Luca Bottini  
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MILANO, UN'ALTRA STORIA


Commento al libro di Lucia Tozzi



Luca Bottini


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Il volume di Lucia Tozzi – L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane (Cronopio, 2023) – affronta un tema di assoluta pertinenza rispetto agli obiettivi di Città Bene Comune. Il testo, come suggerito dal titolo, ha come fuoco la città di Milano nelle sue recenti trasformazioni su scala spaziale, sociale ed economica e porta alla luce tutte le ambiguità e conseguenze che il “modello Milano” ha prodotto. Si tratta di un altro testo “contro Milano”, o comunque dai toni fortemente critici come molti altri sono stati scritti negli ultimi anni, sia in ambito giornalistico che accademico. Il volume si legge in poche ore grazie alla scorrevolezza dello stile di scrittura utilizzato dall’autrice ed al profondo interesse suscitato dagli argomenti trattati. Tale interesse, a mio parere, deriva dalla forte risonanza che può costituirsi tra la denuncia espressa da Lucia Tozzi e la quotidianità vissuta a Milano da un lettore e lettrice residente in città. È difficile, infatti, non ritrovarsi in molti degli aspetti descritti nel volume. Leggendo il libro, si ha la sensazione che tutto appaia più chiaro e meno confuso, che le connessioni tra i molteplici elementi, politici, sociali e culturali, che costituiscono il funzionamento del “modello Milano” siano finalmente chiare e coerenti. Il paradigma di analisi utilizzato dall’autrice si ascrive certamente all’interno del filone di analisi sulle politiche di sviluppo urbano; lo stile è quello di una scrittura veemente ed incalzante, figlia evidentemente, di un sincero e deciso posizionamento personale rispetto all’oggetto trattato. È un libro forte, che può risultare a tratti piuttosto difficile da digerire nella progressione delle argomentazioni. Per questo motivo, credo che qualche attenzione alla lettura sia necessaria per non rimanere spiazzati. È infatti importante al contempo immergersi nella trattazione e ritagliarsi uno spazio dedicato ad uno sguardo critico sui contenuti, poiché il rischio che intravedo nelle argomentazioni presentate è quello di ottenere un affresco su Milano condotto a tinte unicamente scure.

Fatta questa doverosa premessa metodologica, il volume si costruisce su una tesi fondamentale: Milano, negli ultimi vent’anni, ha voluto incardinarsi definitivamente nelle reti delle città globali, costruendo una narrazione non oggettiva della città, finalizzata a massimizzare la propria attrattività turistica ed economica, mettendo a disposizione di player globali un common fondamentale come lo spazio urbano, in particolare quello da rigenerare. A partire da tale impianto, l’autrice sviluppa i capitoli affrontando quattro punti fondamentali: la relazione tra cultura e rendita urbana, la gestione della partecipazione sociale, gli effetti della rigenerazione urbana ed il desiderio di riappropriazione dello spazio urbano pubblico. Di seguito proverò a fare una sintesi critica di tali contenuti, da un lato richiamando quanto identificato dall’autrice e dall’altro lato proponendo alcuni spunti di riflessione ad estensione dei ragionamenti proposti.

L’autrice tratta anzitutto la questione dell’estrazione di rendita finanziaria dallo spazio urbano condotta a seguito di una alleanza pubblico-privata, consolidatasi nel tempo, sancita tra le diverse amministrazioni comunali e determinati player immobiliari-finanziari di origine internazionale. Si tratta di un modello di governance urbana teorizzato da Harvey Molotch, ossia il modello della città come “growth machine” (Molotch, 1976). Milano, come Genova e Torino, costituiva il cosiddetto “triangolo industriale” italiano, il cuore pulsante della produzione manifatturiera, paradigmatico per il modello di città fondato sulla produzione industriale che aveva retto per tutto il Boom economico. Dopo quel momento, Milano, come altre città statunitensi ed europee in precedenza, inizia ad essere attraversata da fenomeni di abbandono delle fabbriche urbane, con le grandi chiusure nei quartieri tradizionalmente a carattere operaio come Bovisa, Lodi-Porta Romana e Isola. Questo processo comportò un mutamento non solo nel panorama spaziale urbano a seguito delle dismissioni industriali, ma anche nel tessuto sociale: la classe operaia abbandonò gradualmente la vecchia città industriale. Gli operai non saranno più i protagonisti della città post-industriale, venendo gradualmente sostituiti da nuove generazioni di impiegati e dirigenti del comparto economico del terziario. Dopo questi avvenimenti, una nuova riflessione sul futuro delle città industriali attraversò le agende delle principali città tradizionalmente vocate al comparto manifatturiero. Tuttavia, sembrano mancare delle idee ai policy makers, ed in ambito accademico iniziano a circolare, a partire dagli anni Novanta, concetti quali “marketing territoriale”, “grandi eventi per lo sviluppo locale”, “city branding”. Lo sviluppo economico urbano del nuovo millennio non ha più il rumore assordante delle fabbriche, si sta dematerializzando; la materia prima da trasformare nei processi produttivi, non è più il metallo grezzo o semilavorato, ora è materia astratta, fatta di idee, concetti, simboli, concept.

In questo scenario, fatto anche di vuoto di cultura politica, l’economista Richard Florida (2002) si inserisce diffondendo tra i policy makers occidentali una sorta di “ricetta” per rilanciare le vecchie città industriali, consolidando la convinzione che per ripensare il futuro di una città decaduta sia necessario attirare una classe sociale creativa, ad alto grado di istruzione, tolleranza e vocazione all’internazionalità, costruendo un’offerta di consumi a loro misura (possibilmente in edifici un tempo adibiti alla produzione manifatturiera) e creare tanti, tantissimi eventi culturali, possibilmente di grande dimensione. Non è certamente questa la sede per compiere una critica a Florida, ma basti ricordare a come le sue “ricette” abbiano avuto una grande presa tra i policy makers statunitensi ed europei nell’ultimo ventennio. Ad esempio, Torino, come correttamente indicato dall’autrice, fu il primo esperimento in Italia di riconversione dell’identità urbana da industriale a post-industriale mediante l’utilizzo dei grandi eventi. L’operazione Olimpiadi Invernali del 2006 fu un successo parziale, poiché il ritorno di investimento fu inferiore alle attese, e questo comportò un dissesto delle casse comunali, con debiti verso operatori bancari, ed il mancato salto di qualità in termini di attrattività urbana in grado di innescare un processo di rinnovamento dell’economia locale, dell’occupazione e del turismo.

A Milano, invece, le cose andarono diversamente. A partire dalla giunta Albertini (1997-2006) fu sempre più netto il desiderio di far entrare la città nella partita internazionale-globale sfruttando il potenziale già in dote al sistema urbano fatto di moda, design e Teatro alla Scala. Fu proprio nel passaggio dal XX al XXI secolo che Milano vide iniziare i primi progetti di trasformazione urbana di vecchi quartieri industriali, come fu il caso di Bicocca riconvertito in chiave di economia della conoscenza, della tecnologia, della cultura e della finanza. Anche a Milano, dunque, stavano per essere applicate alla lettera le idee dello sviluppo urbano neoliberista-postmoderno fondato sul legame tra capitale finanziario e patrimonio immobiliare. Del resto, il salto di qualità vero e proprio per una città che intende competere nell’agone globale risiede nella capacità di attirare fondi di investimento transnazionali destinati ad alimentare il concreto processo di mutamento (nel senso reale di “cambio di pelle” della città) al fine di generare rendita per gli investitori e attrattività per le popolazioni ad alta capacità di spesa. Un processo che si autoalimenta, supportato da una adeguata narrazione simbolica dell’immagine della città e sorretto da un utilizzo strumentale della cultura a questo scopo, come individuato in modo efficace da Lucia Tozzi. Le giunte comunali successive ad Albertini non fecero altro che proseguire su questa linea di sviluppo ormai tracciata per il futuro di Milano. Gli antichi segni del passato industriale della città furono gradualmente attenzionati e trasformati destinandoli ad altri scopi, sul modello di rigenerazione urbana precedentemente sperimentato altrove nel mondo, Inghilterra e Stati Uniti in primis.

Tuttavia, fu a partire dagli anni Dieci del 2000 che il processo di trasformazione di Milano subì una accelerazione finale. Correttamente, l’autrice descrive ogni passaggio di questa accelerazione, costituita da una “fretta” generalizzata di trasformazione delle aree abbandonate. Un processo che fu anche conflittuale, come il caso di Isola-Porta Nuova. Certamente, dal 2008 in poi, quando Milano si aggiudicò l’edizione 2015 dell’Esposizione Universale, il dado era ormai tratto ed erano necessarie alleanze con sviluppatori privati per raggiungere gli obiettivi che avrebbero portato all’abbandono definitivo della vecchia muta. Porta Nuova-Garibaldi, Isola, Portello, Darsena, nuova linea metropolitana M5 sono alcuni degli interventi più roboanti che hanno caratterizzato il cambio di pelle della città, non solo in senso urbanistico, ma anche nella struttura sociale. La grigia città lombarda, che nell’immaginario collettivo era la sede delle fabbriche e del lavoro, o poco più, ora svetta, almeno apparentemente, come la “città più internazionale d’Italia”, aperta al mondo globale, quale parte di quella intricata e inaccessibile rete di potere finanziario che connette i centri economici più vitali al mondo. Ciò che è stato Milano a partire dai primi anni Duemila è dunque stato reso possibile da una penetrazione sempre più radicale dei grandi fondi di investimento transnazionali, coerentemente con il funzionamento delle global cities. Una penetrazione, è bene riconoscerlo, che è stata resa possibile da una disponibilità totale delle giunte comunali succedutesi nel tempo, a stringere questa alleanza tra il potere pubblico e quello privato, di fatto rendendo indistinguibili i confini tra il ruolo dell’uno e dell’altro attore: le aziende, fanno le aziende, ma il problema si pone quando anche il pubblico fa lo stesso mestiere. Ciò che è avvenuto è stato “saltare su un treno”, quello di EXPO 2015 e di una graduale ascesa di interesse da parte dei fondi finanziari per Milano, sottovalutando gli effetti che queste politiche avrebbero prodotto nella struttura sociale milanese, quali accessibilità alla casa, ai servizi, oppure generando problemi di vivibilità, disuguaglianza sociale ed espulsione di popolazione per condizioni socio-economiche inadeguate a vivere in città.

Il sogno di posizionamento internazionale di Milano ha avuto un costo i cui effetti si stanno mostrando ora in modo radicale, ma sembra che i policy makers abbiano del tutto ignorato i rischi di una rincorsa alla valorizzazione urbana acritica e senza valutarne le conseguenze sul medio-lungo periodo. Eppure, non mancava la conoscenza su questi temi. La letteratura di sociologia urbana, in particolare quella attiva nel filone critico cosiddetto political economy, ossia quell’approccio allo studio dei fenomeni urbani che tende a leggere i processi sociali delle città come influenzati da una struttura di potere, in chiave neomarxista, e che si esplicita nell’interazione tra attori la cui forza è asimmetrica, ha evidenziato, pur in chiave teorica, già a partire dagli anni Settanta-Ottanta lo stretto legame che esiste tra capitale e governo locale quale modello di sviluppo prevalente per le future città occidentali (Harvey, 1989; Logan and Molotch, 1988; Molotch, 1976). Sebbene tale filone di studi presenti notevoli limitazioni (Walton, 1993) e giunge a raccontare solo una parte dei fenomeni urbani, riducendo l’analisi dell’urbano al ruolo giocato dall’esercizio del potere – e perdendo di vista, dunque, la complessità del fenomeno urbano fatta di interazione tra popolazione, spazio urbano, soggettività e dimensione psicosociale – (Bottini, 2020), ci può servire per inquadrare i problemi denunciati da Lucia Tozzi, ponendo in evidenza il funzionamento di una amministrazione locale di una grande città contemporanea. Una “città imprenditoriale” come la definirebbe David Harvey (1989). Il governo locale che ambisce a realizzare grandi interventi di trasformazione urbana non è in grado di raggiungere tale obiettivo con i soli fondi pubblici, specialmente se in presenza di vincoli di bilancio, quali ad esempio il “patto di stabilità” o le ristrettezze di bilancio dovute a ridotti trasferimenti statali se ci riferiamo al caso italiano. Per completezza va notato che, per Milano, l’accelerazione allo sviluppo urbano basato su importanti operazioni di rigenerazione urbana si innesca quando nel nostro paese, e a livello globale, si è nel pieno delle conseguenze della Crisi economica del 2007-2008 ed in Italia il Governo Tecnico di Mario Monti nel 2011 inaugura una fase di profonda “austerity” e spending review, mettendo sotto controllo la spesa pubblica a tutti i livelli e riducendo i trasferimenti statali ai municipi. Considerato questo contesto storico, il ricorso ai fondi privati sembrerebbe essere stata l’unica via di uscita per il governo milanese.

Se l’analisi dell’autrice finora condotta si presenta a tinte fosche e radicali, effettuando una denuncia totale ed emettendo un giudizio nel complesso negativo di queste politiche, credo sia anche necessario, per onestà intellettuale, riservare uno spazio critico utile per farci individuare anche l’altro lato della medaglia, ossia quegli aspetti positivi che convivono assieme a quelli negativi all’interno di questa narrazione. Sono fermamente convinto, infatti, che un’analisi oggettiva e analiticamente solida di qualsivoglia fatto sociale dovrebbe infatti riconoscere che sia necessario accettare l’esistenza di un certo grado di complessità che si amalgama in questi argomenti. La convivenza tra aspetti negativi e positivi è infatti qualcosa di naturale e fisiologico e per compiere un’analisi veramente critica credo sia necessario riconoscerli entrambi, naturalmente senza negare o assolvere le responsabilità degli attori in gioco. Sarebbe infatti ingenuo non ammettere che alcune delle operazioni di rigenerazione urbana milanese abbiano incrementato, ad esempio, il livello di offerta di mobilità pubblica, l’aumento di offerta culturale e di servizi o la nascita di nuovi spazi urbani, pur non essendo sempre del tutto fruibili dalla collettività. Il negativo si impasta con il positivo e se le denunce dell’autrice possono essere per gran parte condivisibili, grazie al buon apparato informativo fornito, un limite che intravedo risiede nell’assenza di uno slancio intellettuale verso nuovi orizzonti possibili, preferendo invece una narrazione schiacciata, come si è detto più sopra, su toni si intensi, ma molto foschi.

Per esempio, viene da chiedersi se un governo lungimirante, accorto e virtuoso della cosa pubblica urbana non debba, piuttosto, riflettere su quali siano le reali esigenze di rigenerazione urbana della città, compiendo una valutazione a tutto tondo dei costi e dei benefici di tali operazioni, soprattutto sulla struttura sociale. Quindi riflettere seriamente se l’alleanza con l’attore privato faccia scivolare più verso i costi o i benefici dei propri desiderata. Le giunte milanesi dell’ultimo ventennio davvero non avevano (e hanno) una scelta alternativa? Quanta consapevolezza vi era dei rischi che una corsa alla rigenerazione urbana acritica avrebbe comportato per un cambiamento fuori controllo della città? Era necessario trasformare tutto e subito anche a costo di cedere libertà via via crescenti agli attori privati? Sembra che Milano sia stata contagiata da una sorta di ansia da prestazione per cui, cito l’autrice: “Milano vuole a tutti i costi essere desiderata, ma è avviluppata dall’aria patetica di chi non è affatto sicuro di essere desiderabile e teme al primo approccio di essere respinto” (p. 189).

Questa narrazione di “Milano place to be” si inserisce coerentemente nel filone comunicativo del capoluogo che caratterizza la giunta comunale seguita dopo EXPO 2015. Sfruttando la luce dei riflettori puntati sulla città per il semestre del grande evento, le politiche urbane che ne sono seguite hanno incentivato ancora di più il ricorso ad una comunicazione aggressiva della città facendosi guidare da politiche di marketing urbano (o city branding per essere più precisi). Ad esempio, ogni atto di modificazione dello spazio urbano (vedi i cosiddetti interventi di “urbanistica tattica”) viene celebrato come qualcosa di straordinario destinato ad aumentare qualità della vita e inclusione sociale quasi in modo lineare; oppure ogni evento prodotto in città (ad esempio le varie “-week” citate dall’autrice secondo un calendario studiato nei minimi dettagli) viene segnalato come qualcosa di imperdibile. La comunicazione politica milanese sembra sempre più costruita per generare un effetto “FOMO” (fear-of-missing-out) sui suoi partecipanti, quasi a costringere city users e turisti a non mancare a nulla di tutto ciò che accade in città e ad essere sempre presenti. In questa equazione, però, le popolazioni residenti sembrano essere sempre più trascurate; non sono il principale target delle politiche del “modello Milano”. Del resto, la scelta di posizionarsi a livello globale sposta l’attenzione dal residente al potenziale visitatore/investitore/consumatore esterno.

La prosecuzione della lettura del volume di Lucia Tozzi, in effetti, permette di compiere una carrellata su ciò che è accaduto in città, anche in modo cronologico, mostrando come ciascuna di tali operazioni siano state guidate, in modo sempre più deciso, dalla volontà di creare un’immagine di Milano che, di fatto, non esiste e si regge solamente sulle narrazioni costruite ad hoc a supporto del policy making. Correttamente, l’autrice spiega che tutta questa narrazione è necessaria per alimentare il modello di sviluppo che si è scelto di seguire. Il ricorso costante alla cultura, finanche spontanea e non inserita nei circuiti dell’industria culturale, può essere altrettanto utile per volgere l’attenzione verso nuovi spazi di sfruttamento della rendita urbana e di valorizzazione dei metri quadri. Sembra infatti che sia sufficiente che in un quartiere, pur degradato e con un patrimonio immobiliare e di spazi pubblici di qualità discutibile, inizino a stabilirsi attori attivi nella produzione culturale o, più in generale, nel leisure per attirare l’attenzione mediatica innescando un processo di brandizzazione del luogo affibbiando etichette discutibili, come “NoLo” o “NoCe” (sic!). Tuttavia, questa catena di eventi sembra davvero verificarsi in modo costante e prevedibile a Milano. Ciò che ne consegue è una immediata attenzione degli attori attivi nel campo della gentrification (investitori immobiliari, agenti immobiliari, classi sociali ad alto reddito) (Semi, 2015) per sfruttare la nuova ondata di interesse artificialmente costruito, e massimizzare infine l’estrazione di rendita dal luogo. Milano sembra essere diventato un laboratorio a cielo aperto in cui sperimentare tutto quanto già descritto in modo diffuso dalla letteratura sugli studi relativi alle città: partendo dalle prime riflessioni sulla gentrification da parte di Ruth Glass (1964), passando dal modello di sviluppo “growth-machine” di Molotch (1976), alle idee sul marketing territoriale (Kotler et al., 1993), alla narrazione dell’immagine urbana attraverso la costruzione di un city brand (Anholt, 2007) e sull’uso strumentale della cultura e degli eventi per alimentare la narrazione di questa immagine (Florida, 2002, 2012; Getz and Page, 2016; Müller, 2015), mostrando anche le conseguenze di un modello urbano che si basi su eventification (Jakob, 2012) e laissez-faire sugli effetti della touristification e all’uso di piattaforme come Airbnb (del Romero Renau, 2018).

Un’ultima riflessione merita di essere condotta sulla riduzione dello spazio pubblico a disposizione in città. La conseguenza di questo ventennio di trasformazioni forzate della città ha avuto come conseguenza la sottrazione graduale di spazio pubblico milanese alla cittadinanza e una riduzione dell’accessibilità alla città per un ampio spettro di persone. L’autrice evidenzia come la consegna agli attori privati del compito di governare la trasformazione urbana abbia di fatto annichilito il ruolo delle politiche urbanistiche della città a favore dello sviluppo radicale. La mediazione che avrebbe dovuto caratterizzare le azioni di trasformazione dello spazio urbano con tutti gli attori in gioco, ivi compresi i cittadini, ha visto assottigliarsi sempre più la sua rilevanza nelle politiche di sviluppo locale. Di fatto, allo stato attuale, sembra che la governance urbana milanese si stia limitando ad essere un organismo di mera approvazione delle richieste di costruzione, ricostruzione e riqualificazione proposte dai grandi studi di progettazione internazionali. Il governo, che dovrebbe rispondere a questo sacrosanto ruolo, sembra invece avervi rinunciato. Le conseguenze di un modello siffatto sul piano della società locale si traduce, come dicevamo all’esordio del paragrafo, ad una graduale inaccessibilità alle risorse urbane, prime fra tutte le abitazioni. La crescita del valore medio al metro quadro a Milano nel post-EXPO 2015 è forse la cifra più evidente dell’impatto trasformativo che questo grande evento ha avuto sulla città. Si tratta di una crescita che sta assumendo i connotati di una bolla speculativa. Dopo una leggera contrazione durante la fase più acuta della pandemia Covid-19, nell’anno 2020, la crescita ha continuato e questo nonostante l’inflazione che sta attraversando l’economia globale e l’aumento dei tassi di interesse sui mutui quali manovre di politica monetaria destinata a far rientrare i livelli inflattivi dei prezzi di beni e servizi. Se le transazioni immobiliari stanno registrando un calo su scala nazionale e anche nei grandi centri urbani italiani, a Milano, dove il mercato immobiliare segue un andamento anomalo, non è ancora entrato in una fase di contrazione. Le ragioni di tali anomalie possono essere individuate nei seguenti fattori: eccesso di domanda rispetto all’offerta di alloggi disponibili, speculazione dei proprietari, numerosità di case inserite nel circuito di affitti brevi anziché di affitti a lungo termine troppo elevata, eccesso di attrattività urbana (mediata dal costante ricorso alla rigenerazione urbana e alla eventification).

La denuncia finale di Lucia Tozzi è quindi sull’inaccessibilità alla città, sul mancato “diritto alla città” (cfr. Lefebvre) cui sembra indirizzarsi Milano. Del resto, la vita è cara, affittare o comprare casa lo è altrettanto, ma il potere di acquisto medio dei cittadini rimane pressoché costante. I redditi dei milanesi, pur essendo in media più alti rispetto al resto d’Italia, sono comunque legati a salari italiani, con tutte le asimmetrie che vi sono rispetto ad altri salari internazionali. La distanza tra il costo della vita sempre crescente e il livello di salari non adatti a vivere in un contesto simile avrà come logica conseguenza l’assottigliamento della classe media e l’espulsione di una parte di popolazione che non potrà più, rebus sic stantibus, vivere in città. In questo senso sarà interessante osservare quanto il “modello Milano” sarà in grado di reggere nel tempo. A questo proposito, di recente abbiamo già avuto modo di osservare un preludio ad una crisi di questo modello di governance quando è esplosa la pandemia e migliaia di lavoratori precari a basso reddito (che partecipano, loro malgrado, al mantenimento della narrazione della città place to be – ma che tuttavia non possono permettersi) sono fuggiti dalla città. Un altro esempio è più recente e riguarda quanto occorso nelle ultime settimane di luglio 2023 in occasione di un grande temporale che ha abbattuto migliaia di piante, devastando molto dello spazio verde urbano. In questa occasione, il “modello Milano” ha potuto mostrarsi di nuovo nella sua estrema fragilità e impreparazione ad affrontare le sfide del cambiamento climatico, con un’assenza di un piano di adattamento del verde urbano pubblico agli eventi metereologici estremi. Osservare le immagini di molte piante cadute documentate dai telegiornali è stato emblematico. Mentre molte di esse erano sane, e sono cadute per via dello scarso radicamento nel terreno e per il forte vento, molte altre erano secche e fragili al loro interno, pur essendo verdi all’esterno. Questa immagine sembra quasi una metafora della fragile natura delle politiche di sviluppo della città: operazioni molto concentrate sulla dimensione estetica più che sulla qualità di ciò che viene offerto. Credo che questo cambio di pelle, o, meglio ancora, “cambio di anima” di Milano non stia giovando alla città e non potrà essere molto sostenibile nel tempo, proprio per via della sua natura artificiale e non autentica che, presto o tardi, rischierà di sciogliere questo incantesimo.

Concludendo, L’invenzione di Milano di Lucia Tozzi è un libro da leggere, pur avendo le accortezze metodologiche indicate all’inizio di questa recensione, ma rimane uno spunto fondamentale per noi studiosi della cosa urbana. Il titolo, poi, appare estremamente efficace, e sintetizza in modo esemplare ciò che abbiamo discusso in questa recensione: una Milano che, purtroppo, è sempre più “inventata” ed artificiale. Nel giro di vent’anni o poco più, il capoluogo lombardo ha scelto di cambiare la propria pelle, optando per interventi ad effetto di maquillage urbano e abbracciando la superficialità come cifra identitaria per rendersi appetibile e desiderata all’esterno, senza troppe complicazioni. È la perdita dell’anima della città, la perdita di quel genius loci che ha fatto di Milano ciò che è, almeno a partire dal XIX secolo: luogo di innovazione politica, economica e culturale. Ma se il genius loci è, appunto, lo spirito di un luogo, se il luogo viene privato della sua anima, allora anche il luogo perde il suo significato venendo degradato a semplice “spazio”, privato della sua funzione sociale, simbolica e affettiva. Michel De Certeau (1990) distingueva i concetti di “spazio” e “luogo” sulla base della capacità delle pratiche sociali e umane di rimanere fissate o meno sul territorio. Ecco, oggi l’avanzata dell’idea di Milano come città “di transito”, come è tipico delle global cities, sembra confermare questo processo. La città, svuotandosi della sua anima, diventa semplice spazio di consumo e di massimizzazione degli interessi individuali, sopra la quale le popolazioni metropolitane identificate da Guido Martinotti (1993) non fanno altro che scivolare senza fermarsi, senza creare un legame con il luogo.

Forse l’interrogativo più forte che viene da porsi riguarda se sia possibile realizzare lo sviluppo della città unicamente replicando modelli che hanno già dimostrato di essere fragili e iniqui; culture di governo che mettono in secondo piano il benessere locale e rinunciano all’idea di città come bene comune.

Ed il punto, in definitiva, è proprio qui: Milano è ancora una città che vuole essere un bene comune per tutte e tutti?

Luca Bottini

 

 

Riferimenti bibliografici
Anholt S (2007) Competitive Identity: The New Brand Management for Nations (Trad. It. L’identità Competitiva: Il Branding Di Nazioni, Città e Regioni). Milano: Egea.
Bottini L (2020) Lo Spazio Necessario. Teorie e Metodi Spazialisti per Gli Studi Urbani. Milano: Ledizioni.
De Certeau M (1990) L’invenzione Del Quotidiano. Roma: Edizioni Lavoro.
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N.D.C. Luca Bottini è ricercatore in sociologia urbana presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in studi urbani (URBEUR) ed è stato assegnista di ricerca e docente a contratto di "Ambiente e Reti Territoriali" (corso di laurea triennale in Sociologia) e "Tourism & Events" (corso di laurea magistrale in Turismo, Territorio e Sviluppo Locale). Attualmente è docente di "Città e Governo Locale" presso il corso di laurea triennale in Scienze del Turismo e Comunità Locale. È stato visiting PhD student presso la University of Victoria (Canada) dove ha lavorato nel «Environmental Psychology Lab» coordinato dal prof. Robert Gifford. Ha partecipato a corsi di perfezionamento presso la University of Essex (UK), l’Università di Trento e ha presentato le sue ricerche presso conferenze in Europa e Stati Uniti. Il suo ambito di ricerca è lo studio della relazione tra ambiente urbano e comportamento sociale, con particolare riferimento alla qualità della vita e al benessere soggettivo nei quartieri, alla mobilità sostenibile in contesti urbani e all’identità locale, utilizzando un approccio interdisciplinare tra sociologia urbana e psicologia ambientale. Di recente ha pubblicato Luoghi eventi e turismo. Una prospettiva sociologica (Ledizioni, 2022) e Lo spazio necessario. Teorie e metodi spazialisti per gli studi urbani (Ledizioni, 2020).

Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: Agostino Petrillo, Dove va Milano? (29 settembre 2023).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

17 NOVEMBRE 2023

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Annamaria Abbate
Gilda Berruti
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
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2018: Cesare de Seta
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2021: V. Magnago Lampugnani | G. Nuvolati
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2022: programma/1,2,3,4
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2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
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2021: online/pubblicazione
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2023:

G. Lanza, Città (e territori) oltre l'automobile, commento a: P. Coppola, P. Pucci e G. Pirlo (a cura di), Mobilità & città. Verso una post car city (il Mulino, 2023)

L. Zevi, Verso una sacralità non convenzionale, commento a: A. I. Lima, La dimensione sacrale del paesaggio (Palermo University Press, 2023)

F. Adobati, Conoscere attraverso il progetto, commento a: E. Colonna Di Paliano, S. Lucarelli, R. Rao, Riabitare le corti di Polaggia (FrancoAngeli, 2021)

M. C. Tosi, Urbanistica? Raccontiamola in positivo, commento a: A. Clementi, Alla conquista della modernità (Carocci, 2021)

A. Petrillo, Satellite: cronaca di un fallimento, commento a: A. Di Giovanni e J. Leveratto, (a cura di), Un quartiere-mondo (Quodlibet, 2022)

P. Colarossi, Le città sono fatte di quartieri e di abitanti, commento a: L. Palazzo, Orizzonti dell’America urbana (Roma TrE-Press, 2022)

M. Agostinelli, Sufficienza? Un antidoto alla modernità, commento a: W. Sachs, Economia della sufficienza (Castelvecchi, 2023)

A. Lazzarini, I luoghi sono un'enciclopedia, commento a: G. Nuvolati (a cura di), Enciclopedia sociologica dei luoghi (Ledizioni, 2019-2022)

G. Laino, Napoli oltre i luoghi comuni, commento a: P. Macry, Napoli. Nostalgia di domani (il Mulino, 2018)

G. Zucconi, Complessità nella semplicità, commento a: G. Ciucci, Figure e temi nell’architettura italiana del Novecento (Quodlibet, 2023)

R. Tognetti, Altre lingue per il "muratore che ha studiato latino", commento a: L. Crespi, Design del non-finito (Postmedia books, 2023)

M. A. Crippa, Il paesaggio (in Sicilia) è sacro, commento a: A. I. Lima, La dimensione sacrale del paesaggio (Palermo University Press, 2023)

A. Petrillo, Dove va Milano?, commento a: L. Tozzi, L’invenzione di Milano (Cronopio, 2023)

A. Clementi, Cercasi urbanista responsabile, commento a: A. Belli, G. Belli, Luigi Piccinato (Carocci, 2022)

F. Visconti, L'ordine necessario dell'architettura, commento a: R. Capozzi, Sull’ordine. Architettura come cosmogonìa (Mimesis, 2023)

V. De Lucia, Natura? La distruzione continua..., commento a: A. Cederna, La distruzione della natura in Italia (Castelvecchi, 2023)

P. C. Palermo, Urbanistica? Necessaria e irrilevante, commento a: A. Clementi, Alla conquista della modernità (Carocci, 2020)

C. Merlini, L'insegnamento di un controesempio, commento a: A. Di Giovanni, J. Leveratto, Un quartiere mondo (Quodlibet, 2022)

I. Mariotti, Pandemie? Una questione anche geografica, commento a: E. Casti, F. Adobati, I. Negri (a cura di), Mapping the Epidemic (Elsevier, 2021)

A. di Campli, Prepararsi all'imprevedibile, commento a: S. Armondi, A. Balducci, M. Bovo, B. Galimberti (a cura di), Cities Learning from a Pandemic (Routledge, 2023)

L. Nucci, Roma, la città delle istituzioni, commento a: (a cura di) A. Bruschi, P. V. Dell'Aira, Roma città delle istituzioni (Quodlibet, 2022)

G. Azzoni, Per un'etica della forma architettonica, commento a: M. A. Crippa, Antoni Gaudì / Eladio Dieste. Semi di creatività nei sistemi geometrici (Torri del vento, 2022)

S. Spanu, Sociologia del territorio: quale contributo?, commento a: A. Mela, E. Battaglini (a cura di), Concetti chiave e innovazioni teoriche della sociologia dell’ambiente e del territorio del dopo Covid-19 ("Sociologia urbana e rurale", n. mon. 127/2022)

F. Camerin, La dissoluzione dell'urbanistica spagnola, commento a: M. Fernandez Maroto, Urbanismo y evolución urbana de Valladolid (Universidad de Valladolid, 2021)

M.Bernardi, Il futuro è nel glocalismo, commento a: P.Perulli, Nel 2050. Passaggio al nuovo mondo (il Mulino, 2021)

F.Ventura, Edifici, città e paesaggi biodegradabili, commento a: V. De Lucia, L’Italia era bellissima (DeriveApprodi, 2022)

M. Ruzzenenti, La natura? Un'invenzione dei tempi moderni, commento a: B. Charbonneau, Il Giardino di Babilonia (Edizioni degli animali, 2022)

G. Nuvolati, Il design è nei territori, commento a: A. Galli, P. Masini, I luoghi del design in Italia (Baldini & Castoldi, 2023)

C.Olmo, Un'urbanistica della materialità e del silenzio, commento a:C. Bianchetti, Le mura di Troia (Donzelli, 2023)

E. Scandurra, Dalle aree interne un'inedita modernità, commento a: L. Decandia,Territori in trasformazione (Donzelli, 2022)

M. Brusatin, Parlare al non-finito & altro, commento a: L. Crespi, Design del non-finito (Postmedia, 2023)

H. Porfyriou, L'urbanistica tra igiene, salute e potere, commento a: G. Zucconi, La città degli igienisti (Carocci, 2022)

G. Strappa, Ogni ricostruzione è progetto, note a partire a: E. Bordogna, T. Brighenti, Terremoti e strategie di ricostruzione (LetteraVentidue, 2022)

L. Bifulco, Essere preparati: città, disastri, futuro,
commento a: S. Armondi,
A. Balducci, M. Bovo,
B. Galimberti (a cura di), Cities Learning from a Pandemic: Towards Preparedness (Routledge, 2022)

A. Bruzzese, Una piazza per ogni scuola, commento a: P. Pileri, C. Renzoni, P. Savoldi, Piazze scolastiche (Corraini, 2022)

C. Sini, Più che l'ingegnere, ci vuole il bricoleur, commento a: G. Pasqui, Gli irregolari (FrancoAngeli, 2022)

G. De Luca, L'urbanistica tra politica e comorbilità, commento a: M. Carta, Futuro (Rubbettino, 2019)

F. Erbani, Una linea rossa per il consumo di suolo, commento a: V. De Lucia, L’Italia era bellissima (DeriveApprodi, 2022)

F. Ventura, L'urbanistica fatta coi piedi, commento a: G. Biondillo, Sentieri metropolitani (Bollati Boringhieri, 2022)

E. Battisti, La regia pubblica fa più bella la città, commento a: P. Sacerdoti, Via Dante a Milano (Gangemi, 2020)

G. Nuvolati, Emanciparsi (e partecipare camminando), commento a: L. Carrera, La flâneuse (Franco Angeli, 2022)

P. O. Rossi, Zevi: cinquant'annidi urbanistica italiana, commento a: R. Pavia, Bruno Zevi (Bordeaux, 2022)

C. Olmo, La memoria come progetto, commento a: L. Parola, Giù i monumenti? (Einaudi, 2022); B. Pedretti, Il culto dell’autore (Quodlibet, 2022); F. Barbera, D. Cersosimo, A. De Rossi (a cura di), Contro i borghi (Donzelli, 2022)

A. Calafati, La costruzione sociale di un disastro, commento a: A. Horowitz, Katrina. A History, 1915-2015 (Harvard University Press, 2020)

B. Bottero, Città vs cittadini? No grazie, commento a: M. Bernardi, F. Cognetti e A. Delera, Di-stanza. La casa a Milano (LetteraVentidue, 2021)

F. Indovina, La città è un desiderio, commento a: G. Amendola, Desideri di città (Progedit, 2022)

A. Mazzette, La cura come principio regolatore, F. C. Nigrelli (a cura di), Come cambieranno le città e i territori dopo il Covid-19 (Quodlibet Studio, 2021)

P. Pileri, La sostenibilità tradita ancora, commento a: L. Casanova, Ombre sulla neve. Milano-Cortina 2026 (Altreconomia, 2022)

A. Muntoni, L'urbanistica, sociologia che si fa forma, commento a: V. Lupo, Marcello Vittorini, ingegnere urbanista (Gangemi, 2020)