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FRAGILI? APERTURE SUI TERRITORI PRODUTTIVI
Commento al libro curato da Fior, Kercuku, Mattioli e Pessina
Chiara Merlini
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Il volume Fragilità nei territori della produzione, curato da Marika Fior, Agim Kercuku, Cristiana Mattioli e Gloria Pessina per la collana Dastu del Politecnico di Milano (FrancoAngeli, 2022) nasce in uno specifico contesto di ricerca che vale la pena richiamare. Nel periodo 2018-2022 il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, risultato tra i cosiddetti dipartimenti di eccellenza destinatari di finanziamenti straordinari, ha aperto un importante fronte di riflessione sul tema delle “fragilità territoriali”. L’ambizioso obiettivo era attivare un’indagine che, tenendo conto degli intrecci tra dimensioni geografico-insediative, ambientali, socioeconomiche, mettesse a fuoco le crescenti e variegate criticità che caratterizzano molte aree del paese, con riguardo tanto ai processi che le hanno delineate, quanto alle politiche e alle linee di azione che potrebbero trattare i divari territoriali e le disuguaglianze sociali che vi si associano.
È in questo quadro più ampio che si colloca il contributo dei giovani ricercatori autori del volume, in vari modi impegnati su questi temi di ricerca, che restituiscono qui gli esiti di una prima occasione di discussione seminariale. La struttura del libro è molto semplice ed efficace. Ai testi prodotti internamente al gruppo, costruiti intorno ad alcune parole chiave e come restituzione critica di diverse situazioni territoriali, si accompagnano opportunamente alcune voci esterne: uno sfondo di più ampio respiro sulle dinamiche economiche attuali nel contesto europeo, affidato a Gianfranco Viesti, e una serie di interviste a interlocutori privilegiati che si interrogano su come sta cambiando il mondo del lavoro e delle imprese. Ne emerge un libretto agile che, in linea anche con la natura delle pubblicazioni promosse dal dipartimento, va inteso soprattutto come restituzione di una occasione di scambio e base da cui sviluppare ulteriori mosse di ricerca.
Due domande principali possono accompagnarne la lettura per cercare di mettere a fuoco l’obiettivo di fondo del libro. La prima si potrebbe esprimere in questi termini: cosa possiamo dire sugli spazi produttivi in più, e di diverso da ciò che già sappiamo, se li leggiamo con la chiave delle fragilità territoriali? E, simmetricamente, cosa ci insegnano i territori della produzione in relazione al tema delle fragilità? In che modo un’indagine sui territori produttivi ci aiuta a comprendere qualche aspetto riconducibile a quella complessa e composita condizione che siamo ormai soliti definire fragilità territoriale?
Si tratta di questioni che gli autori richiamano sin dall’incipit del volume, nella consapevolezza che il compito della ricerca sia anche trovare una specificità rispetto a una letteratura abbastanza ricca di contributi con diverse provenienze disciplinari, riconducibili a tradizioni di ricerca più datate ma anche a riflessioni recenti. Ormai diversi studi hanno via via evidenziato una complessità dei processi e delle implicazioni spaziali che mettono in discussione presunti principi di razionalità ed efficientismo che governerebbero il mondo della produzione. L’esigenza del libro è in fondo posizionarsi rispetto ad essi, rafforzando ipotesi di lettura in parte già praticate ma spingendosi un po’ oltre, nel momento in cui si delinea una nuova rappresentazione di sfondo, in cui i temi delle disuguaglianze e del divario territoriale assumono diverso spessore critico.
Per fare questo e delineare il proprio campo, il libro propone alcuni semplici passaggi. Anzitutto occorre prendere atto del fatto che i luoghi produttivi, in linea generale, hanno visto un progressivo slittamento da risorsa a problema. Se negli scorsi decenni hanno costituito dei luoghi forti, associati alle fasi di più intenso sviluppo del paese – e in questi termini sono a lungo stati rappresentati e raccontati – essi sono progressivamente diventati, con un rovesciamento singolare richiamato anche nella postfazione da Gabriele Pasqui, la sede di disuguaglianze, rischio, impoverimento, declino. Da qui la necessità di tratteggiare nuovi quadri interpretativi che non solo siano consapevoli di tale inversione, ma che siano capaci di declinare con finezza la rappresentazione di vecchie e nuove problematicità.
In secondo luogo, gli autori ci propongono un allargamento dello sguardo: per dire qualcosa sugli spazi produttivi e per far emergere qualche direzione di azione, è necessario intavolare un dialogo tra urbanistica, economia, lavoro, territorio, ambiente. Le voci raccolte con le interviste – Valentina Cappelletti di CGIL Lombardia, Emanuela Curtoni e Valeria Lupatini di Assolombarda – sono in tal senso preziose, perché provano a restituire le posizioni di chi opera sul campo, facendo emergere le domande e le strategie delle imprese e, insieme, le esigenze di chi lavora.
Infine, il libro propone in un certo senso una sospensione e inversione di prospettiva: se si vuole dire qualcosa di territori produttivi e fragilità territoriali, occorre setacciare il territorio italiano per cercare non solo di raccontare processi di progressiva fragilizzazione, ma anche per scovare qualcosa che si muove in una direzione positiva, che si possa indicare come possibile trattamento di condizioni di criticità. Le maglie della ricerca non possono allora che essere sufficientemente larghe, sia in riferimento alle situazioni da raccontare, sia per quanto concerne gli strumenti di volta in volta adottati per orientare e trattare il tema (piani, progetti, politiche, ecc.). Ne emerge un quadro molto variegato di territori, per intrecci peculiari di caratteri insediativi, economici, sociali e forme della produzione, ma in cui emerge forse come tratto comune una certa ambiguità e compresenza di tensioni diversamente orientate. Una rappresentazione che quindi non ricorre agli esempi che potrebbero essere più scontati per delineare le fragilità – aree interne, grandi periferie urbane, ambiti di schrinkage diffuso, zone più inquinate o delicate del paese, ecc. – e seleziona piuttosto territori in cui convivono fenomeni e spinte differenti: declino e degrado ma anche episodi di sperimentazione e qualità architettonica nei nuovi manufatti destinati al lavoro; criticità ambientali ma anche ricerche improntate alla sostenibilità; dismissione e abbandono ma anche sviluppo e nuova espansione, e così via. Nel libro troviamo così sia situazioni tradizionalmente critiche e in cui la fragilità è oramai radicata e consolidata, o in cui è evidente l’irrompere di processi di peggioramento di uno stato di cose, sia situazioni ed esperienze con luci e ombre, in contesti dinamici e forti, che ci fanno intravedere perturbazioni critiche e – insieme - eventuali segnali di reazione positiva.
Da Taranto a Bologna, da Porto Torres alle Langhe, dalla Valle del Tronto a Bolzano, dalla Val Trompia ai territori minerari: la fragilità ha evidentemente molte e diverse facce. La questione sottotraccia è in che modo usiamo questa categoria della “fragilità territoriale”, che indica certo qualcosa di nuovo nei fenomeni (crisi ambientale, dismissione, inquinamento, consumo di suolo, polarizzazione sociale, rischio, ecc.), ma anche nella nostra percezione e rappresentazione, se è vero che, ad esempio, abbiamo alle spalle alcuni decenni di studio dei fenomeni di dismissione ma è solo più di recente che li osserviamo con la lente della fragilità, che ne tratteggia forse differentemente le ragioni e i processi evolutivi.
Il libro, molto opportunamente, non prende di petto la questione, scegliendo una via un po’ laterale che aggiunge qualche elemento di riflessione tramite un breve “glossario essenziale”. Quattro coppie di parole che vogliono sollevare temi in un certo senso generalizzabili: rischio e prevenzione, frammentazione e collaborazione, abbandono e trasformazione, dipendenza e rottura. Si tratta per certi versi della parte più originale del libro – sia pure un po’ troppo contatta nella scrittura e poco appoggiata a un apparato di note e rimandi bibliografici che avrebbe giovato - perché è qui che si evidenziano tanto una varietà di fenomeni che interessano i luoghi del produrre (dal frazionamento di un capannone, alle domande di espansione da parte di imprese economicamente vitali, a nuovi patti pubblico/privato, ecc.), quanto delle direzioni di azione possibile. Il contributo di valenza generale offerto da questi racconti emerge in più passaggi: là dove, per esempio, ci si chiede cosa può fare la pianificazione, come possa trattare i temi del rischio nella consapevole assunzione delle condizioni di crescente incertezza e della dimensione del tempo come variabile essenziale. O anche, su un versante opposto, dove ci si chiede cosa possono fare le imprese, posto che lo spazio urbano può essere un campo di intervento importante per aziende sensibili e aggiornate, e che per far sì che gli effetti sul sistema insediativo siano davvero significativi è necessario esplorare in modi non riduttivi le relazioni tra pubblico e privato. Non accontentarsi quindi di interventi basati su qualche soluzione puntuale e su un tempo breve, su un rapporto immediato costi/benefici, o nella sola prospettiva del recupero di un po’ di risorse economiche, sollecitando al contrario azioni più complesse da parte di imprese che possono vedere nella qualità del territorio e degli spazi di lavoro una risorsa, alimentando capacità di visione e indirizzi di lungo periodo.
Entrando da un tema specifico – lo stato e il futuro dei territori produttivi – la questione in fondo si allarga a come cambiano, più in generale, i modi di fare urbanistica, anche in relazione alle riconfigurazioni tra ruoli e poteri. Molte riflessioni è probabile che possano ancora emergere in questa direzione di ricerca: come rileggere gli spazi produttivi tenendo conto di questa nuova categoria interpretativa, e come precisare i caratteri della crescente fragilità in tanti assetti territoriali del paese a partire da questa chiave specifica. Cosa ci insegnano i territori della produzione e le loro variegate criticità rimane una questione cruciale, da usare per perimetrare un campo facendo forse attenzione a trovare un saggio equilibrio tra estensione e filtro della categoria utilizzata: né troppo lasca perché se tutto diventa territorio fragile forse la fertilità interpretativa si riduce, né troppo stretta per non presupporre quello che in fondo si vuole trovare.
Una seconda domanda con cui leggere il libro può essere espressa in questi termini: quando ci occupiamo di territori produttivi, di quali oggetti e tipi di spazi ci occupiamo, e quali sono i modi migliori per indagarli? O in altre parole: come le attività produttive, nella loro varietà e specificità, calano concretamente nei luoghi e come li caratterizzano? Che tipo di città e di territorio contribuiscono a definire?
Certamente, a fronte dei profondi mutamenti del lavoro come attività umana a cui assistiamo, si riscontrano sovente modificazioni sostanziali dei luoghi in cui esso si svolge, e già questo dovrebbe spingere a non perdere mai di vista le condizioni materiali e spaziali del lavoro. Le forme della produzione ce ne presentano un campionario estremamente variegato, fatto di inerzie e innovazioni, che pongono al progetto e all’azione pubblica nuove questioni, in ordine sia all’adeguamento e trasformazione di manufatti, spazi e infrastrutture già esistenti sovente insoddisfacenti e inadeguati sul piano della abitabilità e qualità urbanistica, sia al contributo che forme innovative della produzione possono dare nel generare una diversa città, con nuovi spazi e nuovi significati e sistemi di valori.
Che tipo di spazio di vita quotidiana si profila oggi nei territori produttivi divenuti fragili, come impatta sulle esigenze più normali e ricorrenti di chi lo pratica? Nel libro non mancano spunti su questa dimensione spaziale e sulle eventuali risposte che il progetto (o una qualche forma di azione) può fornire. Tuttavia, la riflessione sembra soffermarsi soprattutto su luoghi speciali, eccezionali, emergenti - vuoi per criticità, per segnali di dinamismo, per intenzionalità rappresentative sottese da parte delle imprese, ecc. - più che sugli spazi ordinari, più normali e correnti, che acquistano viceversa una rilevanza cruciale quando si parla di questo tema.
I casi sono singolari: dalle Langhe al kilometro verde di Parma; da un magazzino Amazon in mezzo alle risaie alla produzione di auto elettriche a Reggio Emilia; da una azienda ceramica di successo a Sassuolo al petrolchimico di Porto Torres. E così anche sul fronte della ricerca architettonica: la fabbrica giardino di Prada in Toscana, l’intreccio tra tecnologia e welfare nella Salewa a Bolzano, le forme suggerite dalla logistica e dall’automazione in un magazzino automatizzato in Brianza. La selezione di queste situazioni solleva un punto di qualche rilievo, soprattutto perché quando pensiamo alla fragilità territoriale nei termini, ad esempio, di criticità ambientale, è a una condizione pervasiva e diffusa di poca qualità che facciamo forse maggiormente riferimento. Interrogare il territorio con la chiave della fragilità, detto diversamente, può portarci a isolare qualche storia individuale certamente interessante, paradigmatica per criticità o eventualmente virtuosa, ma deve forse con altrettanta – se non maggiore – intensità spingere a una lettura che trascenda poche storie singolari per riconoscere una condizione problematica diffusa, fatta di eccessivo consumo di suolo, frammentazione degli spazi aperti, inquinamento dell’aria dell’acqua e dei suoli, introversione e specializzazione dei lotti, incoerenza tra le infrastrutture e la diposizione dei manufatti, parziale sottoutilizzo, urbanizzazioni complessivamente inefficienti, mediocrità architettonica e così via.
Le aree della produzione industriale – zone industriali grandi e piccole, in parti diversissime del paese, ma non solo – comportano sovente un deficit di qualità urbana e ambientale che si rileva proprio nelle cose che incontriamo quotidianamente, come ostacoli che incrementano la fatica e le difficoltà del vivere. È anche a questi ambienti e spazi “normali” che dobbiamo forse guardare, in quanto indicatori di un processo di peggioramento o impoverimento rispetto a uno stato di cose precedenti, di una inerzia e incapacità di adattarsi, reagire e rispondere a un cambiamento in senso positivo; in una parola segnali di fragilità.
Riguardo al futuro dei territori produttivi il progetto urbanistico si può naturalmente flettere in moltissimi diversi temi, modalità di azione e scale di intervento, ma vi è probabilmente un compito trasversale a diverse situazioni, che attiene la necessità di considerare anche gli spazi della produzione come parti di città da abitare, ripensando le relazioni tra luoghi del lavoro (in generale: quelli della produzione tra gli altri dunque) e territorio entro forme di maggiore urbanità. La scala dell’indagine dovrà in tal senso farsi probabilmente più minuta e più attenta agli abitanti di questi territori produttivi fragili, alle loro esigenze, ai ritmi di vita, alle loro provenienze. Solo così i temi del maggiore confort ambientale e termico dei luoghi, l’attenzione agli spazi di contatto tra interno ed esterno, il riciclo dei suoli e la de-pavimentazione, l’uso delle coperture dei capannoni in senso energetico, e molte altre azioni ancora, potranno declinare con concretezza gli usuali richiami a trattamenti green ed ecosostenibili.
Lo scollamento tra architettura della fabbrica e edilizia industriale non è certamente cosa nuova, e tanto i processi di fragilizzazione quanto i nuovi investimenti possono essere trasversali a luoghi simbolicamente rilevanti come a quelli più anonimi. Tuttavia, se da un lato può essere interessante riflettere su come cambia l’architettura della fabbrica là dove diventa oggetto esibito, edificio insegna, o luogo depurato e asettico improntato a nuovi principi di protezione, sicurezza, pulizia, non va dimenticato che probabilmente il luogo della fabbrica continuerà in moltissimi casi a essere assai meno amichevole. Riconoscere qualche esempio improntato a una sorta di umanizzazione non deve cioè farci dimenticare quanto sia ancora un luogo di impatto sui corpi: rumori, odori, temperature, fatiche che molte delle nostre rappresentazioni non possono catturare. Oltre le immagini un po’ patinate ed estetizzanti che spesso accompagnano le riflessioni sui luoghi produttivi – macchinari e capannoni paradossalmente fotogenici, accompagnati da ritratti di persone rese neutre dalla staticità e ostensività della posa – rimangono situazioni da indagare a fondo nella loro dimensione spaziale e negli impatti che esercitano su chi li abita. Mettere un po’ più a fuoco la fisicità tanto degli spazi quanto di chi li usa: nel proseguire le varie piste di ricerca che il libro propone questo potrebbe forse essere uno spunto da sviluppare. O ancora, su un diverso versante, potrebbe essere interessante anche riservare qualche attenzione a chi progetta e realizza oggi capannoni, magazzini, fabbriche, facendo prevalere forme sperimentate e collaudate rispetto alle norme o piuttosto adattando domande a fronte di un lavoro che cambia mettendo in discussione tradizionali separazioni tra produzione materiale e intellettuale, commercializzazione, servizi, ecc.. Imparando così anche da probabili inerzie e resistenze che arrivano da più fronti: progettisti, operatori, imprese edili da una parte, aziende non ancora particolarmente sensibili ai temi ambientali e della qualità urbana, o costrette dalla loro stessa fragilità a non potersi permettere di dare rilievo a queste dimensioni dall’altra.
Il libro vuole essere di apertura e il Dastu, confermandosi dipartimento di eccellenza per un nuovo periodo, potrà opportunamente proseguire nell’esplorazione. In linea generale considerare gli spazi più ordinari e i loro abitanti, inserirli dentro processi globali e indagini ravvicinate, potrebbe alimentare ancor più la consapevolezza delle relazioni tra produzione, crisi ecologica e ambientale, fragilità territoriali, salute, e della loro centralità per il futuro della pianificazione territoriale e delle politiche urbane. Spingendo in questo modo anche a chiedersi se e come il mutare delle forme della produzione possa eventualmente contribuire a generare città e territori diversi da quelli che conosciamo e pratichiamo oggi.
Chiara Merlini
N.d.C. – Chiara Merlini è professore associato di Urbanistica al Politecnico di Milano. Si è formata presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia e dal 1995 al 2006 ha insegnato presso la Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno (Università degli Studi di Camerino). Tra i principali temi di ricerca: la formazione e i caratteri della disciplina urbanistica in una prospettiva storico critica; le forme e le trasformazioni della città e dei territori contemporanei, con particolare riguardo alle forme degli insediamenti dispersi, sia nelle fasi generative sia nelle loro evoluzioni più recenti; la qualità dello spazio urbano ordinario nelle sue dimensioni costitutive e nelle relazioni con specificità, qualità e limiti del progetto urbanistico.
Svolge attività di consulenza nel campo della progettazione urbana ed è autore di saggi su riviste nazionali e internazionali (Urbanistica, Archivio di Studi Urbani e Regionali, Territorio, City, Territory and Architecture, Journal of Urbanism, Les Cahiers de la Recherche Architecturale, urbaine et Paysagère).
Tra i suoi libri: con Bernardo Secchi (a cura di), Un progetto per Siena. Il concorso internazionale per piazza Matteotti-la Lizza, (Electa 1992); Cose/viste. Letture di territori (Maggioli, 2009); con Arturo Lanzani e Federico Zanfi (a cura di), Riciclare distretti industriali. Insediamenti, infrastrutture e paesaggi a Sassuolo (Aracne, 2016); con Patrizia Gabellini, Paola Savoldi e Federico Zanfi, Urbanistica per una città media. Esperienze a Modena, (FrancoAngeli, 2023).
Per Città Bene Comune ha scritto: L’insegnamento di un controesempio (14 settembre 2023).
Sui libri di Chiara Merlini, v.: Francesco Gastaldi, Urbanistica per i distretti in crisi (15 giugno 2017).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 15 DICEMBRE 2023 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
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cittabenecomune@casadellacultura.it
iniziativa sostenuta da:
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2018: Cesare de Seta locandina/presentazione sintesi video/testo integrale
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Gli autoritratti
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