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TECNOLOGIA (E POLITICA) PER MIGLIORARE IL MONDO
Commento al libro di Carlo Ratti
Giampaolo Nuvolati
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L'ultimo libro di Carlo Ratti - La città di domani. Come le reti stanno cambiando il futuro urbano (con Matthew Claudel, Einaudi, 2017), di cui abbiamo discusso alla Casa della Cultura lo scorso maggio nell'ambito della VI edizione di Città Bene Comune - inquadra particolarmente bene i mutamenti in atto nelle società contemporanee legati, in particolare, alle trasformazioni tecnologiche. In questa operazione l'Autore si mostra abbastanza sensibile nei confronti di alcune ricadute sociali conseguenti alla diffusione dei social network. Ratti, ad esempio, riconosce che la tecnologia non potrà mai sostituire completamente le relazioni umane, semmai potrà rinforzarle favorendo il processo partecipativo bottom-up auspicato da Jane Jacobs (1961). È questo, peraltro, un tema ampiamente dibattuto che prese corpo già diverso tempo fa allorché le profezie di Alvin Toffler (1980) - stiamo parlando della progressiva affermazione del cottage informatizzato immerso nella natura incontaminata dove avremmo potuto lavorare a distanza utilizzando tutte le strumentazioni tecnologiche più avanzate - si dimostrarono del tutto infondate. Ciononostante il libro di Ratti soffre ancora di un eccessivo ottimismo nei confronti della tecnologia. Soprattutto assume un punto di vista a mio parere troppo uniformante in relazione a quelli che saranno i comportamenti umani. Non distingue quasi mai tra uomini e donne, giovani e anziani, persone diverse per reddito, istruzione e cultura, ma parla dell'essere umano in generale, standardizzato, guardando alla sua capacità crescente, quasi naturale, di adattarsi e sfruttare le innovazioni tecnologiche. Il quadro che ne esce è di tipo vagamente darwinista, dove poca o nessuna speranza viene lasciata a chi non sarà in grado di tenersi al passo con il processo innovativo.
C'è un tema che mi sta particolarmente a cuore e che oggi mi pare poco analizzato in merito al difficile rapporto tra uomo e tecnologia: questo riguarda quello che potremmo definire un imminente esaurimento del processo di autoindulgenza che oggi contraddistingue la relazione uomo-tecnologia. Ma procediamo per gradi. Già negli anni '80 (Gershuny e Miles 1983, Mingione 1983), il dibattito sociologico mette bene in rilievo come, rispetto al passato, la società contemporanea ci offra sempre più servizi non finiti, ma da completarsi da parte dell'utilizzatore attraverso pratiche di self-service. L'automobile non funziona da sola, dobbiamo saperla guidare; lo stesso vale per la lavatrice, il prelievo di denaro dal bancomat, per il pieno di benzina, per la prenotazione di un volo aereo: beni/servizi di cui oggi ci riforniamo in modalità self-service, grazie alla familiarità con la tecnologia e alle competenze informatiche che abbiamo nel tempo acquisito. L'autoproduzione (o meglio il concorso nella produzione) del bene che consumiamo porta ovviamente ai noti fenomeni di spersonalizzazione delle relazioni e soprattutto a un aumento delle responsabilità. I vari monitor e display che utilizziamo diventano in sostanza specchi, riflettono cioè il nostro volto ricordandoci che se per caso la fornitura del servizio non andasse in porto ne siamo in parte (in buona parte e sempre più) corresponsabili.
Ora, poiché l'essere umano non è probabilmente in grado di reggere un carico eccessivo di responsabilità che interessano quotidianamente ogni sua funzione mediata dalla tecnologia, è probabile che egli metta in atto atteggiamenti di autoindulgenza allorché commette errori. Cioè tende a trovare facili giustificazioni con se stesso e dunque a perdonarsi, magari consolandosi con il fatto che non è l'unico a trovarsi in tali condizioni. Lo sbocco naturale del suo disagio e della conseguente protesta potrebbe essere costituito da un operatore del sistema con cui sfogare il proprio malcontento, se non la propria aggressività, ma gli operatori appunto tendono sempre più a scomparire proprio in conseguenza del moltiplicarsi di una tecnologica fortemente spersonalizzante, orientata al self-service. Basti pensare a un concetto oggi tanto diffuso come quello di smart, la cui traduzione in italiano è intelligente, scaltro, furbo. Il messaggio è chiaro: se vuoi sfruttare appieno la città devi avere queste caratteristiche ed essere in grado autonomamente di interrogare le reti, traendo vantaggi dal flusso di informazioni e dati che ti viene recapitato.
L'esercizio dell'intelligenza però, come sopra menzionato, è impegnativo, richiede formazione, aggiornamento continuo, concentrazione nel rapportarsi non in chiave empatica ed emozionale con altre persone ma in forma puramente strumentale con una serie di sistemi esperti, tecnologicamente avanzati e fortemente neutri. Nei frangenti in cui riscontriamo la nostra inadeguatezza, e dunque corriamo il rischio di commettere errori, non ci resta che accettarci per quello che siamo, con tutti i nostri limiti. Perché, però, sopra menzionavo la fine imminente di questa autoindulgenza? Se la società presupporrà il moltiplicarsi delle forme di autoproduzione del bene/servizio è altrettanto probabile che, in caso di errori, si ridurranno di molto le scorciatoie o le vie di uscita per rimediare agli errori stessi, pena un ulteriore e forse insostenibile aumento del nostro impegno nel trovare (si badi: sempre da soli) la soluzione.
Questo circuito chiuso è ben rappresentato dalla crescente difficoltà se non impossibilità di parlare con operatori in carne ed ossa nel caso di défaillance. A una nostra telefonata con richiesta di soccorso risponderà infatti una voce metallica registrata che ci invita a trovare la soluzione consultando il sito web dell'azienda che presta il servizio. Pagheremo dunque in modo molto salato la nostra impreparazione e di conseguenza potremo sempre meno essere tolleranti verso noi stessi. La pervasività e la complessità della tecnologia - che peraltro richiede continui aggiornamenti per essere sfruttata al massimo - lasciano poco scampo a chi abbia problemi nel rapportarsi ad essa e fanno presagire situazioni crescenti di angoscia e marginalizzazione, di cui Ratti non sembra tenere particolarmente conto. Probabilmente egli considera questi aspetti facilmente risolvibili attraverso una tecnologia user friendly o comunque molto meno rilevanti rispetto agli elementi positivi legati alla tecnologia, quale l'aumento delle opportunità e una maggiore libertà di azione.
Il futuro è dietro l'angolo ma ancora non lo conosciamo bene. Certo, la città del domani non potrà essere fondata solamente sull'idea che la tecnologia riduca le disuguaglianze facendosi accessibile a tutti. Tale assunto, che in buona parte rispecchia un'ottica neo-liberista fondata sulle capacità dei singoli di sfruttare le risorse a proprio vantaggio, potrebbe distogliere l'attenzione da processi di riequilibrio sociale più tradizionali, basati su variabili socio-economiche e, più specificatamente, sul potenziamento del welfare. Insomma, la strada che vede nella tecnologia la salvezza di tutti i mali sembra ancora piuttosto lunga da percorrersi. L'aggettivo senseable (al posto di smart) che accompagna il termine city nella intitolazione del Laboratorio del MIT guidato da Carlo Ratti, già testimonia dell'attenzione di quest'ultimo per una città a misura d'uomo (anche dei più deboli), dove la qualità della vita sia garantita al maggior numero di individui. È però fondamentale tenere alta l'attenzione nei confronti dei processi possibili di esclusione sociale cui solo la politica può dare risposta pur con il supporto della creatività tecnologica.
Forse potremmo concludere osservando che la tecnologia sarà sempre più necessaria ma non sufficiente per migliorare il mondo. In questa direzione vanno peraltro tutte le rappresentazioni distopiche del futuro che soprattutto certa cinematografia ci trasmette: città fortemente tecnologizzate ma dove le differenze di classe tendono a riprodursi ed emergono forme di profonda marginalità e devianza. Se le visioni di Ratti risultano forse troppo ottimiste, queste ultime sono eccessivamente pessimiste, oltre che più letterarie e forse non scientificamente fondate. Ciononostante meritano attenzione laddove realtà e finzione tendono spesso a trovare momenti di convergenza.
Giampaolo Nuvolati
Riferimenti bibliografici Gershuny J. e I. Miles, 1983, The New Service Economy: Transformation of Employment in Industrial Society, London, Frances Printer. Jacobs J., 1961, The Death and Life of Great American Cities, New York, Random House (ed. it. 2009, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, Torino, Einaudi). Mingione E., 1983, Urbanizzazione, classi sociali, lavoro informale, Milano, Franco Angeli. Toffler A., 1980, The Third Wave: The Classic Study of Tomorrow, New York, Bantam Books.
N.d.C. - Giampaolo Nuvolati, professore ordinario di Sociologia dell'ambiente e del territorio dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca, dal 2015 dirige il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale.
Tra i suoi libri: La qualità della vita delle città. Metodi e risultati delle ricerche comparative (FrancoAngeli, Milano 1998); Popolazioni in movimento, città in trasformazione. Abitanti, pendolari, city users, uomini d'affari e flaneurs (il Mulino, Bologna 2002); Piccola antologia di paesaggi urbani (Vicolo del pavone, Piacenza 2003); Lo sguardo vagabondo. Il flaneur e la città da Baudelaire ai postmoderni (il Mulino, Bologna 2006); Mobilità quotidiana e complessità urbana (Firenze University Press, Firenze 2007); L'interpretazione dei luoghi. Flanerie come esperienza di vita (Firenze University Press, Firenze 2013); Un caffè tra amici, un whiskey con lo sconosciuto. La funzione dei bar nella metropoli contemporanea (Moretti & Vitali, Bergamo 2016).
Per Città Bene Comune ha scritto: Città e paesaggi: traiettorie per il futuro (8 dicembre 2017).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 13 LUGLIO 2018 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
in redazione: Elena Bertani Oriana Codispoti
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F. Mancuso, Città come memoria contro la barbarie, commento a: A. Zevi, Monumenti per difetto (Donzelli, 2014)
M. Morandi, Per una Venezia di nuovo vissuta, commento a: F. Mancuso, Venezia è una città (Corte del Fontego, 2016)
R. Pavia, Leggere le connessioni per capire il pianeta, commento a: P. Khanna, Connectography (Fazi, 2016)
G. Consonni, In Italia c'è una questione urbanistica?, commento a: I. Agostini, E. Scandurra, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018)
M. Romano, Memoria e bellezza sotto i cieli d'Europa, commento a: S. Settis, Cieli d'Europa (Utet, 2017)
V. Biondi, La nuova crisi urbana negli USA, commento a: R. Florida, The New Urban Crisis (Basic Books, 2017)
P. Colarossi, Per un ritorno al disegno della città, commento a: R. Cassetti, La città compatta (Gangemi, 2012, rist. 2015)
A. Clementi, In cerca di innovazione smart, commento a: C. Morandi, A. Rolando, S. Di Vita, From Smart Cities to Smart Region (Springer, 2016)
P. Pucci, La giustizia si fa (anche) con i trasporti, commento a: K. Martens, Transport Justice. Designing fair transportation systems, (Routledge, 2017)
E. Trusiani, Ritrovare Mogadiscio, commento a: N. Hagi Scikei, Exploring the old stone town of Mogadishu (Cambridge Scholars Publishing, 2017)
A. Villani, Post-metropoli: quale governo?, commento a: A. Balducci, V. Fedeli, F. Curci, Oltre la metropoli (Guerini, 2017)
R. Cuda, Le magnifiche sorti del trasporto su gomma, commento a: M. Ponti, Sola andata (Egea 2017)
F. Oliva, Città e urbanistica tra storia e futuro, commento a: C. de Seta, La civiltà architettonica in Italia dal 1945 a oggi (Longanesi, 2017) e La città, da Babilonia alla smart city (Rizzoli, 2017)
J. Gardella, Attenzione al clima e alla qualità dei paesaggi, commento a: M. Bovati, Il clima come fondamento del progetto (Marinotti, 2017)
R. Bedosti, A cosa serve oggi pianificare, commento a: I. Agostini, Consumo di luogo (Pendragon, 2017)
M. Aprile, Disegno, progetto e anima dei luoghi, commento a: A. Torricelli, Quadri per Milano (LetteraVentidue, 2017)
A. Balducci, Studio, esperienza e costruzione del futuro, commento a: G. Martinotti, Sei lezioni sulla città (Feltrinelli, 2017)
P. C. Palermo, Il futuro di un Paese alla deriva, riflessione sul pensiero di Carlo Donolo
G. Consonni, Coscienza dei contesti come prospettiva civile, commento a: A. Carandini, La forza del contesto (Laterza, 2017)
P. Ceccarelli, Rappresentare per conoscere e governare, commento a: P. M. Guerrieri, Maps of Delhi (Niyogi Books, 2017)
R. Capurro, La cultura per la vitalità dei luoghi urbani, riflessione a partire da: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2017)
L. Ciacci, Il cinema per raccontare luoghi e città, commento a: O. Iarussi, Andare per i luoghi del cinema (il Mulino, 2017)
M. Ruzzenenti, I numeri della criminalità ambientale, commento a: Ecomafie 2017 (Ed. Ambiente, 2017)
W. Tocci, I sentieri interrotti di Roma Capitale, postfazione di G. Caudo (a cura di), Roma Altrimenti (2017)
A. Barbanente, Paesaggio: la ricerca di un terreno comune, commento a: A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)
F. Ventura, Su "La struttura del Paesaggio", commento a: A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)
V. Pujia, Casa di proprietà: sogno, chimera o incubo?, commento a: Le famiglie e la casa (Nomisma, 2016)
R. Riboldazzi, Che cos'è Città Bene Comune. Ambiti, potenzialità e limiti di un'attività culturale
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