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Il volume Il Diritto alla Storia[i], presentato presso la Casa della Cultura il 25 maggio 2022, già nel titolo lascia immaginare quale minorazione cognitiva, se non addirittura antropologica, comporti un percorso di istruzione in cui il sapere storico venga sostanzialmente mortificato, ridotto a presenza appena sopportata rispetto ad altri curricoli considerati di maggiore rilevanza formativa.
Nella presentazione al volume il tema della didattica della storia è rimasto sullo sfondo, con un significativo accenno da parte di Angelo d’Orsi, il quale ha ricordato lo scandalo culturale rappresentato dalla scarsa considerazione di cui gode la disciplina all’interno dell’istituzione scolastica. Nei diversi contributi compresi nel volume il tema è sovente toccato in modo significativo; sia perché l’idea del diritto alla storia non può non investire il luogo per eccellenza in cui ogni cittadino entra in contatto con la cultura e il sapere, sia perché la terza domanda proposta ai vari interlocutori –quella dedicata alla divulgazione storica- ha finito in molte risposte per investire il tema dell’insegnamento della disciplina, in particolare nel percorso di studi pre-universitario.
Mi sembra che due concetti emergano con evidenza dall’insieme dei vari interventi: uno è quello di “pluridisciplinarità”, che si identifica con la stessa missione della rivista Historia Magistra, cui collaborano da sempre studiosi provenienti da più fronti disciplinari. E, non a caso, una dei principali obiettivi del volume è proprio quello di testimoniare il pluralistico rapporto con la storia di tali diversi orientamenti al sapere. Se ne evince che la pluridisciplinarità, quella vera, ha ben poco a che vedere con ciò che viene a parole valorizzato nell’attuale Esame di Stato, in particolare nella fase del “colloquio”. Caratterizzato da un semplicistico e spesso casuale accostamento su un limitato materiale di partenza e per di più semplificato, in particolare a causa della riduzione d’orario che i docenti hanno subito in questi ultimi anni. Un’autentica pluridisciplinarità, infatti, non può che originarsi a partire da un intreccio complesso. Come giustamente scrive nel suo contributo Fiorenza Taricone, non è possibile separare la divulgazione dalla “complessità”: «il destinatario [della divulgazione n.d.A.], per non essere passivo e sviluppare una cultura critica, ha bisogno di avere ben afferrato non solo gli elementi fondamentali di ciò che viene divulgato, ma anche avere un’idea chiara della profondità e della complessità degli argomenti proposti»[ii]. Ovvero la divulgazione serve a proporre in una forma comunicativa agevole la complessità irrinunciabile di alcune questioni, in un tentativo che, proprio per questo, non può che essere portato avanti da autentici esperti del campo di studi di cui si intende promuovere una conoscenza più diffusa. La divulgazione come semplicità, in effetti, rischia di diventare distorsione ideologica. Non a caso, nel dibattito pubblico sull’attuale e drammatica fase della politica internazionale, questo concetto è stato sottoposto a volgari e strumentali deformazioni, per orientare l’opinione pubblica verso un’unica possibile interpretazione degli eventi.
Tutti gli interventi sottolineano inoltre in modo convinto l’irrinunciabilità dello sguardo storico rispetto a qualsiasi campo disciplinare. Mi soffermerei in particolare –in ragione soprattutto del tema che vorrei privilegiare in queste righe- sul contributo di Fabio Minazzi. Non solo perché la rivendicazione della storicità quale dimensione interpretante indispensabile per qualsiasi ambito d’esperienza viene in questo caso da un epistemologo, da chi cioè potrebbe proporre il primato gnoseologico dell’oggettivazione estranea alla dimensione della storicità[iii]; ma perché Minazzi ha in questi anni voluto interessarsi in prima persona al tema della riforma della scuola, promuovendo un gruppo di studio che ne ricostruisse la storia. Una ricostruzione storica, senza la quale è impossibile comprendere la ratio dei singoli provvedimenti che hanno cambiato in modo profondo l’organizzazione e le finalità della scuola della Costituzione, compendiata nel volume edito da Mimesis nel 2019, La scuola dell’ignoranza. Anch’esso presentato presso la Casa della Cultura.[iv]
Questo contributo ritengo sia importante proprio in considerazione del tema della didattica della storia, e di come esso venga affrontato anche da parte di storici autorevoli. Si è preteso cioè di discutere di insegnamento della storia nei percorsi pre-universitari unicamente facendo riferimento alle caratteristiche epistemiche della disciplina, senza però collocare le varie proposte con cui si vorrebbe trasformare la “lezione di storia” con la ratio che, sia pure a volte in modo contraddittorio e con vistosi rallentamenti, ha guidato la politica ministeriale in questi ultimi venticinque anni; e che si fondava sulla svalutazione del sapere disciplinare, sulla subordinazione dell’insegnamento di qualsiasi disciplina a criteri e obiettivi pratico-produttivi che comportano, evidentemente, il rifiuto di qualsiasi approccio alle discipline di carattere storicistico. Si è affrontato cioè il tema dell’insegnamento della storia in modo astorico, senza fare riferimento alla “storia dell’insegnamento della storia” medesimo, e alla storia dell’istituzione entro cui tale insegnamento dovrebbe avere luogo.
Il nodo concettuale centrale del ragionamento di Minazzi riguarda la natura intrinsecamente storica delle stesse discipline scientifiche, in opposizione a quell’impostazione “neo-idealista” che distinguerebbe discipline propriamente storiche, da altre “forti”, caratterizzate da un nucleo di verità oggettivo che trascenderebbe la dimensione della storicità[v].
Non c’è dubbio che l’opzione pedagogica prevalsa in questi anni sia andata nella direzione opposta a quella auspicata da Minazzi; ovvero non si è impostato storicamente lo studio delle scienze, ma si è in qualche modo voluto “destoricizzare” l’altro fronte disciplinare, quello cosiddetto “umanistico”, e addirittura la stessa storia. Ovvero si vuole imporre alla trasmissione didattica di qualsiasi disciplina una metodologia comunicativa derivata dal “pedagogismo”, cioè da una serie di teorie che ritengono di poter affermare l’esistenza di procedure oggettive relative all’apprendimento che, proprio perché validate scientificamente, sono di per sé irrinunciabili. Gelosi custodi di tali procedure sono spesso i dipartimenti di scienze dell’educazione, che ambiscono a esercitare questa funzione formativa coatta nei confronti degli insegnanti, la quale garantirebbe il raggiungimento dei risultati attesi, e quindi il successo formativo. Questa presunta scienza –nient’affatto considerata tale da buona parte della comunità scientifica-, fondata sull’ambiguo costrutto di competenze, ritiene ormai che la relazione educativa debba seguire una procedura rigorosa, formalizzante e soggetta a verifiche di carattere quantitativo. Lo storico Francesco Germinario[vi] è stato tra i primi a notare l’inconciliabilità di tale modo di intendere la didattica non solo con le autentiche caratteristiche della storia come disciplina, ma con i suoi obiettivi e valori formativi.
Da qui la contraddizione metodologica cui si accennava sopra; al posto di problematizzare il tema della didattica della storia in base alle ben precise e distinte condizioni che storicamente si sono verificate in questi venticinque anni di politica scolastica, le pubblicazioni più diffuse sulla didattica della storia –anche promosse da importanti associazioni di storici- hanno fatto propria acriticamente quest’idea che esista tale procedura oggettiva e uniformante.
Se valutassimo il tema della didattica della storia nel modo a nostro parere più opportuno, ovvero attraverso una comprensione storica di quanto è accaduto alla scuola italiana in questi decenni, sarebbe possibile constatare come, pur col variare dei provvedimenti, l’intento evidente fosse quello di piegare i contenuti della disciplina a una forzatura metodologica, impedendo di fatto la libertà d’insegnamento. Il fine perseguito era cioè l’imposizione di un metodo, cui i contenuti dovevano essere totalmente subordinati.
La logica del pedagogismo, infatti, parte dal presupposto che la scuola debba cercare di formare nel discente quelle competenze in grado di poter essere spese al di fuori dell’ambito scolastico, in particolare quelle inclini alla flessibilità, richieste dall’attuale mercato del lavoro. Per comprendere quanto, rispetto a tale finalità formativa, le discipline abbiano una mera funzione strumentale, si può fare riferimento a un documento dedicato alla didattica della filosofia, pubblicato diversi anni fa, e che fece in qualche modo da apripista anche rispetto ad altre discipline. Questo testo intendeva illustrare una nuova modalità di insegnamento della filosofia a partire proprio dal paradigma dell’acquisizione di competenze. Addirittura, si giungeva ad affermare che era possibile per gli alunni acquisire competenze filosofiche in assenza dei contenuti corrispondenti[vii].
Si può provare a immaginare cosa ne sarebbe della storia se il suo insegnamento fosse concepito sulla base di tale paradigma. Recentemente è stato pubblicato un saggio sulla Rivista Il Mulino, nel quale si propone un radicale rinnovamento del curricolo; la proposta dirompente è quella di dedicare l’ultimo triennio di studi liceali unicamente all’attività di indagine storica, in alternativa a uno studio evenemenziale, che rappresenterebbe un’impostazione manualistica. Ci sembra che l’Autrice, Mariangela Caprara, si richiami a una tesi espressa tempo fa da Mauro Piras [viii], il quale anch’egli riteneva adeguato dedicare il triennio conclusivo ad attività di approfondimento monografico, sulla base delle nozioni apprese dagli alunni nei cicli scolastici precedenti (elementari e secondarie di primo grado). Ci sembra quanto meno ottimistico dare un credito così rilevante a tale preparazione, in nome di quella “complessità” necessaria anche nella divulgazione, cui faceva cenno la Taricone; oltre al fatto che nei primi due cicli scolastici non avviene più un insegnamento organizzato in modo così tradizionale. Si tratterebbe in ogni caso di una conoscenza pregressa così distante nel tempo, dai contenuti minimi, e acquisita in anni di sviluppo psicologico e cognitivo talmente diversi da quelli del triennio superiore, da impedire qualsiasi seria ipotesi di approfondimento. [ix]
In nome di quella “complessità” sopra richiamata, l’idea di effettuare ricerca storica in assenza di adeguata conoscenza storica non ci sembra obbedire all’intenzione, pur dichiarata, di valorizzare lo specifico disciplinare, ma una sua subordinazione a una concezione pratica dell’istruzione che, nello sviluppare l’aspetto operativo-produttivo, trascura in modo preoccupante la riflessione teorica.
Ma, errore ancora più fatale che il contributo di Minazzi al volume consente di smascherare, questa proposta di insegnamento della storia cede all’idea che le discipline scientifiche siano rappresentanti di un sapere oggettivo-universale e quindi astorico, con la conseguente interiorizzazione di una sorta d’inferiorità epistemologica della storia, nonché del suo contributo veritativo; per cui, di fronte a tanta sicumera sulle modalità con cui funzionerebbe il processo di apprendimento, al docente di storia non rimarrebbe altro che adeguarsi. Laddove invece un’analisi storico-critica permetterebbe di cogliere la valenza ideologico-politica di tale pretesa, e leggerla alla luce delle importanti trasformazioni che hanno interessato la cultura nei Paesi occidentali in questi decenni.
Questo cedimento al non storico fa sì che la disciplina stessa favorisca l’imporsi del presentismo oggi prevalente –come ha ben sottolineato sempre nella pagine poco sopra segnalate F.Germinario-, poiché si risolve nel rifiuto di analisi di ampio spettro cronologico, e fa propria l’impostazione del problem solving, destinata a espellere dalla scuola l’interpretazione e la storiografia. I contenuti disciplinari e la pratica dell’approfondimento dovrebbero invece procedere di pari passo. Nel caso specifico della storia, ci sembra difficile immaginare una capacità di intervento storico-critico se il processo di acquisizione di conoscenza non abbia presente la successione che si è verificata tra le diverse “metafore assolute” che hanno caratterizzato la storia dell’umanità. Come è possibile realizzare un’indagine storiografica adeguata alle capacità intellettuali di uno studente dell’ultimo anno di corso del triennio (quindi una sorta di approfondimento storiografico) se contemporaneamente non si procede a un processo di informazione e studio relativo alla storia mondiale nel Novecento nel suo complesso? Ritengo che questa sia l’esperienza di buona parte dei docenti. E che tale riflessione sveli l’autentica ratio dell’idea di ridurre le ore settimanali di svolgimento della storia nel triennio da tre a due, ovvero un modo per impedire qualsiasi percorso cronologicamente coerente e costringere gli insegnanti, al di là delle loro convinzioni, a cedere e a organizzare esclusivamente ricerche su argomenti specifici. In vista però non di potenziare la conoscenza storica, ma di servirsi della storia per ridurla a una pratica sostanzialmente laboratoriale. Pratica che, ritenuta garanzia di scientificità, mortifica invece paradossalmente le stesse discipline scientifiche, non padroneggiate nei loro fondamenti teorici e non conosciute nella loro evoluzione storica.
Di fronte a tale situazione, ascoltare anche dotti storici che parlano dell’inopportunità della cattedra di storia e filosofia suona quanto mai anacronistico. Se tale accostamento disciplinare poté fare danni negli anni immediatamente successivi alla sua introduzione, oggi la mortificazione del sapere disciplinare ha ben altre cause. Ma, con una retorica capace di affascinare chi la scuola la conosce poco, questo impoverimento della storia viene fatto passare come volontà di ridare finalmente agli esperti di storia un considerazione che adesso loro mancherebbe, e in questo senso la critica alla coppia storia-filosofia torna utile. Nell’articolo di Mariangela Caprara si fa intendere che se la storia viene ancora insegnata secondo un processo evenemenziale è perché essa non è affidata ai laureati di storia, ma a non esperti (filosofi o insegnanti di lettere) che possono intenderla solo in un’accezione manualistica. Al di là del fatto che qualsiasi seria verifica empirica –che peraltro manca- dimostrerebbe che non è questa l’origine del problema, si vuol far credere che storici laureati, in quanto esperti della disciplina, saprebbero introdurre metodi innovativi d’insegnamento. Guarda caso però, proprio quei metodi pedagogistici che si fondano sul dominio del presentismo e sull’interpretazione astorica del concetto di “scientificità”.
Molti docenti di storia nei Licei si attendono allora un appoggio intellettuale e uno sforzo di comprensione dei loro problemi da parte dei rappresentanti più illustri della disciplina che essi insegnano. Spesso però, al di là di queste buone intenzioni, non vi è la conoscenza da parte di molti dei problemi specifici che in questi anni hanno coinvolto la scuola. Ne sono un esempio gli elefantiaci quanto inutili apparti didattici che occupano i manuali, con esercizi per lo più superflui se non assurdi (nel momento in cui pretendono di separare le conoscenze teoriche da quelle pratico-operative, per agire su fantomatici differenziati processi di apprendimento).[x] Sicuramente essi sono dovuti a gruppi redazionali cui l’Autore affida quelle parti; ma sarebbe interessante che alcuni storici facessero presenti agli editori la loro non volontà di adeguarsi a schemi così impoverenti la disciplina; e di presentarsi agli insegnanti, sul mercato dell’editoria scolastica, con questa coraggiosa immagine contro corrente.
[i] AA.VV, a cura di A.D’Orsi, F.Chiarotto, Il diritto alla storia. Saggi, testimonianze, documenti per “Historia Magistra”, Accademia University press, Torino 2021. Il volume si propone di celebrare i dieci anni d’esistenza della rivista Historia Magistra, diretta da Angelo d’Orsi.
[iii] «Entro questo quadro epistemologico appare allora del tutto evidente come proprio l’espulsione sistematica della dimensione storica dalla riflessione epistemologica più sofisticata e rigorosa, abbia costituito l’universo di pensiero largamente condiviso dalla maggioranza degli epistemologi i quali, pur appartenendo a differenti e contrastanti tradizioni concettuali […] hanno tuttavia dato per scontato che si potesse individuare il “vero” metodo della scienza prescindendo radicalmente dallo stesso sviluppo storico della scienza e della tecnica!». Cfr. AA.VV., Il diritto alla storia, cit., p.176.
[iv] AA.VV., La scuola dell’ignoranza, a.c. di S.Colella, D.Generali, F.Minazzi, Mimesis, Milano 2019.
[v] Cfr. Il diritto alla storia, cit., p.173: «[…] ogni singola disciplina è inevitabilmente costretta a fare i conti con la propria, intrinseca, dimensione storica, con la conseguenza, paradossale, che allora la tradizionale storia “generalista” deve essere necessariamente superata, a favore della costruzione e dello studio di una storicità critica diffusa la quale dovrebbe, appunto, diventare una componente irrinunciabile per ogni singola e differente disciplina, la quale ultima non può insomma essere studiata e adeguatamente compresa se si prescinde dalla sua irrinunciabile dimensione storica».
[vi] F.Germinario, Un mondo senza storia, Asterios, Trieste 2027, pp.9-46.
[vii]«E, data l’universalità degli atteggiamenti di razionalità e comprensione, tale processo può avvenire anche in assenza dello specifico insegnamento, poiché la curvatura filosofica della personalità può anche essere indipendente dalla preparazione dottrinale e sostanziarsi invece nell’esercizio attivo e ampio del pensiero». Cfr Orientamenti…, p.16.
[viii] M.Piras, Sull’asservimento della storia nella scuola italiana e sui mezzi per liberarla, relazione tenuta al workshop “Ricostruire ed argomentare”, Bologna 23 febbraio 2018.
[ix] Una simile proposta ci sembra in linea con l’idea, più volte avanzata negli ambienti favorevoli alla riforma, ovvero di impostare la didattica del triennio superiore organizzando alcuni approfondimenti tematici, rispetto ai quali ogni disciplina offre il proprio contributo di conoscenza, inserendosi in questa rete concettuale, e rinunciando a un’esposizione cronologicamente ordinata dei propri contenuti specifici, nonché del proprio metodo d’indagine. La trasformazione del “colloquio” nell’esame di Stato secondo questa modalità è un tentativo per obbligare i consigli di classe a lavorare in base a questa prospettiva. Per cui tale riforma dell’insegnamento della storia sembra più mirata ad appoggiare tale trasformazione della didattica, che non a valorizzare la disciplina in sé.
[x] Mi permetto di rimandare a G.Carosotti, Valorizzazione e banalizzazione della storia. Su una tendenza schizofrenica nei manuali di storia della Secondaria Superiore, in Historia Magistra, anno XII, n°32, 2020, pp.86-95.
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