Gregorio Carboni Maestri  
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LO SPAZIO E LE FORME


Commento al libro di Carlotta Torricelli



Gregorio Carboni Maestri


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Nel Portogallo del 1962, in un ambiente d'innovazione portato avanti dagli architetti più refrattari al regime fascista dello Stato Nuovo e, simultaneamente, di una leggera distensione da parte di quest'ultimo, venne alla luce una pubblicazione di cruciale rilevanza: Da Organização do Espaço. Questa prima pubblicazione monografica dell’architetto quarantenne Fernando Luís Cardoso de Meneses de Tavares e Távora (1923—2005) fu scritta con l'obiettivo primario di partecipare alla selezione per una cattedra presso la Escola Superior de Belas-Artes do Porto.

Nel 2021 questo libro di fondamentale importanza per la storia dell’architettura portoghese è stato splendidamente tradotto da Carlotta Torricelli e pubblicato da Nottetempo con il titolo Dell’organizzazione dello spazio (1). Quasi definibile come un trattato, questa pubblicazione si articola in quattro parti principali: “Dimensioni, relazioni e caratteristiche dello spazio organizzato”; “L’uomo contemporaneo e l’organizzazione del suo spazio”; “L’organizzazione dello spazio portoghese contemporaneo”; “Intorno al ruolo dell’architetto”. Con un linguaggio naturale e modesto, tipico di un esperto del mestiere, la forma architettonica veniva presentata come un sistema quasi animato, in un discorso perseverante tra indipendenza disciplinare e ormeggio nel porto sicuro che è la realtà concreta, ambivalenza che attraversa non solo questo testo, ma anche l’opera e la figura stessa di Távora. Testo che sembra parlare agli studenti oltre che ai colleghi e al mondo accademico, con una serie di raccomandazioni e riflessioni per le scuole portoghesi (2).

Mediante questa indagine critica, il Nostro conduce l'interlocutore verso l'elucidazione di soluzioni adeguate ai problemi posti dall'universo tangibile, alle chances determinate dai bisogni umani, nonché alle immagini mentali che la collettività detiene in una specifica fase storica. Un'oscillazione tra astrattezza e contesto pervade l'intero tomo. Távora avanzando quest'opera, offre una lente analitica dalla quale far emergere una rilettura delle condizioni e delle peculiarità specifiche di ogni singolo disegno progettuale. Le sezioni dell’opera, autentiche lezioni magistrali, imbevono il lettore in un'istruzione penetrante, in cui sono analizzati i fenomeni di ordine spaziale, assegnando incessantemente all'uomo una posizione centrale nella sua comprensione e strutturazione. Perfettamente pertinente nell'attualità, asserisce che la configurazione del nostro habitat materiale debba essere affrontata in maniera olistica e, pertanto, rappresenti un incarico collettivo. In tal senso, secondo il Nostro, i creatori dei disegni e delle pianificazioni, trasversalmente alle proprie prassi, non dovrebbero precludere la partecipazione attiva della cittadinanza nella delimitazione sia dei territori che, in ultima analisi, dei saperi.

Come Nuno Portas illustra nell'introduzione all'edizione del 1982, anch’essa tradotta da Torricelli, Távora attraverso quest'opera realizza una significativa metamorfosi nel proprio filo logico:

[…] il passaggio dalle dimensioni architettoniche dello spazio, sperimentato come progettista al tavolo da disegno e nella successiva realizzazione delle opere, ai problemi di organizzazione della città e del territorio, in cui le dimensioni socioeconomiche assumono il ruolo di strategiche variabili decisionali (3).

Nella sua prima parte, il saggio esamina l'organizzazione dello spazio architettonico e urbano, evidenziando la mansione che l'architetto svolge nella gestione dei complessi problemi ad egli connessi. Si inizia con il vaglio delle dimensioni dello spazio, che possono essere bidimensionali o tridimensionali, includendo anche la quarta dimensione del tempo. Il tempo, dunque, inseparabile dagli altri principi, si manifesta quale quarta dimensione, conferendo dinamismo e, per estensione, stabilità all'ordine spaziale. Si sottolinea come l'organizzazione dello spazio in due o tre dimensioni sia solo un'approssimazione, poiché il tempo ha un peso fondamentale, come dimostrato dalla teoria della relatività. Távora articola ciò che considera dunque il nucleo essenziale di un coordinamento spaziale, connettendolo con l’elemento variabile della durata. Tale continuità viene perseguita sia trasversalmente che verticalmente, materializzandosi in una sinergia tra detentori di responsabilità di generazioni eterogenee, conferendo maggiore coesione e saggezza alla traiettoria che l'organizzazione dello spazio aspira a percorrere.

Le forme, come punti, linee, superfici e volumi, plasmano lo spazio che, secondo F. Távora, è esso stesso una forma. Si riconosce anche che le forme, siano esse generate dall’essere umano o meno — distinguendole tra forme naturali e artificiali — sono influenzate dalla circostanza spaziale circostante e dalla percezione dell'osservatore. Le diverse prospettive dell'osservatore, sia che sia fermo o in movimento, introducono elementi statici e dinamici nello spazio.

Successivamente, vengono esplorate le espressioni artistiche come la pittura e la scultura, collegate all'architettura, attraverso il concetto di design inteso come connubio di arte e tecnica. La scelta del termine, con la sua natura linguistica anglofona, in luogo di progetto o desenho, si inseriva nella tensione e nella dimensione internazionale che caratterizzava l'epoca in cui veniva scritto il testo. È pertinente notare, in tal senso, come il testo tratti anche proprio di alcune delle collaborazioni internazionali di Fernando Távora, come la World design conference.

Il Nostro affronta poi la relazione tra forma e situazione contestuale, criticando l'approccio intellettualistico verso la caratterizzazione delle cose, sottolineando l'importanza dell'esperienza diretta. Evidenzia come l'organizzazione dello spazio vada oltre la semplice occupazione, richiedendo armonia e intenzionalità: circostanze ed esperienze dirette costituiscono la base per una comprensione completa delle cose.

Fernando Távora esamina, in questo particolare stato di cose, gli elementi con cui si sviluppa un programma architettonico. Per il Nostro, nonostante l'importanza della circostanza, ovvero l'ambiente circostante preesistente in termini di disposizione spaziale, la pianificazione di un progetto non è determinata in modo ineluttabile:

Tale responsabilità è generata proprio dal fatto che l’uomo sa che l’organizzazione dello spazio, pur dovendo soddisfare e rispondere alla circostanza, non è da essa “fatalmente determinata” – difatti offre la possibilità di un ruolo attivo per chi compie l’atto di organizzare – e che lo spazio, una volta organizzato, andrà a sua volta a costituirsi come circostanza (4).

Cedendo, dunque, al progettista, un’indipendenza di opzioni formali e, pertanto, un'infinita diversificazione di risoluzioni. In sostanza, una stessa zona, con medesimi limiti, non definisce una progettazione e un edificio simili: non ci sono mai due progetti medesimi per un luogo equivalente, poiché, al di là di esso, esistono un'illimitatezza di coefficienti mutevoli da esaminare.

Forme artistiche e funzionali potevano, secondo il Nostro, coesistere e riflettersi sulla natura artistica delle forme umane. Forme le cui incoerenze creerebbero una vera e propria dilapidazione dello spazio. Le scelte legate alla disposizione dello spazio avrebbero influenzato l'esperienza umana e la relazione con l'ambiente (5).

 

L’espressione “organizzare lo spazio”, alla scala umana, ha per noi un significato differente da quello che per esempio potrebbe avere l’espressione “occupare lo spazio”. Riconosciamo nel termine “organizzare” un desiderio, una manifestazione di volontà, un significato che il termine “occupare” non ha; per questo impieghiamo l’espressione “organizzazione dello spazio”, dando per assunto che alla sua base ci sia sempre l’uomo, essere pensante e artista per natura. Da questi presupposti deriva che l’occupazione dello spazio da parte dell’uomo tende sempre verso, o, potremmo dire, va sempre nella direzione di, o ancora, ha come obiettivo la creazione dell’armonia dello spazio, considerando che armonia è la parola che restituisce precisamente l’idea di equilibrio, giusta combinazione di coscienza e sensibilità, corretta integrazione gerarchica di differenti fattori. Va considerato che non sempre l’uomo tende all’armonia – e a riprova di questo si possono citare un numero infinito di esempi – o al progresso dell’intelligenza o al culto della sensibilità; si fa qui riferimento ad atti di stupidità e brutalità che attraversano la storia dell’uomo come specie e della sua vita come individuo (6).

 

L’architetto riflette anche sulla collaborazione e la partecipazione, siano esse orizzontali o verticali. Come già accennato, sottolinea altresì l'importanza delle conformazioni dell’esistenza umana e la responsabilità di organizzarle. L'organizzazione dello spazio è vista come un atto di responsabilità capace d’influenzare la società e l'ambiente, richiedendo equilibrio tra circostanza e creazione di forme significative. Evidenzia la complessità delle relazioni tra forme, circostanze e percezione umana. L’architetto, in tal senso, ha, secondo Távora, la responsabilità nell'armonizzare lo spazio e nell'influenzare la vivacità delle persone attraverso la creazione di forme significative.

In sostanza, per Távora, la nozione di coerenza, emblematica della dinamica cosmica, è spesso trascurata a favore di un "disordine iperspecializzato", di una rivelazione fugace e istantanea che mira a soddisfare la vanità progettuale del creatore, omettendo il contesto e dando origine a una deviazione dannosa per la strutturazione ambientale, la quale potrebbe anzi simboleggiare un elemento di retrocessione della struttura stessa. L'articolazione di un'area richiede una deliberazione consapevole in relazione ai contesti; di conseguenza, coerenza e deterioramento sono in antagonismo, in quanto gli individui risultano da un ampio insieme di limitazioni che li circondano, generando modi di ragionare e comportarsi di estrema varietà. La metamorfosi urbana è un tema trattato in questa dissertazione del 1962 in modo sorprendentemente odierno.

 

Nel capitolo “L’uomo contemporaneo e l’organizzazione del suo spazio”, Fernando Távora esplora il rapporto tra diffusione globale della cultura europea e il mondo del suo tempo. La civiltà europea, con radici in Grecia e Roma, costituisce, secondo lui, una base culturale comune estesa in tutto il mondo, superando le barriere geografiche e spirituali. Questo processo porta all'universalizzazione di tale patrimonio intellettuale associata a tradizioni locali, creando nuove varietà espressive. Va sottolineato come questo manuale, figlio dei suoi tempi e del suo contesto politico, non fa —e non può fare— alcuna menzione sulla questione coloniale, soprattutto portoghese, e dei problemi ad essa connessi.

Secondo Távora, la fattezza materiale della cultura, rappresentato dalla tecnologia, si diffonde e influenza materialmente il globo; tuttavia, i cambiamenti di natura spirituale determinati da questi cambiamenti richiedono tempo per integrare idee in un contesto culturale più ampio. Questo processo di diffusione assume spesso la faccia di una rivoluzione sia nei settori materiali che spirituali.

Gli Stati Uniti hanno uno spazio importante in questa parte del trattato che fu, in parte, prodotto e rapporto parziale del suo viaggio di poco precedente e di alcuni degli elementi appresi quanto all'approccio alle moderne discipline tecniche, artistiche e nozionistiche che coinvolgono il progetto.

Conforme al pensiero dell'autore, l'egemonia del dominio occidentale rivestiva un'importanza notevole nella propagazione e nell'ascendente globale del sapere europeo, grazie all'impiego concreto delle sue teorie, generando inediti paradigmi e modalità d'essere. Quel che postulava, in sintesi, era che l'orbe in cui si trovava ad operare fosse frutto delle metamorfosi e delle disseminazioni del patrimonio culturale europeo, tessendo una trama epistemologica universale partecipata. Tale asserzione appariva di cruciale importanza per Távora, quasi ad insinuare che l'eredità classica, quella di Roma e Atene, benché fossero entrate nel crepuscolo della loro storia, trovassero nella supremazia statunitense una rinnovata proiezione planetaria e, in ultima analisi, una seconda effusione di vitalità nell'epoca contemporanea.

L’indagine si concentra dunque sull'evoluzione dell’individuo europeo, mettendo in luce la crescita ininterrotta di esperienze verso il dominio. Il Rinascimento, in questa prospettiva, rappresenta una fase cruciale in cui gli esseri umani cercano di approfondire la comprensione di sé e del mondo attraverso la scienza. Ciò dimostra quanto, malgrado molte contraddizioni, quella di Távora sia una veduta del mondo e della storia prevalentemente moderna, più che modernista. Ciò nonostante, questa visione viene regolarmente smentita da parziali revisioni di tale linearità, come quando egli condanna l'eccessiva fiducia nella ragione e nella tecnologia, accusate di causare alienazione nella creatura pensante e nelle sue creazioni, usando l’esempio del señorito satisfecho di Ortega y Grasset.

 

Non sembrano esserci, secondo Távora, elementi di natura sociale, politica e distributiva nello spiegare come e perché queste tecnologie possano generare alienazione. E come solo la ragione possa liberare l’essere mortale dall’oppressione dagli usi fallaci delle tecnologie per trasformarle in strumenti di liberazione collettiva. Tuttavia, come vedremo, gli aspetti sociali vengono affrontati nei paragrafi successivi, indicando come, per Távora, non vi sia una coscienza di tale nesso. Cioè, la comprensione delle determinazioni legate al "chi possiede" tali tecnologie, e come queste siano amplificatori di profitto e disuguaglianza ma non la causa. Pasticcio filosofico ancora attuale. È difficile però, oggi, comprendere quanto vi fosse di margine vi fosse di confusione riguardo a tali concetti, e quanto fosse autocensura, considerando il carattere ufficiale della sua candidatura presso la scuola statale di belle arti in piena dittatura.

 

L'organizzazione dello spazio urbano è un altro punto centrale della discussione di questo capitolo. Il Nostro evidenzia come le città del suo tempo mostrino una crescita caotica e disconnessa, perdendo il contatto con la natura e compromettendo la salute degli abitanti. L'urbanistica emerge per lui come disciplina cruciale per migliorare la qualità del vigore urbano, bilanciandola per evitare imposizioni forzate. Anche in questo punto, si percepisce quanto sia presente, sebbene in modo frazionato, una dottrina moderna ancora intrisa di fiducia. Ma è anche di estremo interesse come emerga, tra le righe, la discussione, che da lì a poco sarebbe diventata crescente, sul rapporto tra formalismo e funzionalismo. Il testo riflette infatti anche sull'evoluzione in corso all’epoca negli Stati Uniti e in Europa, evidenziando il cambiamento che l’umano porta alle creazioni, sia ereditate che naturali. Ed è questo uno dei momenti di più grande interesse del saggio. Távora evidenzia infatti come l'architettura sia sempre più caratterizzata da forme in conflitto, sottolineando la sfida fondamentale che è trovare un equilibrio tra forma e funzione negli oggetti industriali e artigianali. In definitiva, sottolinea anche l'importanza dell'equilibrio tra tradizione e progresso, suggerendo come l'armonizzazione dello spazio organizzato richieda sforzi costanti. E dichiara, al lettore, in sostanza, quale sia il suo progetto culturale. In uno dei paragrafi più belli di questo capitolo, Távora scrive:

L’“architettura funzionale” collocò indubitabilmente l’uomo come fulcro della sua ragion d’essere, ma, dal momento che ricercò solo alcuni dei suoi aspetti e non la sua totalità, essa arrivò all’estremo, negandolo e sovrapponendosi a lui. Anche in questo caso l’uomo si dimenticò di se stesso. Si prefigurarono case e altri edifici che potevano indifferentemente servire per qualsiasi uomo in qualsiasi luogo e si parlò dell’uomo come “animale geometrico” e dell’“architettura internazionale” (7).

Nella terza parte, nella sezione dedicata all’”Organizzazione dello spazio portoghese contemporaneo”, il dattiloscritto affronta la tematica dell’organizzazione dello spazio portoghese attraverso diverse prospettive, analizzando le sfide e le opportunità legate all’urbanistica, al costruito, all’industrializzazione, all’abitazione, all’educazione. Egli riconosce l’importanza di comprendere il passato e di confrontarlo con la situazione della sua epoca per affrontare le sfide dell’organizzazione dello spazio in modo efficace. È interessante come il volume consideri che, fino al XVIII secolo, ci sia stato un impegno continuo nell’organizzazione dello spazio, un impegno che entra in crisi e discontinuità a partire da quel periodo. Queste crisi non sono attribuibili a un singolo fattore, ma a molteplici influenze esterne e interne che portano a cambiamenti drammatici.

Lo studio si concentra poi sulla pianificazione dello spazio naturale e su come i portoghesi lo abbiano organizzato attraverso la pianificazione delle città, l’attività agricola, l’edilizia, l’arredamento e la pittura, riconoscendone i fattori caratterizzanti di tale impostazione. Viene messo in luce il passaggio da periodi architettonici come il Romanico al Gotico o dal Gotico al Rinascimento, che riflettono trasformazioni profonde, riconoscendo come l’analisi dello spazio di quegli anni sia troppo complessa, non potendo essere spiegata solo dalle circostanze esterne o dai “segni dei tempi”.

L’autore riflette quindi sulla necessità di considerare una panoramica più ampia dello spazio del passato e di confrontarla con la situazione del suo tempo, descrivendo l’organizzazione dello spazio portoghese come armoniosa, sobria e costante, ma ponendo in dubbio la natura assidua e replicabile di questa armonia.

 

Nel campo urbano, Távora evidenzia come vi siano invece evidenti disarmonie e squilibri tra le regioni portoghesi, con grandi centri urbani che attraggono sviluppo e attività, ma molte altre aree che lottano con il degrado e la mancanza di opportunità. Anche qui, torna in auge l’urbanista fiducioso nelle capacità progressive della pianificazione, evidenziando l'importanza e la necessità di una pianificazione nazionale per creare armonia e orientamento tra i territori. Le sfide legate alla pianificazione locale devono essere sottoposte a discussioni, revisioni ed evoluzioni concettuali con un approccio dinamico e flessibile e uffici di urbanistica quali connettori tra piani e realtà.

Alla necessità di coordinare piani regionali e nazionali, per evitare disconnessioni e caos nello sviluppo urbano, è associata quella di cambiamenti legislativi e di approccio, essenziali per affrontare le sfide dell'organizzazione dello spazio in Portogallo. E, come ovvio per la Scuola di Oporto, il manoscritto non può che rilevare l'importanza dell'integrazione tra progettistica e urbanistica, sottolineando come un elevato livello architettonico richieda un alto livello urbanistico e viceversa. Prospettiva che, secondo lui, manca proprio all’architettura e alle città del suo tempo.

Questa è una delle parti del libro forse più audaci politicamente nel contesto degli anni Sessanta in Portogallo, pagine di grande coraggio. Paragrafi in cui Fernando Távora esplora le implicazioni economiche, industriali, culturali e le disuguaglianze economiche e di reddito come fattori d’influenza dello sviluppo incoerente del territorio. Si sottolinea qui l'importanza di una pianificazione economica e fisica congiunta per affrontare queste sfide in modo equilibrato. L’influsso dell’educazione e della trasmissione è identificato come uno dei fattori fondamentali per coinvolgere tutti nella creazione di uno spazio organizzato, trasformando il controllo in partecipazione attiva.

 

La quarta e ultima parte, "A proposito del ruolo dell'architetto", costituisce la più introspettiva. Távora tratta della strutturazione e configurazione dello spazio da parte dell’individuo, di equilibrio individuale, dell’armonia e, per opposizione, delle disarmonie create dall’instabilità, un concetto che, come abbiamo visto, ritorna spesso nella pubblicazione. In tal senso, il progetto, per Távora, sembra essere vista come elemento di contributo formale e spaziale all’ordine sociale, etico e civile della collettività. In queste pagine finali, Távora parla anche della questione della continuità con l’individuo, che, a sua volta, plasma forme e organizza spazi, a loro volta influenzate dalle circostanze ed esercitanti dialetticamente loro stesse un'azione sulle circostanze, dando luogo a un'organizzazione dello spazio sia determinata che determinante. L'architetto, professionista, assume dunque la veste di creatore di forme e maestro dell'organizzazione spaziale. Tuttavia, le forme e gli spazi che mette in essere, interagendo con le circostanze, generano ulteriori circostanze. Pertanto, poiché l'architetto ha il potere di scelta e selezione, sorge un dramma e un dilemma inevitabile: il suo operato può avere conseguenze positive o negative nella creazione di tali condizioni, che possono essere positive o negative. Non può adottare decisioni superficiali o basate su prospettive parziali, egoistiche o di soddisfazione personale. Prima di essere architetto, è un individuo che esercita la professione per servire la comunità. Dato il carattere non predeterminato della sua azione, deve cercare di concepire forme che rispondano sia alle esigenze della società che a quelle dei suoi simili, portando avanti un desiderio di utilità.

 

Questa parte, che tocca ad esteriorità civili, quasi civilizzatrici, è seguita, nel consueto contraddittorio che rappresenta questo personaggio poliedrico, da aspetti più squisitamente professionistici, di un professionismo colto ma ancorato nella dimensione concreta del mestiere. Távora ci tiene, infatti, a sottolineare quanto l’opera del progettista debba andare dal campo dell’edilizia alla pianificazione del territorio passando dalla concezione di arredi. Tuttavia, il suo processo di progettazione e pianificazione deve ambire alla forma appropriata che concilia ciò che è necessario e possibile con efficienza e bellezza, tenendo a mente che tale forma avrà un impatto a lungo termine.

La progettazione non deve tradursi in forme prive di significato dettate dalla moda o da capricci. Le forme create devono scaturire da un equilibrio tra la visuale personale dell'architetto e la circostanza in cui opera, dove conoscenza ed esistenza si fondono. L'architetto deve attenuare gli aspetti negativi della circostanza e promuovere quelli positivi, impegnandosi nell'educazione e nella collaborazione.

Egli assume una funzione di apprendimento e insegnamento costanti. Deve ascoltare, valutare, selezionare e persino correggere, soprattutto, cooperare, superando egocentrismi ed egoismi, considerandosi un tramite tra un prima e un dopo. Come spiega C. Torricelli:

Di siffatto appiattimento Távora avverte il pericolo e invita i più meritevoli non a coltivare esclusivamente il proprio genio, quanto piuttosto a concentrarsi in quell’opera corale di trasposizione di concetti estetici e formali in una tradizione viva, condivisa da tutti i cittadini. A quasi sessant’anni dalla stesura di questo testo, nell’ambito di una cultura che ha tradotto gli individualismi in talenti, legittimando l’autoaffermazione acritica di ciascun “protagonista”, questo invito all’educazione di una cultura dello spazio appare come forma di resistenza, possibile e necessaria (8).

Oltre alla preparazione specifica, l'architetto, essendo prima di tutto un cittadino, deve comprendere le problematiche dei collaboratori e dell'umanità nel suo complesso. Oltre alla competenza specializzata, deve possedere una veduta umanistica profonda e indispensabile. Uomo tra gli uomini, l’architetto è, secondo Távora, un organizzatore dello spazio e un creatore di felicità. La sua posizione richiede una consapevolezza dei propri doveri nei confronti del sociale, dell'armonia e della costruzione di un mondo migliore attraverso la progettazione e l'organizzazione dello spazio:

Da questo punto di vista, progettare, pianificare, disegnare non dovrà tradursi per l’architetto nella creazione di forme prive di senso, determinate dalla moda o da qualche altro tipo di capriccio. Le forme che egli creerà dovranno innanzitutto risultare da un sapiente equilibrio tra la sua visione personale e la circostanza in cui si trova, che egli dovrà conoscere così intimamente da non poter più distinguere la conoscenza dall’essere (9).

Benché scarsamente o punto nota al di là delle frontiere lusitane e, nella penisola italiana, sino alla versione splendidamente tradotta da Carlotta Torricelli del 2022, codesto manufatto letterario s'impose rapidamente quale canone in terra portoghese. E ciò, integrandosi nel ciclo sacro delle edizioni d’architettura, a fianco dell'Inchiesta e dell'opera successivamente emanata da Nuno Portas, A Cidade como arquitectura: apontamentos de método e critica (10). Tali volumi, esiti delle dialettiche intellettuali degli anni '50 e '60, presero a influenzare l'operato di virtuosi d'assai generazioni, consolidando le problematiche nel campo degli interventi urbanistici e progettuali, e riscattando in termini positivi la struttura urbana (11).

L'opera in questione segnò l'alba del Távora Maestro, erede di Ramos nel ruolo di architetto di riferimento per la città di Oporto. I problemi enunciati in tale compendio, concernenti l'incarico dell'artefice dello spazio e la sua vocazione sociale, ebbero risonanze in riflessioni parallele, espresse in opere contemporanee, quali "Della funzione sociale dell’architetto: per una teoria della responsabilità in un’epoca di crocevia"(12) di Octávio Lixa Filgueiras (1922—96) e "Per una città più umana" di João Andresen (1920—67).

Questi lavori furono anch'essi frutto di dissertazioni elaborate per l'accesso a una cattedra presso l'ESBAP. Il primo, intitolato inizialmente “Sulla funzione sociale dell'architetto: per una teoria della responsabilità nell'era della ricerca”, vide Filgueiras sondare le responsabilità degli architetti nell'agire in un mondo complesso e sfaccettato, dotati della facoltà di edificare sulla base delle proprie competenze teoriche: un'azione che superava la semplice pratica, elevandosi al rango del pensiero. Andresen, invece, concorse per la carica di Professor Efectivo nel settore di “Urbanologia”.

 

Questi tre trattati abbordavano questioni salienti nel panorama della teoria del Novecento; tuttavia, sebbene i temi affrontati dagli autori siano indubbiamente di rilevanza universale e del tutto attuali, sarebbe improprio tessere attorno a essi una rete di un inesistente allineamento —attivo— a discussioni e controversie di portata globale. Tali trattati, insieme a tutto ciò che venne redatto in quegli anni, dovrebbero essere analizzati nel loro specifico stato di cose concreto, con i vincoli e le virtù delle loro peculiarità. Si trattava, dopo tutto, di un dibattito ancora assai circoscritto, periferico, peninsulare, e soprattutto esclusivo per architetti e urbanisti che non avevano la possibilità di accedere a dialoghi internazionali, per quanto Távora e pochi altri potessero accedere da poco ai CIAM, data la chiusura ermetica del loro Paese natio. Essi erano soprattutto impegnati in resistenze di carattere "difensivo" e in una fatica pedagogica nei confronti del collettivo, introducendo elementi “da fuori” verso “il dentro” per rafforzane una disciplina nei confronti di un governo avverso. Non comprendere questo dato, corrisponde a misconoscere la misura in cui tali scritti fossero esclusivamente indirizzati verso il proprio ambiente nazionale. In tal senso, come spiega Carlotta Torricelli nella sua splendida introduzione:

[…] Il contesto in cui viene scritto, dunque, è necessariamente specifico, eppure l’autore utilizza la circostanza accademica per portare a sintesi una serie di riflessioni sulle quali ha avuto modo di focalizzarsi anche nel corso dei suoi viaggi all’estero. In quelle occasioni, infatti, ha acquisito un’ampiezza di orizzonti, che, come giovane docente, giudica necessario riportare nella scuola dove si è formato e dove insegna, proprio nel momento in cui, a causa della condizione politica, gli scambi internazionali sono infrequenti e poco agevoli. È cosciente del fatto che la possibilità di essere inserito nel dibattito architettonico internazionale di quegli anni rappresenti, per un portoghese, una condizione privilegiata e, allo stesso tempo, comporti una responsabilità che induce alla ricerca del cambiamento, praticato nel profondo della propria condizione.

Una moltitudine di studiosi persevera invece nell'arduo compito di ricoprire tali manoscritti con un mantello di "modernismo normativo", quasi fossero schegge locali di un discorso globale più ampio. Tale affermazione, però, non solo attenua la resistenza indigena di tali testi al panorama politico lusitano dell'epoca e alle intricate implicazioni che ne derivavano, ma ridimensiona altresì la gravità della situazione in cui essi si collocavano.

Questa lettura riduttiva neutralizza dunque gli esiti del contesto politico portoghese, in modo non diverso dalle operazioni mediatiche di riscrittura etnica della storia, politicamente corrette, che inseriscono attori di diversa pigmentazione in serie televisive, film o documentari, per interpretare ruoli storici incongruenti con il loro colore di pelle, quali, ad esempio, la nobiltà del Settecento e dell'Ottocento, scollegandone l'essenza dai fenomeni di tratta schiavistica di milioni di africani, una delle principali radici del loro patrimonio.

 

Imputare al contesto portoghese dei ’60 un'aura di "normalità modernista", forzandone un'ipotetica integrazione nei dibattiti globali dell'epoca, significa misconoscere l'indole profonda dell'esperienza lusitana nel Novecento: una dittatura che relegò la nazione in un indietreggiamento di quattro decenni, i cui effetti pesarono e parzialmente tuttora pesano su generazioni intere. Questa interpretazione, inoltre, vanifica la rilevanza del processo rivoluzionario del 1974 nella mitigazione di tali lacerazioni, svuotando l'aspetto ontologico di questa vicenda nel plasmare la Tendenza portoghese susseguente alla rivoluzione. In tale quadro, si manifesta una temeraria distorsione.

Evitare di confrontarsi con la veridicità storica in cui Dell’organizzazione dello spazio o altre pubblicazioni dell’epoca venivano elaborati pregiudica la potenza interpretativa di tali indagini su ciò che ci possono insegnare della realtà contemporanea, o qualsivoglia altro fenomeno. Presumere che gli intellettuali o architetti di epoche antecedenti abbiano enunciato ciò che desideriamo udire oggi costituisce un rinnegamento della realtà empirica che, —benché in disaccordo con le aspirazioni di riscrittura dell’internazionalismo da boudoir in voga presso molta della ricerca riguardante l’architettura del Novecento rappresenta l'unico fondamento fattuale a nostra disposizione. In ultima analisi, disconoscere il passato comporta una mancata comprensione del presente, mentre ignorare i confini contestuali solleva gravi dubbi sulla validità di eventuali scrutini futuri.

E tralasciare di esaminare il livello di isolamento, indigenza pervasiva, repressione e mancanza di una massa critica entro cui queste generazioni furono costrette a elaborare i propri discorsi e tattiche di resistenza politica, insieme a tutti i sacrifici connessi, rappresenta una fallacia. Questa questione, quella dell'esperienza della Scuola di Oporto quale atto resiliente di opposizione, viene frequentemente occultata. Tali scritti servivano come vie indirette di contestazione, disseminazione, discussione e rieducazione, indirizzate non solo a una comunità accademica, ma, tramite linguaggi criptici, non detti e allusioni, anche a una nazione e a uno Stato le cui politiche urbane erano non solo in netto disaccordo con le idee promosse da questi pensatori, ma anche apertamente avverse.

E come avrebbero questi manoscritti potuto intrattenere un dialogo con le correnti internazionali, quando l'accesso a pubblicazioni straniere era scarso e le condizioni per lo scambio culturale difficili, anche in un periodo di relativa "apertura" del regime? L'eventualità che un piccolo gruppo di architetti viaggiasse, accolti nei CIAM soltanto nelle fasi conclusive, non suffraga l'ipotesi che tali discorsi avessero una portata universale. Erano manoscritti profondamente ancorati nel tessuto nazionale, se non addirittura endemici, e non manifestavano alcun desiderio, possibilità o pretesa di esser diversi.

 

Se è vero, come evidenziato con l'appoggio di vari studiosi, che lo sguardo di Oporto era rivolto verso Milano ed altre aree, nutrendosi di problematiche ed esempi, questo non bastava per attestare l'esistenza di una reciprocità. Per argomentare tale affermazione, dovrebbero esistere interazioni bilaterali, cosa che manifestamente non si verificò fino alla Rivoluzione dei garofani, e inizialmente soprattutto con l'Italia. Precedentemente, gli interscambi con il Portogallo erano talmente episodici da risultare quasi nulli. Di conseguenza, la "modernità perenne" portoghese pre-1974, decantata da molti studiosi, suscita un unico sentimento: quello dell'illusione.

Come se gli eventi lusitani potessero acquistare significato solo se incardinati in un quadro globale, allineati alla pax corbuseiana: fantasie che emanano dai propri dilemmi interni. La storiografia non è un inno a figure idealizzate; non possiamo nutrirci di eroi per costruire un racconto storico. E nel nutrire stima per determinati autori, è cruciale identificare i loro limiti per comprenderne la complessità nella sua interezza.

La verità sta nel fatto che quei testi, e l'opera globale di quella generazione di architetti, erano orientati al loro specifico ambiente nazionale. Se vi erano risonanze e influenze dall’esterno, queste non si traducevano in un interlocuzione attiva e reciproca e, ancor di più, non implicavano per forza un allineamento. Per essere limpidi e precisi, sussisteva un notevole "ritardo" in relazione alle discussioni “globali”, un differimento causato dalla situazione oggettiva del Portogallo negli anni '60 e dai confini di quella realtà, che non offriva uno scenario sociopolitico propizio per produrre oltre quanto già realizzato, con esiti per altro eccezionali e, appunto, singolari.

Ritengo che in tale prospettiva debba essere interpretata l'opera tradotta da Carlotta Torricelli: un manoscritto che per noi, osservatori dell'epoca attuale, possiede l'importanza di una testimonianza impareggiabile. Questo testo rievoca un momento critico del biennio '62-'63, segnando la fase conclusiva di un lutto: il lutto per le disperse virtù di un'avanguardia che non si materializzò e che non avrebbe più potuto trovare incarnazione nella penisola iberica. Di questa avanguardia, ormai, nulla più rimaneva da dissertare, se non il suo residuo più bello: la realtà.

 

All'interno della Scuola, sulla scorta del suddetto volume, Távora intraprese l'insegnamento nel suo celebre corso di Teoria geral da organização do espaço (TGOE) fino al 1993. Le finalità di detto corso erano, e sono tuttora — dal momento che la programmazione didattica ha conservato un'auspicata costanza attraverso i decenni, nonostante l'Accordo di Bologna — di accostare gli studenti a un'ampia varietà di specificità spaziali e ai differenti concetti che ne delineano l'essenza: dal "spazio naturale" al "spazio umanizzato," dall'ambiente urbano al contesto architettonico. Si mirava a definire i lemmi del gergo corrente (da strada a via, da soffitto a tetto, da tetto a copertura, da cortile a giardino o terrazzo). Era avanzato un invito a risvegliare la "memoria spaziale latente" in ciascun discente, attraverso esperienze sia immediate che mediate, e un’esortazione alla "scoperta personale," particolarmente in relazione al costruito e all'ambito urbano. Il curricolo prevedeva l'esame di concetti quali spazio naturale e artificializzato, sito e luogo, territorio e spazialità architettonica e urbana, la correlazione fra architettura e altre espressioni artistiche, le dinamiche tra interno, esterno, pubblico e privato, le nozioni di scala e di spazialità, di luce e di qualità spaziali. E tutto ciò veniva concretizzato, e ancora si concretizza, mediante dialoghi, proiezioni cinematografiche invocanti riflessioni spaziali, esercitazioni sia individuali che collettive, ecc.

 

Nel corso di Távora, l'architettura emergeva come epicentro di dialoghi liberi da prevenzioni o dogmi. Gli scambi di idee venivano arricchiti da assidue letture di Camões (1524—80), Pessoa (1888—1935), Sophia de Mello Breyner Andresen (1919—2004) o Eugénio de Andrade (1923—2005); si raccontarono avventure vissute e ogni elemento era integrato in un percorso profondamente, fieramente e intransigentemente portoghese, immune da preoccupazioni cosmopolite o complessi d'inferiorità. Soprattutto, resilientemente antifascista. Un modello che le nostre facoltà di architettura farebbero bene a considerare.

Gregorio Carboni Maestri

 

Note
1) Távora, F. (2021). Dell’organizzazione dello spazio (C. Torricelli, trad.). Milano: Nottetempo.
2) Esteves de Oliveira Canto Moniz, G. (2011). O ensino moderno da arquitectura: A Reforma de 57 e as Escolas de Belas-Artes em Portugal (1931-69). [Tesi di dottorato, Universidade de Coimbra].
3) Távora, F. (2021). Op. Cit. 50-51.
4) Távora, F. (2021). Op. Cit. 101.
5) Madeira da Silva, T. (2023). O conceito de lugar arquitetónico. Cidades. 46
6) Távora, F. (2021). Op. Cit. 84.
7) Távora, F. (2021). Op. Cit. 127.
8) Távora, F. (2021). Op. Cit. 32-33.
9) Távora, F. (2021). Op. Cit. 183.
10) Portas, N. (1965). A Cidade como arquitectura: apontamentos de método e critica. Lisbona: Horizonte.
11) Souza Duarte, Y. (2022). Arquitetura Portuguesa da Escola do Porto à Escola do Siza? Natal: Edufrn. 12.
12) Filgueiras, O. L. (1962-06) Da função social do arquitecto: para uma teoria da responsabilidade numa época de encruzilhadas. Arquitectura. 46-50.
13) Andresen, J. (1962). Para uma cidade mais humana. Porto: Imprensa social.
14) — (2005-09-03). Morreu o arquitecto Fernando Távora. Público.

 

N.d.C. Gregorio Carboni Maestri è un architetto e pianificatore nato nel 1977 a Uccle, Belgio, e cresciuto tra Italia, Belgio e Brasile. Attualmente è professore associato invitato presso LOCI (UCLouvain), dove insegna “Storia dell’architettura: questioni contemporanee”, e Maître assistant in progetto d'architettura presso La Cambre Horta (ULB).

Nella sua gioventù si è formato come pittore e fumettista presso l’accademia di belle arti di Saint-Gilles (1992—95) e ha ottenuto riconoscimenti come illustratore dalla stampa brasiliana, dove i suoi disegni sono stati pubblicati su varie testate tra l’89 e il ‘97. Carboni Maestri ha studiato architettura presso l’ISACF La Cambre d'Ixelles, la Facoltà d’architettura Civile del Politecnico di Milano e la FAUP di Oporto, città dove ha lavorato presso il CRUARB e concluso una tesi di laurea, diretta da Eduardo Souto de Moura e Orsina Pierini, che esplora l'influenza della Tendenza e dell'italofilia sull'architettura portoghese contemporanea.

Nel 2004, ha vinto una borsa di lavoro presso lo studio RPBW e, nel 2007, ha fondato lo studio GCMa, collaborando con studi quali Archea e ACPV, e ha partecipato a concorsi internazionali come il MEIS di Ferrara e il memoriale della Shoah di Bologna.

Dal 2011 al 2016, ha lavorato al progetto éGlossa 21”, proposta per la salvaguardia del Memoriale italiano di Auschwitz e ha servito come consulente per la commissione urbanistica di Milano. Nel 2012 ha vinto il Premio Bergamo di Architettura e l’anno seguente è diventato Visiting Research Scholar alla Columbia University, sino al 2015, dove ha anche completato parte del suo dottorato, che si concentra sull’IAUS e la rivista Oppositions. Ha ricevuto una borsa di ricerca dalla Graham Foundation nel 2015 per la realizzazione del primo studio sugli archivi di Kenneth Frampton e nel 2017 è stato ricercatore post-dottorale invitato al Canadian Centre for Architecture.

Ha tenuto conferenze in numerose università e istituzioni ed è autore di articoli su periodici internazionali in vari ambiti, dall'educazione, alla politica alla ricerca. Ha anche contribuito a mostre e cataloghi, incluso un documentario su Palladio proiettato in oltre 450 sale cinematografiche in Italia.

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

17 NOVEMBRE 2023

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Annamaria Abbate
Gilda Berruti
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Conferenze & dialoghi

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2021: V. Magnago Lampugnani | G. Nuvolati
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

2021: programma/1,2,3,4
2022: programma/1,2,3,4
2023: programma/1,2,3,4
 
 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi
2022: Pier Luigi Cervellati

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021: online/pubblicazione
2022: online/pubblicazione
2023:

L. Tozzi, Milano, un'altra storia, commento a L. Tozzi, L’invenzione di Milano (Cronopio, 2023)

G. Lanza, Città (e territori) oltre l'automobile, commento a: P. Coppola, P. Pucci e G. Pirlo (a cura di), Mobilità & città. Verso una post car city (il Mulino, 2023)

L. Zevi, Verso una sacralità non convenzionale, commento a: A. I. Lima, La dimensione sacrale del paesaggio (Palermo University Press, 2023)

F. Adobati, Conoscere attraverso il progetto, commento a: E. Colonna Di Paliano, S. Lucarelli, R. Rao, Riabitare le corti di Polaggia (FrancoAngeli, 2021)

M. C. Tosi, Urbanistica? Raccontiamola in positivo, commento a: A. Clementi, Alla conquista della modernità (Carocci, 2021)

A. Petrillo, Satellite: cronaca di un fallimento, commento a: A. Di Giovanni e J. Leveratto, (a cura di), Un quartiere-mondo (Quodlibet, 2022)

P. Colarossi, Le città sono fatte di quartieri e di abitanti, commento a: L. Palazzo, Orizzonti dell’America urbana (Roma TrE-Press, 2022)

M. Agostinelli, Sufficienza? Un antidoto alla modernità, commento a: W. Sachs, Economia della sufficienza (Castelvecchi, 2023)

A. Lazzarini, I luoghi sono un'enciclopedia, commento a: G. Nuvolati (a cura di), Enciclopedia sociologica dei luoghi (Ledizioni, 2019-2022)

G. Laino, Napoli oltre i luoghi comuni, commento a: P. Macry, Napoli. Nostalgia di domani (il Mulino, 2018)

G. Zucconi, Complessità nella semplicità, commento a: G. Ciucci, Figure e temi nell’architettura italiana del Novecento (Quodlibet, 2023)

R. Tognetti, Altre lingue per il "muratore che ha studiato latino", commento a: L. Crespi, Design del non-finito (Postmedia books, 2023)

M. A. Crippa, Il paesaggio (in Sicilia) è sacro, commento a: A. I. Lima, La dimensione sacrale del paesaggio (Palermo University Press, 2023)

A. Petrillo, Dove va Milano?, commento a: L. Tozzi, L’invenzione di Milano (Cronopio, 2023)

A. Clementi, Cercasi urbanista responsabile, commento a: A. Belli, G. Belli, Luigi Piccinato (Carocci, 2022)

F. Visconti, L'ordine necessario dell'architettura, commento a: R. Capozzi, Sull’ordine. Architettura come cosmogonìa (Mimesis, 2023)

V. De Lucia, Natura? La distruzione continua..., commento a: A. Cederna, La distruzione della natura in Italia (Castelvecchi, 2023)

P. C. Palermo, Urbanistica? Necessaria e irrilevante, commento a: A. Clementi, Alla conquista della modernità (Carocci, 2020)

C. Merlini, L'insegnamento di un controesempio, commento a: A. Di Giovanni, J. Leveratto, Un quartiere mondo (Quodlibet, 2022)

I. Mariotti, Pandemie? Una questione anche geografica, commento a: E. Casti, F. Adobati, I. Negri (a cura di), Mapping the Epidemic (Elsevier, 2021)

A. di Campli, Prepararsi all'imprevedibile, commento a: S. Armondi, A. Balducci, M. Bovo, B. Galimberti (a cura di), Cities Learning from a Pandemic (Routledge, 2023)

L. Nucci, Roma, la città delle istituzioni, commento a: (a cura di) A. Bruschi, P. V. Dell'Aira, Roma città delle istituzioni (Quodlibet, 2022)

G. Azzoni, Per un'etica della forma architettonica, commento a: M. A. Crippa, Antoni Gaudì / Eladio Dieste. Semi di creatività nei sistemi geometrici (Torri del vento, 2022)

S. Spanu, Sociologia del territorio: quale contributo?, commento a: A. Mela, E. Battaglini (a cura di), Concetti chiave e innovazioni teoriche della sociologia dell’ambiente e del territorio del dopo Covid-19 ("Sociologia urbana e rurale", n. mon. 127/2022)

F. Camerin, La dissoluzione dell'urbanistica spagnola, commento a: M. Fernandez Maroto, Urbanismo y evolución urbana de Valladolid (Universidad de Valladolid, 2021)

M.Bernardi, Il futuro è nel glocalismo, commento a: P.Perulli, Nel 2050. Passaggio al nuovo mondo (il Mulino, 2021)

F.Ventura, Edifici, città e paesaggi biodegradabili, commento a: V. De Lucia, L’Italia era bellissima (DeriveApprodi, 2022)

M. Ruzzenenti, La natura? Un'invenzione dei tempi moderni, commento a: B. Charbonneau, Il Giardino di Babilonia (Edizioni degli animali, 2022)

G. Nuvolati, Il design è nei territori, commento a: A. Galli, P. Masini, I luoghi del design in Italia (Baldini & Castoldi, 2023)

C.Olmo, Un'urbanistica della materialità e del silenzio, commento a:C. Bianchetti, Le mura di Troia (Donzelli, 2023)

E. Scandurra, Dalle aree interne un'inedita modernità, commento a: L. Decandia,Territori in trasformazione (Donzelli, 2022)

M. Brusatin, Parlare al non-finito & altro, commento a: L. Crespi, Design del non-finito (Postmedia, 2023)

H. Porfyriou, L'urbanistica tra igiene, salute e potere, commento a: G. Zucconi, La città degli igienisti (Carocci, 2022)

G. Strappa, Ogni ricostruzione è progetto, note a partire a: E. Bordogna, T. Brighenti, Terremoti e strategie di ricostruzione (LetteraVentidue, 2022)

L. Bifulco, Essere preparati: città, disastri, futuro,
commento a: S. Armondi,
A. Balducci, M. Bovo,
B. Galimberti (a cura di), Cities Learning from a Pandemic: Towards Preparedness (Routledge, 2022)

A. Bruzzese, Una piazza per ogni scuola, commento a: P. Pileri, C. Renzoni, P. Savoldi, Piazze scolastiche (Corraini, 2022)

C. Sini, Più che l'ingegnere, ci vuole il bricoleur, commento a: G. Pasqui, Gli irregolari (FrancoAngeli, 2022)

G. De Luca, L'urbanistica tra politica e comorbilità, commento a: M. Carta, Futuro (Rubbettino, 2019)

F. Erbani, Una linea rossa per il consumo di suolo, commento a: V. De Lucia, L’Italia era bellissima (DeriveApprodi, 2022)

F. Ventura, L'urbanistica fatta coi piedi, commento a: G. Biondillo, Sentieri metropolitani (Bollati Boringhieri, 2022)

E. Battisti, La regia pubblica fa più bella la città, commento a: P. Sacerdoti, Via Dante a Milano (Gangemi, 2020)

G. Nuvolati, Emanciparsi (e partecipare camminando), commento a: L. Carrera, La flâneuse (Franco Angeli, 2022)

P. O. Rossi, Zevi: cinquant'annidi urbanistica italiana, commento a: R. Pavia, Bruno Zevi (Bordeaux, 2022)

C. Olmo, La memoria come progetto, commento a: L. Parola, Giù i monumenti? (Einaudi, 2022); B. Pedretti, Il culto dell’autore (Quodlibet, 2022); F. Barbera, D. Cersosimo, A. De Rossi (a cura di), Contro i borghi (Donzelli, 2022)

A. Calafati, La costruzione sociale di un disastro, commento a: A. Horowitz, Katrina. A History, 1915-2015 (Harvard University Press, 2020)

B. Bottero, Città vs cittadini? No grazie, commento a: M. Bernardi, F. Cognetti e A. Delera, Di-stanza. La casa a Milano (LetteraVentidue, 2021)

F. Indovina, La città è un desiderio, commento a: G. Amendola, Desideri di città (Progedit, 2022)

A. Mazzette, La cura come principio regolatore, F. C. Nigrelli (a cura di), Come cambieranno le città e i territori dopo il Covid-19 (Quodlibet Studio, 2021)

P. Pileri, La sostenibilità tradita ancora, commento a: L. Casanova, Ombre sulla neve. Milano-Cortina 2026 (Altreconomia, 2022)

A. Muntoni, L'urbanistica, sociologia che si fa forma, commento a: V. Lupo, Marcello Vittorini, ingegnere urbanista (Gangemi, 2020)