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CITTÀ: FARE LE COSE ASSIEME
Commento al libro di Bertram Niessen
Gabriele Pasqui
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Come possiamo mettere al lavoro il volume di Bertram Niessen Abitare il vortice. Come le città hanno perduto il senso e come fare per ritrovarlo (Utet, 2023)? Che uso possiamo farne in questa fase di discussione, forse un po’ logora, sul destino delle città, anche a valle dell’evento pandemico che è il punto di partenza del libro?
Prima di provare a rispondere a questa domanda vorrei richiamare brevemente la struttura del volume e l’intenzione esplicita che lo anima.
Il libro è diviso in tre sezioni (“La città degli specchi”, “La città delle crepe” e “La città dei vortici”) che costituiscono chiavi di ingresso complementari per leggere, in una chiave critica, alcune dimensioni essenziali dell’urbano contemporaneo, con riferimento alle città occidentali. La prima sezione ricostruisce alcuni tratti del mutamento, economico, sociale e politico, ma anche antropologico e simbolico, della città contemporanea, riattraversando in modo molto interessante alcuni dei concetti mobilitati di recente per leggere lo spaesamento, ma anche la potenza, dell’urbano: rigenerazione, finanziarizzazione, competizione, attrattività. La seconda sezione, che muove i suoi passi dal profondo senso di angoscia trasmesso dalle città svuotate dal Covid, affronta da angolature diverse il nodo della crescita delle disuguaglianze (delle “crepe”), materiali e sociali, che attraversano in modo sempre più pervasivo i corpi e i luoghi, e che ci restituiscono l’urgenza di un’azione politica di governo dell’urbano che appare oggi sempre più inerte e impotente, ma anche di una mobilitazione e attivazione sociale che può rappresentare un’occasione importante di cambiamento. Proprio questa occasione è posta al centro della terza sezione del libro, che prova a riconoscere le forze nascoste che animano le città e possono ambire a costruire inedite alleanze per una buona vita.
Queste tre chiavi, è bene sottolinearlo, sono scelte anche in ragione della peculiare biografia dell’Autore, che è insieme ricercatore e animatore di reti e progetti culturali e che è in grado di mobilitare efficacemente, utilizzando un linguaggio spesso accattivante, sia i prodotti più interessanti della ricerca nel campo degli studi urbani, della sociologia e della geografia critica, degli studi politici e dell’urbanistica, sia una molteplicità di voci e di esperienze che Bertram Niessen conosce bene e che potremmo ascrivere al campo, variegato, delle arti, ma anche delle culture e delle pratiche urbane di city making.
Intenzioni
Struttura, stile espositivo e materiali si incarnano in un testo che esibisce chiaramente le sue intenzioni fin dall’introduzione. L’Autore infatti dichiara di aver scritto il libro per tre motivi. Il primo è l’alimentazione di un dibattito diffuso e informato sulle città, che possa contribuire ad alimentare il pensiero critico mobilitando prospettive e punti di vista spesso poco comunicanti. Il secondo motivo è la spinta che la pandemia ha offerto ad una riflessione che rimetta al centro della critica del presente la vita quotidiana, il rapporto tra corpi e spazi urbani, la crescente difficoltà a costruire “senso in comune”. Infine, la terza motivazione è connessa proprio all’ingiunzione a far pratica di nuovi legami di senso, facendo emergere risorse, luoghi e occasioni che la città mette a disposizione e che tuttavia appaiono largamente sottoutilizzate in relazione alle loro potenzialità inespresse.
Per tutte queste ragioni, si tratta anche di un libro politico, se assegniamo alla politica il ruolo di costruzione non solo delle regole di convivenza, ma anche del senso in comune entro lo spazio collettivo della città.
Quattro buoni usi
Personalmente credo che questa prospettiva e queste intenzioni permettano di utilizzare il libro di Bertram Niessen in almeno quattro modi che considero molto fertili, e che attengono in vario modo a quella che potremmo chiamare “strategia dello sguardo”.
Il primo uso è quello di attivare una postura centrata sull’osservazione rigorosa ma anche paziente della città “a distanza ravvicinata”, a partire da se stessi e con l’occhio rivolto alle pratiche ordinarie della vita quotidiana. Questo atteggiamento mi sembra quanto mai necessario in una fase di ritorno di approcci scientistici e oggettivisti ai problemi urbani che, anche attraverso la disponibilità di una messe incredibile e spesso incontrollabile di dati, allontanano il ricercatore e l’osservatore da quella che Albert Hirschman chiamava “reverence for life”. L’approccio di Abitare il vortice, incarnato nelle esperienze concrete e nella specifica “strozzatura” della vita dell’Autore, mi sembra dunque utile per esorcizzare il rischio di letture analitiche che non sono in grado di cogliere la vita (urbana) nelle sue molteplici intramature e nel vortice delle specifiche prassi viventi. Con un fondamentale addendum: questo sguardo in soggettiva, da parte di Bertam Niessen, è sempre consapevole. Osservare la vita urbana nella parzialità del nostro sguardo: ecco quanto il libro ci aiuta a fare.
Il secondo uso è ancora una volta, in un certo senso, “metodologico”. Il libro prova ad assumere una prospettiva critica mobilitando contemporaneamente una molteplicità di punti di vista, pur senza rinunciare ad esibire opinioni e valori forti. Questa capacità di sguardo critico, ma non ideologico e manicheo, permette di riconoscere nell’urbano il luogo della varietà (di attori, culture, forme simboliche e forme di vita), in cui una molteplicità di soggetti, dotati di diverse risorse e limitati nelle loro possibilità da strutture di sapere e di potere, interagiscono tuttavia fittamente tra loro, cooperando e confliggendo. Il riconoscimento non ideologico della varietà non implica dunque affatto la dismissione di un punto di vista critico: anzi, lo alimenta e lo abilita.
Il terzo buon uso del volume ha a che vedere con il suggerimento, che a mio avviso attraversa da capo a piedi il libro, di lavorare sulle rappresentazioni e sui linguaggi che i diversi attori (ivi compresi gli abitanti) depositano sulla città, ma anche su un insieme di condizioni materiali e strutturali che hanno a che vedere con giganteschi processi economici e politici. Per comprendere gli effetti di fenomeni complessi come la gentrificazione o la finanziarizzazione del mercato urbano, per fare solo due esempi, è necessario tenere insieme uno sguardo di prossimità, capace di cogliere effetti e impatti nella vita ordinaria e quotidiana di individui, imprese, famiglie, gruppi sociali e comunità insediate, ma anche una lettura analitica e strutturale, che consente di cogliere interferenze e interrelazioni tra i diversi fenomeni in gioco. Insomma, per dirla con una battura, non ci sono solo narrazioni.
Un ultimo uso che il libro mi suggerisce è l’assunzione di un atteggiamento rispettoso, ma anche libero, nei confronti dei saperi costituiti e dei disciplinamenti accademici, che a loro volta costruiscono immagini e immaginari rilevanti. Rispettoso nei confronti delle loro specificità metodiche e delle loro forme tecniche, ma anche libero nella loro contaminazione, che permette all’Autore, e potrebbe permettere anche a noi, un atteggiamento, che ancora una volta richiama il magistero di Hirschman, di trespassing o anche di transdisciplinarietà. La ricchezza di uno sguardo transdisciplinare sull’urbano non è riducibile all’invocazione di molti di sapere che possano dar conto della complessità della città: si tratta piuttosto di partire dai problemi urbani per “bucare” le discipline, attraverso un uso attento ma anche strettamente connesso alle sfide di cui vogliamo farci carico.
Un nodo critico: tra spazio e società
I buoni usi di Abitare il vortice che ho appena proposto possono essere a mio avviso annodati intorno a quello che io ritengo il nodo essenziale del libro: come cambiano le città, le persone e le specie non umane che le abitano, di fronte a fenomeni epocali (il cambiamento climatico e la crescente ingiustizia sociale e spaziale, le dinamiche demografiche e le forme di mobilità delle popolazioni urbane nelle loro reciproche connessioni) che sembrano per larga parte al di fuori del nostro controllo e che vengono spesso trattati dai saperi scientifici e tecnologici, ma anche dalla politica, in una chiave di radicale depoliticizzazione che si tratta, per me come per l’Autore, di sospettare, decostruire e respingere? Ed in che modo questo cambiamento può essere governato attraverso quella che Niessen chiama “cultura collaborativa”?
Anche passando attraverso le analisi proposte in questo libro, a me sembra che si tratti innanzitutto di comprendere meglio le dinamiche delle economie urbane. Dove si produce valore nelle città? In che modo le economie della rendita, i processi spontanei di rigenerazione che aumentano spaventosamente i valori immobiliari ed espellono individui e gruppi sociali, le logiche predatorie del turismo, ma anche delle economie di piattaforma, modificano a fondo il modello di capitalismo urbano? E quanto questi mutamenti impattano sulla vita quotidiana delle donne e degli uomini?
Nella sua parte analitica, Abitare il vortice ci aiuta a costruire rappresentazioni e immaginari che decostruiscono alcune retoriche urbane, come quelle dell’attrattività dei talenti e della competizione tra città, che hanno inquinato la discussione pubblica e offuscato gli effetti perversi di alcune dinamiche che hanno caratterizzato molte città europee, anche di successo: la polarizzazione sociale e spaziale, la divaricazione tra le forme di terziarizzazione alta e bassa e gli effetti che essa ha generato sulla precarizzazione del lavoro, gli effetti irreversibili dal punto di vista ambientale e più radicalmente ecologico dell’affermarsi di modelli di sviluppo urbano a forte trazione finanziaria. A fronte di questi processi, si tratta forse di chiedersi quale economia urbana può sorreggere le città in una chiave che sia in grado di generare valore e non di riprodurre rendita; di immaginare una transizione ecologica che produca anche nuovi e buoni lavori; di spingere a una forte redistribuzione del reddito e delle risorse, ma anche di ricostruire condizioni del vivere insieme nelle diversità.
In questa prospettiva la pars construens del testo di Bertam Niessen, che contro le quattro crisi urbane del muoversi, dell’abitare, dell’incontrarsi e del produrre senso condiviso invoca una domanda (una voglia) di comunità e la cura (tra soggetti) come modo di vivere la città che ci aiuta a costruire nuovi glossari del collettivo, mi sembra importante ma non sufficiente. Per poter “fare le cose assieme” promuovendo una cultura collaborativa e diffusa è necessario a mio avviso alimentare insieme l’intelligenza della società e quella delle istituzioni. Queste ultime, da una parte devono apparecchiare condizioni abilitanti per l’innovazione sociale, ma anche, dall’altra, tornare a produrre cittadinanza estesa, a garantire diritti universali, a contemperare la varietà delle forme di vita e la necessità di regole condivise.
Come Bertram Niessen riconosce, i fenomeni perversi che hanno investito sia le città di maggior successo, sia quelle più in crisi, sono state accompagnate da un progressivo discredito delle istituzioni, da un impoverimento della capacitazione e delle risorse, finanziarie ma anche cognitive, degli attori pubblici, e da una spaventosa debolezza dei processi e dei dispositivi della democrazia locale. Anche sul terreno d’elezione dell’Autore, quello della cultura come veicolo straordinario di innovazione guidata dalla società, di rigenerazione non espulsiva e di sperimentazione di nuove forme del “fare in comune”, la debolezza delle istituzioni comporta fenomeni di incapacitazione e il rischio che il terreno dell’innovazione sociale finisca per essere residuale e per alimentare una ulteriore radicalizzazione del dualismo sociale e culturale tra la città dei ricchi e la città dei poveri, rendendo inagibile un’alleanza tra principi di inclusione e pratiche di innovazione.
Per scongiurare questo rischio si tratta a mio avviso di ripoliticizzare le pratiche di innovazione sociale, che possono avere un ruolo centrale anche nella cura e nel rafforzamento delle istituzioni, in una prospettiva che, in linea con quanto anche Abitare il vortice ci aiuta a fare, costruisca le condizioni di una nuova politica della e nella città. Una politica fortemente radicata nella vita quotidiana, attenta agli effetti delle azioni sui corpi e sugli immaginari, capace di spostare risorse e occasioni verso le fasce più deboli e potenzialmente escluse delle popolazioni urbane. Una politica dell’intrapresa e non della rendita, attenta non solo a garantire, ma anche a reinventare nuove forme di cittadinanza e nuove pratiche di democrazia. Una politica insomma, per dirla con Bertram Niessen, che proponga “linee di sviluppo – politiche, sociali e culturali – per costruire nuovi legami di senso nella città degli anni a venire”.
Gabriele Pasqui
N.d.C. - Gabriele Pasqui, professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica al Politecnico di Milano, ha diretto il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani dal 2013 al 2019 ed è stato responsabile scientifico di un progetto di ricerca sulle Fragilità territoriali selezionato dal Miur nell’ambito dell’iniziativa “Dipartimenti di Eccellenza”. Tra i suoi libri: Il territorio delle politiche (F. Angeli, 2001); Confini milanesi (F. Angeli, 2002); Progetto, governo, società (F. Angeli, 2005); Territori: progettare lo sviluppo (Carocci, 2005); Città, popolazioni, politiche (Jaca Book, 2008); con P. C. Palermo, Ripensando sviluppo e governo del territorio (Maggioli, 2008); con A. Lanzani, L'Italia al futuro (FrancoAngeli, 2011); con A. Balducci e V. Fedeli, Strategic Planning for Contemporary Urban Regions (Ashgate, 2011; Routledge, 2016); Urbanistica oggi (Donzelli, 2017); La città, i saperi, le pratiche (Donzelli, 2018); con C. Sini, Perché gli alberi non rispondono. Lo spazio urbano e i destini dell'abitare (Jaca Book, 2020); con L. Montedoro, Università e cultura. Una scissione inevitabile? (Maggioli, 2020); Coping with the Pandemic in Fragile Cities (Springer, 2022). Per Città Bene Comune ha scritto: Pensare e fare urbanistica, oggi (26 febbraio 2016); Come parlare di urbanistica oggi (8 giugno 2017); I confini: pratiche quotidiane e cittadinanza (11 gennaio 2019); Più Stato o più città fai-da-te? (21 febbraio 2020); La storia tra critica al presente e progetto (23 ottobre 2020); La ricerca è l’uso che se ne fa (28 maggio 2021); Case pubbliche: una questione aperta (16 settembre 2022).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 11 GENNAIO 2024 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
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cittabenecomune@casadellacultura.it
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