministro Bianchi. In una fase storica che ha drammaticamente realizzato nella scuola due condizioni profeticamente intuite nei lavori precedenti di Ferroni (durante l’epidemia la scuola è diventata effettivamente «sospesa» e «impossibile») la risposta delle istituzioni non è parsa all’altezza dei tempi. Ferroni peraltro conviene sull’assunto che è necessario pensare a innovazioni decisive, in vista della «scuola del futuro» richiamata nel titolo. Ma tale proposito, come abbiamo visto, può attuarsi unicamente attraverso una prospettiva storicizzante, rifiutando il «presentismo» dei tempi attuali. Esattamente il contrario dell’azione riformatrice della quale Ferroni coglie in modo lucido tutte quelle criticità che anche su questo portale ci è capitato più volte di porre all’attenzione: il distacco totale tra la scuola e la cultura nel suo senso più profondo; una deriva economicistica che piega l’istruzione alla logica dell’utile, con l’utilizzo ormai ordinario dell’inquietante espressione «capitale umano»; le presunte innovazioni, tutte intese nel segno della riduzione del sapere critico, anche rispetto all’educazione scientifica (in particolare le STEM); la totale sottovalutazione del peso formativo delle discipline umanistiche, ben espresso dal risibile acronimo STEAM; la dittatura di un digitale decontestualizzato da qualsiasi effettiva relazione, positiva e negativa, con la dimensione della socialità che tende inevitabilmente a condizionare. Non ha senso riepilogare alcune considerazioni con chi legge non farà fatica a immaginare, né vogliamo togliergli il piacere della lettura. Ricordiamo solo il punto cruciale su cui Ferroni insiste, che impedisce di collocarlo tra le figure dei “conservatori” e “nostalgici”; lo studioso propone infatti un profondo rinnovamento della scuola, che dovrebbe essere capace di comunicare il carattere “unitario” del sapere, non però da identificarsi con la superficiale interdisciplinarità che si è imposta ormai anche nell’ultima versione dell’esame di Stato. La sfida del presente, sanitaria, ambientale, civile, impone tale svolta, ma a precise condizioni: «[...] la convergenza tra discipline diverse nel quadro di un umanesimo ambientale non può prescindere da un confronto con i corpi concreti delle stesse discipline», né ridursi a un vuoto formalismo, «al gioco indeterminato delle competenze, di una flessibilità indeterminata, orientata verso un problem solving che ignori le condizioni da cui il problema è scaturito».
La parte finale del libro, composta de ben due capitoli, pare allontanarsi dal tema. Viene effettuata una lunga e articolata disamina sulla letteratura all’epoca del COVID, su quelle numerose pubblicazioni, brevi o occasionali, o più meditate, che hanno imperversato in questi mesi e coinvolto un po’ tutti i generi letterari. Lo scopo è proprio valutare, caso per caso, la capacità del mondo della letteratura e della cultura in genere di rispondere a tale sfida; perplesso appare il giudizio sull’ingenuo entusiasmo per il game da parte di Alessandro Baricco (un’utopia che il digitale avrebbe finalmente permesso di realizzare), un classico esempio di annullamento della coscienza storica, contrapposto all’inarrivabile Dante, modello di «comprensione di sé a partire dal proprio spazio storico».
Ma è proprio nel corso di queste pagine che comprendiamo il messaggio profondo che Ferroni ha voluto comunicare con quest’ultima sua fatica, ovvero l’elogio di un approccio al sapere che sappia comprendere la realtà da un punto di vista olistico, trascendendo il puro pragmatismo economico; poiché, «senza fare i conti con i modelli culturali che il capitalismo impone, senza valutare le dimensioni mentali scaturite dall’orizzonte economico, le posture psicologiche, antropologiche, comunicative, il quadro dei desideri, delle pulsioni, dei simulacri della semiosfera, ogni azione riformatrice e correttrice viene ad arenarsi». Ed è significativo che proprio in queste ultime pagine venga ripreso il discorso sulla scuola. L’attuale politica riformatrice, infatti, non rappresenta affatto un tentativo di rinnovamento, bensì di ostinata restaurazione, una «querimonia corporativa», in linea con il «disinvolto cinismo» dei tempi. Il vero scopo perseguito dai riformatori, certo non in linea con le esigenze indicate da Ferroni, sembra essere la creazione di un’organizzazione formativa finalizzata al disciplinamento delle menti, per rendere i soggetti buoni esecutori, incapaci al contempo di esercitare il pensiero critico. La scuola, così come accaduto a buona parte del mondo della cultura, dovrebbe rinunciare, secondo questa prospettiva, «ad ogni critica radicale del presente», adagiandosi nel «corrente senso comune» Non a caso, questa scuola manifesta un profondo humus anti culturale, e insegue le forme più mediocri e volgari di spettacolarizzazione, affidandosi agli influencer (impagabili a questo proposito le riflessioni di Ferroni sulla presenza di Chiara Ferragni agli Uffizi). Il risultato non potrà che dare luogo a una continua «deriva antropologica», nel silenzio spesso proprio degli intellettuali. E sta anche ai docenti cercare di contrastarla.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 10 DICEMBRE 2021 |