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VERSO UNA SACRALITÀ NON CONFESSIONALE
Commento al libro di Antonietta Iolanda Lima
Luca Zevi
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Perché la riproposizione di quest’opera quarantenne di Antonietta Iolanda Lima – La dimensione sacrale del paesaggio. Ambiente e architettura popolare in Sicilia (Palermo University Press, 2023) – è ‘necessaria’ anche e proprio ai nostri giorni? Per una ragione diversa da quella originaria, ma non per questo meno cogente.
La prima apparizione del libro fu stimolata dall’insorgere di una generale perplessità nei confronti dell’architettura moderna, dominata dall’approccio funzionalista, e dalla conseguente esigenza di volgere lo sguardo a quanto il passato, la storia ha da insegnarci. È noto come tale esigenza abbia indotto a una serie di incursioni ‘incontrollate’ nella tradizione architettonica riguardata, secondo le parole di Manfredo Tafuri, come un “supermarket” dal quale attingere liberamente brani o dettagli decontestualizzati, a prevalenti finalità decorative. E ciò nella concezione non solo degli edifici rappresentativi, ma anche in quella dei complessi residenziali soprattutto suburbani.
Urgeva pertanto una conoscenza non episodica dell’habitat tradizionale – già avvertita da Giuseppe Pagano e da Guardiano Daniel nel 1936 – capace di illustrarne il carattere eminentemente organico, da un lato, e la filiazione da una “dimensione sacrale del paesaggio” fondata sul rispetto del creato piuttosto che sul mero consumo del suolo, dall’altro. È proprio quest’ultimo aspetto ad apparire particolarmente attuale in un momento storico come il nostro, che registra una devastazione senza precedenti del territorio italiano a causa della frequente perdita di qualsivoglia approccio di tipo qualitativo – per l’appunto di qualunque “dimensione sacrale del paesaggio” – nella costruzione dell’insediamento contemporaneo. Una dimensione investita dalla crisi che hanno conosciuto le religioni tradizionali a seguito dell’impatto della modernità. Una dimensione, quella della sacralità del creato, che precede storicamente la fioritura delle religioni tradizionali e che deve persistere anche oltre il ciclo di vita di esse – qualora la loro crisi si rivelasse irreversibile – pena il dilagare della perdita di ogni forma di rispetto nei confronti della natura e della plurimillenaria cultura dell’abitare. Un percorso a ritroso, per dirla con Massimo Pica Ciamarra, mirato a una transizione ormai urgente “dall’Antropocene all’Ecocene”.
In questa prospettiva lo studio approfondito e originale del paesaggio storico rappresenta l’esatto contrario dell’immissione arbitraria di citazioni storicistiche all’interno dei progetti contemporanei tipica del post-modernismo: si tratta infatti di un’attività di scavo che, portando alla luce la ricchezza e la complessità caratteristiche dell’habitat storico, punta a un progetto ecosistemico affatto diverso – le condizioni sono completamente cambiate – ma frutto anch’esso di una visione ambiziosa, espressione di un sistema di valori analogamente articolato. Per promuovere un’inversione di rotta di questa portata non è sufficiente un approccio al paesaggio di tipo percettivo che, mutuando dalla critica d’arte tradizionale, lo legge come sommatoria di ‘vedute’. È necessario “saper vedere” il paesaggio come sistema complesso, conformato da grammatiche e sintassi molteplici ma non per questo meno rigorose, che ne fanno l’espressione più genuina e potente di una civiltà. Dunque, una lettura storica, certamente, ma anche antropologico-culturale, oltreché spaziale-figurativa. Una lettura al termine della quale sarà per tutti più difficile pensare il paesaggio come semplice territorio neutro in attesa di essere modificato da parte dell’uomo a suo piacimento, come troppo spesso è avvenuto soprattutto a partire dalla metà del secolo passato: viviamo in un cosmo in continua evoluzione, all’interno del quale è doveroso collocarsi con coraggio, certamente, ma anche con la dovuta cautela.
Un approccio olistico
La scelta dell’intero paesaggio come oggetto di indagine, nell’ormai lontano 1984 della prima edizione di quest’opera, rappresenta un orientamento e un monito: un manifesto mirato a un agire, audace e al tempo stesso misurato, all’interno di contesti che sono comunque sacri, ancorché “non necessariamente religiosi” (pag. 38). Per rendere la scelta convincente, in apertura di libro, essa viene illustrata da immagini emozionanti relative a “uomo e luogo”, al “costruito nel paesaggio”, a “comunità e luogo”, alle “architetture dei campi”, al “colore dei luoghi”. La lettura di questo grande organismo si sviluppa attraverso un racconto, lungo il quale immagini e testo si sfidano continuamente nel trasmettere emozioni al lettore.
Il racconto è suddiviso in tre parti. Nella prima parte del libro – “individuazione e appropriazione dei luoghi” – viene ricostruita l’interazione degli umani con i luoghi a partire da quel fondamentale atto fondativo che è l’attribuzione di un nome. Un nome che può rappresentare la semplice sottolineatura di una caratteristica fisica di quel particolare brano di paesaggio, oppure dell’attività produttiva prevalente nella zona, oppure ancora del ruolo sociale assunto dal proprietario. Ci sono poi le Madonne, che danno a loro volta il nome a molte località – spesso in sostituzione di nomi precedenti di ispirazione pagana – e, soprattutto, costellano con la loro presenza l’intero territorio regionale. Altrettanto capita ai Santi, i cui percorsi processionali, spesso intercomunali, testimoniano i mutevoli rapporti fra le comunità. I Tesori incantati testimoniano la sopravvivenza di una sfera magica, la dimestichezza con la dimensione del mistero e la promessa di una vita migliore possibile. Nella loro descrizione trionfa spesso la vena lirica dell’autrice. Le caratteristiche geografiche – in particolare spuntoni di rocce, grotte (molte ancora abitate) – stimolano gli insediamenti umani a intrecciare con loro un rapporto dialettico. Tali insediamenti vengono documentati dal “pagliaro”, sorta di archetipo del rifugio (oltreché del Modulor di Le Corbusier), a Contrada Sambuchi, sorta di archetipo del villaggio.
Nella seconda parte del libro – “gli elementi del paesaggio sacrale” – è documentata l’esplicitazione della sacralità del paesaggio attraverso gli oggetti che ‘ne scaturiscono’. Le croci-crocefissi-crocifissioni, che punteggiano ovunque il territorio regionale, dominano le grandi sculture processionali e, spesso, l’orditura stradale degli insediamenti. I calvari particolarmente cari ai Gesuiti, gli altari all’aperto, gli elementi di arredo posti a mediare il labile confine fra spazio pubblico e luogo di culto. E le edicole, in posizione strategica sui muri delle case, spesso espressione autenticamente popolare del culto. Poste in serie lungo una strada istituiscono un percorso processionale o una via crucis.
Nella terza e ultima parte del libro – “i grandi segni della religiosità e del rituale” – vengono illustrati gli intrecci fra dimensione religiosa, commerciale e magica che caratterizza la frequente (in passato) convivenza fra processioni, fiere e feste. Una convivenza che, trattandosi di attività intrinsecamente temporanee e mobili, lascia segni profondi sul territorio e, in particolare, sulle strade interessate ciclicamente da queste ricorrenze: “il territorio disegnato dal rito”, titolo di uno dei capitoli, esprime al meglio questa tematica, esemplificata in maniera grandiosa dalla Settimana Santa di San Biagio Platini. Una tematica di grande complessità che viene raccontata e illustrata con dovizia di esempi, dichiarando al tempo stesso che sono necessari ulteriori studi e approfondimenti. Una tematica fortemente segnata peraltro dal processo di modernizzazione, che ha condotto a una separazione sempre maggiore fra la sfera religiosa e quella produttiva.
La disamina si conclude con una focalizzazione sul ruolo dei santuari, che del mobile territorio disegnato dal rito rappresentano i baluardi storici e spaziali.
Verso una sacralità post-confessionale
La brevissima sintesi che si è voluta proporre è naturalmente ben lungi dal dare anche solo una vaga idea della ricchezza del libro. Il suo scopo è cercare di comunicare come la lettura di quest’opera sia di per sé un’esperienza importante tanto per il metodo di lettura che propone, quanto per la qualità e la quantità di notizie che contiene. L’aspetto più interessante – tutt’altro che declamato (anzi sì e no accennato) – risiede nella riproposizione di un approccio sacrale all’habitat in un’epoca nella quale le religioni costituite, ben lungi dal farsi portatrici di detto approccio, sembrano contribuire al degrado più che al riscatto. Spetterebbe allora alla cultura architettonica il compito di declinare politiche di sviluppo capaci di essere al contempo politiche di rispetto del nostro pianeta. Il libro, offrendoci una chiave di interpretazione assai fertile del paesaggio, ci fornisce altresì alcuni strumenti fondamentali – prima di tutto la volontà e la voglia – per tentare di abitarlo più degnamente.
Luca Zevi
N.d.C. - Luca Zevi, architetto e urbanista, ha insegnato nelle università di Roma e Reggio Calabria. Come progettista si è occupato della rigenerazione di centri storici e del restauro di edifici antichi. A Roma ha progettato il Memoriale ai caduti del bombardamento di San Lorenzo del 1943 e il Museo Nazionale della Shoah. Per il Comune di Roma ha inoltre messo a punto una metodologia di recupero urbano mirata a una «città a misura dei bambini» e per il Ministero degli Esteri ha contribuito a progetti di sviluppo in Albania e El Salvador. È impegnato nella promozione di «viali alberati del terzo millennio» pensati come centrali lineari di produzione di energia da fonti rinnovabili. Nel 2012 è stato direttore del Padiglione Italia alla XIII Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia.
Tra i suoi libri: (coord.) Il manuale del restauro architettonico (Mancosu, 2001, 2002, 2007); (dir. scient.), Il nuovissimo manuale dell'architetto (Mancosu / Architectural Book and Rewiew, 2003, 2007, 2009, 2010, 2011, 2013, 2019); (a cura di), Cinquanta incontri fra antico e nuovo. 1993-2003 (Mancosu, 2003); Esperienza ebraica e restauro del territorio (Mancosu, 2003); Conservazione dell'avvenire. Il progetto oltre gli abusi di identità e memoria (Quodlibet, 2011); con S. Anastasia, F. Corleone (a cura di), Il corpo e lo spazio della pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie (Ediesse, 2011); a cura di, Le quattro stagioni. Architetture del made in Italy. Da Adriano Olivetti alla green economy (Electa, 2012).
Per Città Bene Comune ha scritto: Forza Davide! Contro i Golia della catastrofe (28 febbraio 2020).
Sul libro di Antonietta Iolanda Lima oggetto di questo commento, v. anche: Maria Antonietta Crippa, Il paesaggio (in Sicilia) è sacro (6 ottobre 2023).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 10 NOVEMBRE 2023 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
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M. C. Tosi, Urbanistica? Raccontiamola in positivo, commento a: A. Clementi, Alla conquista della modernità (Carocci, 2021)
A. Petrillo, Satellite: cronaca di un fallimento, commento a: A. Di Giovanni e J. Leveratto, (a cura di), Un quartiere-mondo (Quodlibet, 2022)
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A. Lazzarini, I luoghi sono un'enciclopedia, commento a: G. Nuvolati (a cura di), Enciclopedia sociologica dei luoghi (Ledizioni, 2019-2022)
G. Laino, Napoli oltre i luoghi comuni, commento a: P. Macry, Napoli. Nostalgia di domani (il Mulino, 2018)
G. Zucconi, Complessità nella semplicità, commento a: G. Ciucci, Figure e temi nell’architettura italiana del Novecento (Quodlibet, 2023)
R. Tognetti, Altre lingue per il "muratore che ha studiato latino", commento a: L. Crespi, Design del non-finito (Postmedia books, 2023)
M. A. Crippa, Il paesaggio (in Sicilia) è sacro, commento a: A. I. Lima, La dimensione sacrale del paesaggio (Palermo University Press, 2023)
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