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È indubbio che il tema del flâneur sia tornato di moda, in varie discipline: dalla letteratura alla sociologia, dalla filosofia all’urbanistica. Se proviamo a chiederci i motivi principali di tale interesse potremmo individuarne tre. Il primo riguarda un tratto tipico della postmodernità, in termini di individualizzazione delle pratiche di vita che, declinate sul piano del rapporto con la città, comportano una serie di pratiche originali o, quantomeno, atteggiamenti critici nei confronti della società di massa e dei luoghi significanti che la contestualizzano. Il secondo aspetto concerne le rapide trasformazioni urbane che richiedono un passo più lento, rispetto all’attuale, per essere lette e interpretate, pena l’ottundimento di natura blasé descritto da Georg Simmel e che genera un’indifferenza, una freddezza dei sentimenti, una standardizzazione dei comportamenti, che alla lunga però può logorare il nostro stare al mondo, in mezzo agli altri, di cui forse abbiamo paura ma anche da cui siamo attratti. Il terzo tema ha a che fare con la pratica del camminare come messa in campo del corpo e dei sensi nel vivere la città. Non si contano i volumi che hanno trattato negli ultimi anni questi argomenti, soprattutto a partire da Rebecca Solnit (2002).
Tali tematiche generali sono andate strutturandosi in forma di alveo nel quale sono confluite tantissime pagine: a partire da Charles Baudelaire e Walter Benjamin per arrivare fino ai nostri giorni e alle migliaia di scienziati sociali, umanisti, artisti e letterati che si sono misurati con la figura del flâneur. Nonostante questo (o forse proprio per questo) credo che la questione della flânerie continui ad essere attraversata da una serie di problematiche e contraddizioni irrisolte. Quella che qui più mi preme maggiormente sottolineare – e che mi pone spesso in una condizione di minoranza quando ne discuto con i colleghi e le colleghe – riguarda la dimensione egoistica, non dico amorale, ma comunque più estetica che etica, che contraddistingue questa figura. Faccio ad esempio molta fatica a ritrovare connessioni con il Situazionismo e la sua critica sociale alla società. Il flâneur non si muove mai in gruppo ma è solitario, solo nella folla e di questa cerca di sfruttare il calore che lo conforta dallo spleen, senza nulla restituire. In questa sorta di sopravvivenza sentimentale, il flâneur guarda in faccia tutti e nello stesso tempo nessuno, non deve salvare qualcuno se non sé stesso; certo nelle sue flânerie è chiamato a confrontarsi con gli interstizi urbani, a viverli rischiando la propria incolumità per godere della vita, per capire la città e restituirne un’immagine grazie alle sue opere. Primum vivere, deinde philosophari. Chi ci legge capirà quanto sia difficile difendere una figura che presenta caratteri ossimorici e soprattutto non sempre brilla per simpatia. Ma spesso all’odio si accompagna l’amore e così nel tempo il flâneur non ha perso il suo carisma. Con Lucia Quaquarelli, una collega di Paris Nanterre con cui da tempo svolgo diverse ricerche legate al tema del camminare, ragioniamo spesso partendo da opinioni opposte su dove debba collocarsi il flâneur lungo l’asse bellezza vs. giustizia (Nuvolati e Quaquarelli 2022, 2021). È proprio così supponente, caratterizzato da uno sguardo maschile dominante – a tale proposito va ricordato che la letteratura sulla flânerie e sulla sua dimensione di genere ha avuto un momento di grande ricchezza negli anni ’90 nel contesto dei cultural studies e dei feminist studies caratterizzati da un approccio critico alla figura del flâneur ottocentesco: borghese, benestante, colto, proveniente spesso dal nord Europa diretto verso il sud, desideroso di mescolarsi, ma solo provvisoriamente, con i segmenti più deboli della società – o, invece, scavando neanche tanto in profondità possiamo dire è possibile intravedere un suo impegno sociale, un dar voce alle disuguaglianze sociali, un favorire i processi di partecipazione che oggi la città camminata potrebbe offrire? E ancora: quanto egli è ribelle nei confronti della società dei consumi o si adegua ad essa? Forse è proprio la traslazione temporale dall’800 all’età contemporanea a restituirci una figura – se ancora esiste nella sua accezione originale, perché alcuni sostengono che resti in vita solo la pratica della flânerie ma sia scomparso il suo protagonista – meno élitaria intellettualmente e socialmente o anche meno conforme alla cultura dominante, ma semmai più antagonista. Io stesso stento a ricomporre i pezzi e le potenzialità del suo stare tra la gente, del suo specchiarsi negli altri, osservandoli ma anche con l’intento di trarne i debiti vantaggi personali. Per affrontare questi temi è necessario uno scarto, una visione obliqua capace di riorientare lo sguardo. Questa occasione è data dal bel libro di Letizia Carrera – La flâneuse. Sguardi ed esperienze al femminile (Franco Angeli, 2022) – che – credo per prima in Italia, pur dovendo segnalare gli studi Maria Antonietta Trasforini (2007) sulle donne artiste fine ‘800 – tratta in maniera particolarmente completa il tema della flâneuse.
Si legge in quarta di copertina: “Progressivamente le donne, passo dopo passo, hanno letteralmente conquistato il diritto alla città, seppur inizialmente vestendo a volte abiti maschili e attraverso uno sguardo obliquo, per scivolare anonime nella folla, finalmente non più orpello al braccio degli uomini, ma sempre più protagoniste dello spazio pubblico”. Il modello femminile e quello maschile sono stati più volte confrontati dimostrando affinità e divergenze – si veda nello specifico l’articolo di Betsy Wearing e Stephen Wearing (1996) – e il libro di Carrera è davvero molto utile per capire da un lato le peculiarità di un approccio di genere alla flânerie e dall’altro per intravvedere una possibile evoluzione della flânerie stessa – ecco qui l’unica critica che muoverei a Carrera: io non avrei usato come fa lei il neologismo flâneuserie, mi sembra una forzatura terminologica vittima di un certo politically correct che crea solo malintesi: la flânerie, in sé, non è né maschile né femminile, ma semplicemente costituisce una attività interpretabile in modo differente da chi la pratica – in direzione di un processo partecipativo. Sempre dalla quarta di copertina si legge infatti: “Questo libro si rivolge a tutti coloro che accettano la sfida della lentezza, riconoscendole un potenziale di innovazione sociale e politica quasi rivoluzionario, e quella della differenza, a partire da quella di genere, capace di risignificare gli sguardi sulla esperienza quotidiana”. Il volume si articola in quattro parti che toccano la ricostruzione del metodo della flânerie come modalità di indagine dell’urbano, il processo di emancipazione della donna che diventa finalmente libera – al termine di un processo difficile e contrastato – di camminare in città, la sua originalità nel leggere il contesto attraverso la flânerie, e infine la rinnovata attualità di questo approccio a vantaggio di una urbanistica partecipata. Carrera, che peraltro da tempo lavora sul tema del camminare (2015), offre dunque una rassegna davvero completa degli studi realizzati su tali argomenti, scrivendo un importante testo di riferimento per chi vuole avvicinarsi all’arte del flânare, come sguardo e come esperienza, individuale e collettiva. In quella che l’autrice definisce la conquista delle donne della città negata e che le vede protagoniste della scena urbana, c’è una volontà di riscatto che si misura anche nell’impegno politico e non solo una dimensione privatistica, come nel caso del flâneur uomo. In questa ottica – come afferma Carrera facendo incontrare il già citato Benjamin, con Guy Debord e Henri Lefebvre – la flâneuse, insieme ad un nuovo tipo di flâneur engagé, è in grado di coniugare il livello micro dell’esperienza e delle azioni quotidiane con quello macro del sistema: lo fa attraverso metodi che richiamano tanto l’analisi quanto l’immaginazione sociologica delle città e che pertanto inducono all’interesse crescente da parte della sociologia stessa. Come il lettore di questa recensione avrà ben inteso, la mia posizione inerente la riflessività in chiave intima e personale del flâneur, del tutto scevra da impegno politico, sembra dunque venire superata da una dimensione comunitaria: una tesi con la quale sarà cruciale un continuo confronto per meglio studiare la città complessa e i suoi interpreti.
Giampaolo Nuvolati
Riferimenti bibliografici Carrera G. (a cura di), 2015, Vedere la città. Gli sguardi del camminare, Franco Angeli, Milano. Nuvolati G. and Quaquarelli L., 2022, coordinators of the session, “The new flâneurs in the urban space, from individualization to collective participation”, Research Network 37: Urban Sociology - European Sociological Association (ESA), Seeing like a city / Seeing the city through, Berlin 5-7 October. Nuvolati G. and Quaquarelli L., 2021, “Flânerie as a way of living, walking and exploring the city. An introduction”, Fuori Luogo, Special issue on Flânerie, anno V, volume 10, n. 2, pp. 11. Solnit R., 2002, Storia del camminare, Milano, Bruno Mondadori. Trasforini M. A., 2007, Nel segno delle artiste. Donne, professioni d’arte e modernità, Bologna, il Mulino. Wearing B. and Wearing S., 1996, “Refocusing the Tourist Experience: the Flâneur and the Choraster”, Leisure Studies, 15: 229-243.
N.d.C. Giampaolo Nuvolati è professore ordinario di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso l’Università degli studi di Milano Bicocca dove insegna Sociologia urbana. In questo stesso Ateneo è stato presidente del Corso di laurea Magistrale di Sociologia e direttore del Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale. È prorettore dell’Ateneo per i Rapporti con il Territorio.
Tra i suoi libri: La qualità della vita delle città. Metodi e risultati delle ricerche comparative (FrancoAngeli, 1998); Popolazioni in movimento, città in trasformazione. Abitanti, pendolari, city users, uomini d'affari e flâneur (il Mulino, 2002); Lo sguardo vagabondo. Il flâneur e la città da Baudelaire ai postmoderni (il Mulino, 2006); Mobilità quotidiana e complessità urbana (Firenze University Press, 2007); L'interpretazione dei luoghi. Flanerie come esperienza di vita (Firenze University Press, 2013); Un caffè tra amici, un whiskey con lo sconosciuto. La funzione dei bar nella metropoli contemporanea (Moretti & Vitali, 2016); (a cura di), Sviluppo urbano e politiche per la qualità della vita (Firenze University Press, 2018); con Giorgio Bigatti (a cura di), Raccontare un quartiere. Luoghi volti e memorie della Bicocca (Scalpendi, 2018); Interstizi della città. Rifugi del vivere quotidiano (Moretti & Vitali, 2019); (a cura di), Enciclopedia sociologica dei luoghi (Ledizioni, vol.1-2019; vol.2-2020; vol.3-2020; vol. 4-2021; vol. 5-2021; vol. 6-2022); (a cura di), con Sara Spanu, Manifesto dei Sociologi e delle Sociologhe dell’Ambiente e del Territorio sulle Città e le Aree Naturali del dopo Covid-19 (Ledizioni, 2020); (a cura di), con Rita Capurro, Milano, ritratto di una città. Il paesaggio culturale (Silvana Editoriale, 2020); con Alessandra Terenzi, Qualità della vita nel quartiere di edilizia popolare a San Siro, Milano (Ledizioni, 2021); a cura di, Esperienze di vita nei giorni del silenzio. La Bicocca al tempo del coronavirus (Nomos, 2021); con Marianna D'Ovidio, a cura di, Temi e metodi per la sociologia del territorio (UTET Università, 2022); a cura di, Il campus Bicocca. Storia passata e nuova vita degli edifici dell'Ateneo (Rubbettino, 2022).
Per Città Bene Comune ha scritto: Città e paesaggi: traiettorie per il futuro (8 dicembre 2017); Tecnologia (e politica) per migliorare il mondo (13 luglio 2018); Scoprire l’inatteso negli interstizi delle città (20 settembre 2019); Città e Covid-19: il ruolo degli intellettuali (29 maggio 2020); Abitare la diversità (4 giugno 2021); Per una riflessione olistica sul vivere urbano (17 febbraio 2022); Anche lo spazio fa la società (25 novembre 2022).
Sui libri di Giampaolo Nuvolati, v. i commenti di: Duccio Demetrio (27 settembre 2019); Giancarlo Consonni (29 novembre 2019); Marino Ruzzenenti (29 gennaio 2021); Giovanni Semi (9 aprile 2021); Alfredo Mela (18 marzo 2022).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
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