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IL TEMPO FA L'ARCHITETTURA
Commento al libro di Angelo Torricelli
Michele Caja
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Uscito nella collana "Architectural Design and History" promossa dal Polo di Mantova del Politecnico di Milano su un’idea di Federico Bucci, il libro di Angelo Torricelli – Il momento presente del passato. Scritti e progetti di architettura (FrancoAngeli, 2022) – indaga il rapporto tra architettura, città e storia attraverso una selezione di scritti e progetti, scelti soprattutto in base al ruolo svolto dalla memoria nel processo ideativo di un progetto.
Introdotto dal saggio di Giuseppe Di Benedetto – che ben inquadra il principio dell’antico come tema di nuova architettura nel pensiero e nell’opera di Torricelli – il libro raccoglie i saggi da lui scritti tra il 1990 e il 2021, con particolare riferimento alla relazione che il progetto instaura con la città antica, alla luce del lungo dibattito che l’ha accompagnato nel corso del tempo. Il tempo e il suo scorrere inesorabile – come ben l’ha descritto Marguerite Yourcenar, autrice che ricorre spesso nei saggi qui raccolti – è protagonista indiscusso di un’idea di architettura che si definisce chiaramente nella sua autonomia rispetto alle apparentate discipline del restauro, dell’archeologia e della storia. Se da queste discipline l’approccio di Torricelli riprende in parte la metodologia e gli strumenti per potere procedere all’interno di contesti stratificati – per decodificare i quali analizza e mette a confronto le differenti interpretazioni storiche e critiche che di esso ne sono state date – in realtà se ne discosta consapevolmente nella logica di un atto costruttivo necessario, che comporta un’inevitabile trasformazione attraverso il progetto.
Sulla base di una rilettura comparativa di approcci disciplinari diversi, Torricelli ricostruisce una sua propria idea di città che mette in pratica all’interno delle proposte progettuali come una sorta di riscrittura in termini derridiani. Non è un caso che all’inizio del suo testo centrale sul rapporto tra archeologia e progetto urbano egli citi Tafuri quando a proposito dell’analisi urbana scriveva di un lavoro allo stesso tempo decostruttivo e ricostruttivo. Esemplare in questo senso l’attenzione che Torricelli pone sul processo fondativo di Milano romana secondo le diverse interpretazioni che ne sono state date, in particolare riconducibili a due approcci differenti: quello archeologico di Mirabella Roberti, tradotto in un sistema di griglie rintracciabili nell’orientamento dei primi due nuclei insediativi; quello morfologico di Caniggia, la cui analisi di tipo muratoriano indaga il tessuto degli isolati in rapporto alla struttura della città attuale. Bisogna invece tornare alle analisi e ai progetti di Giuseppe de Finetti per ritrovare un filo di continuità con questa prima matrice formale urbana di Milano.
Se la condizione del contesto è spesso quella urbana, con l’obbiettivo di svelarne le differenti idee di città ad esso sotteso, il punto di partenza dei progetti è sempre strettamente architettonico. Non a caso ad aprire la seconda sezione dei progetti vi è una serie di interventi a piccola scala svolti per una committenza pubblica e privata che dimostrano la predisposizione dell’autore per la ricerca di una sintonia tra contesto storico-ambientale e progetto. Memore della lezione schinkeliana – uno dei maestri di riferimento che l’autore condivide con Francesco Collotti, qui invitato a scrivere un saggio conclusivo sul processo compositivo riscontrabile all’interno del suo operare – questi progetti riescono a declinare il delicato rapporto tra progetto e preesistenze ambientali nell’accezione datane da Rogers, altro termine di riferimento costante e spesso citato negli scritti. Così i nuovi interventi adottano un linguaggio architettonico e costruttivo in grado di radicarsi alla geografia dei luoghi in cui si pongono – che siano i territori lombardi, liguri o piemontesi – divenendo espressione di quel genius loci teorizzato da Norberg Schulz e oggi ancora attuale.
Il rapporto tra memoria dell’antico – come magistralmente indagata da Salvatore Settis – e progetto emerge soprattutto in quelle esperienze nate all’interno della lunga esperienza accademica dell’autore, elaborate in differenti occasioni come ricerche universitarie e concorsi nazionali e internazionali. In queste esperienze, che spesso hanno dato vita a vere e proprie pubblicazioni autonome, si traduce in maniera chiara e coerente un ragionamento sull’architettura e la città che ritrova i suoi fondamenti all’interno di quegli scritti sopra menzionati che affrontano il tema a diverse scale. Dove la città è sempre considerata come il risultato di un lungo e non sempre lineare processo di stratificazione storica, riflesso di contrastanti idee di città che solo in parte hanno avuto modo di realizzarsi, per lo più restando alla dimensione del frammento. Rispetto alla quale non c’è qui una romantica esaltazione della rovina in quanto tale, né tanto meno una acritica esaltazione della collisione come condizione della città contemporanea – alla maniera della città collage di Colin Rowe. Piuttosto nasce progressivamente – a partire da una profonda rielaborazione dei riferimenti bibliografici, iconografici, documentali che ci sono pervenuti e hanno accompagnato il lungo dibattito tra architetti e urbanisti, archeologi e restauratori – una consapevolezza dell’intervento architettonico come inevitabile atto di trasformazione. Perché non basta – e qui emerge la distanza dell’architetto dalle posizioni prettamente archeologiche – svelare i diversi layer che compongono lo stratificato sedime delle città in cui viviamo: non solo Milano, ma anche casi minori, ma di grande interesse archeologico, come Aosta, Barletta, Bacoli o Tindari. Per Torricelli risulta necessario apportare un atto chiarificatore nei confronti delle conoscenze di un luogo attraverso cui svelare e portare alla luce dal sottosuolo la sua complessità storica e le sue origini insediative.
Esemplare in questo senso la serie di progetti elaboratori per aree strategiche della Milano romana, che qui insieme vengono raccontate a ricostruire per frammenti la memoria collettiva di una precisa idea di città, oggi praticamente scomparsa. L’idea di Milano che Torricelli enuncia e chiarisce progressivamente attraverso i suoi scritti – sempre frutto di analisi critiche sulle fonti e mai prodotto di astratte teorizzazioni prive di fondamento – ed elabora attraverso i suoi progetti – spesso realizzati insieme a collaboratori ed allievi che oggi sono divenuti prosecutori di questa linea di ricerca all’interno dell’Università – parte da una dichiarata volontà sovversiva nei confronti della città contemporanea, come si è costruita senza il minimo rispetto alle preesistenti città, in particolare quella romana. Ribaltando la logica della tabula rasa del Moderno, l’idea di città che Torricelli persegue si fonda sulla consapevolezza della sua stratificazione storica, contraddistinta da processi di permanenza e cancellazione, continuità e discontinuità. Rispetto ai quali la città com’è viene messa in dubbio dal confronto con la città com’era stata ideata e messa in parte in pratica precedentemente. Gli interventi quasi chirurgici in alcune aree strategiche della Milano romana e paleocristiana evidenziano in maniera palese le operazioni di cancellazione dell’impianto storico preesistente. L’area tra Piazza Missori e via Torino – risultato oggi di quel piano della Racchetta per fortuna rimasto incompiuto – meglio di altre evidenzia il contrasto e l’aporia che emerge tra la città contemporanea e le tracce rimaste oggi in forma di frammento. Dove la volontà di portare alla luce queste tracce attraverso operazioni di scavo – in cui la sezione diviene lo strumento più adeguato a rappresentare tale condizione – mette in dubbio, quasi smaterializzandone la consistenza fisica, la legittimità di esistenza degli edifici realizzati sovrapponendosi nel corso del tempo, in particolare negli interventi della ricostruzione postbellica. Senza forse essere nell’intento dichiarato dall’autore, ecco allora che proprio alcune architetture milanesi – oggi altrimenti celebrate dalla critica storiografica alla ricerca di una milanesità che sembra ridursi alla prospettiva temporale degli ultimi decenni, la cui fortuna si deve anche ad una ben concertata propaganda promossa a scala internazionale – vengono messe in dubbio a partire dalle loro fondamenta.
Così come Victor Hugo indagava i sottosuoli di Parigi scoprendo in questi un’altra città, così Torricelli ci apre la prospettiva su una dimensione per lo più invisibile di Milano. Al di là di una visione miope come quella attuale, la memoria della lunga storia della nostra città viene esperita in concreto all’interno delle singole proposte, che siano legate a resti archeologici evidenti – come l’area di via Brisa con i resti del Palazzo Imperiale o quella di via Arena con quelli dell’Anfiteatro – o si mostrino come vere a proprie ricostruzioni, per quanto in forma di frammento, come la proposta per una porzione del circo romano in grado di fare rinascere la sua sezione.
Laddove la dimensione sotterranea riconduce ad altri casi esemplari, in primis quello magistrale di Villa Adriana. La lezione che da questo esempio possiamo ancora trarne è secondo Torricelli – al di là delle secolari interpretazioni e ricostruzioni datene da storici, architetti, archeologi e restauratori – rintracciabile nelle parole che la Yourcenar – oltre alle celebri memorie di Adriano – ha dedicato alla mente nera di Piranesi, che non a caso ci ha lasciato una delle ricostruzioni più evocative del sito archeologico, evidenziando la sua dimensione ctonia, a cavallo tra natura e architettura, geologia e cultura. Non è infatti esemplare solo in quanto luogo della memoria – secondo l’idea nota dell’imperatore Adriano di riproporre i modelli da lui più amati dell’antichità visitati durante i suoi innumerevoli viaggi, secondo un principio compositivo che sembra anticipare le tecniche del montaggio delle avanguardie storiche e della città analoga di esperienze contemporanee – non a caso la villa è un modello particolarmente amato da un architetto come Ungers, che ha scritto e progettato su temi inerenti la memoria collettiva; ma la sua esemplarità e attualità si evidenzia proprio nella sua costruzione nel corso del tempo attraverso una vera e propria operazione di scavo all’interno della struttura geomorfologica così particolare che contraddistingue quel luogo.
È sempre grazie alla Yourcenar che il libro migra in altri paesi e città, secondo la dimensione dell’infinito viaggiare, come ben raccontata da Claudio Magris. Attraverso la descrizione dell’opera di Kavafis, la scrittrice belga ci porta ad Alessandria d’Egitto, baricentro di quell’idea di Mediterraneo, che è un tema centrale che costantemente ritorna attraverso i riferimenti letterari e storiografici – tra cui Braudel e Matvejević – degli scritti e dei progetti di Torricelli. Se la città di Atene viene riletta in continuità con l’esempio dato da architetti come Pikionis – nei suoi interventi di risalita all’Acropoli – o negli schizzi di viaggio di Le Corbusier e Louis Kahn, che sembrano rivivere in quelli qui presentati dell’autore, quella di Alessandria ritrova la sua anima soprattutto nelle opere di grandi scrittori e poeti – da Brodskij a Ungaretti sino a Durrell. Ma è soprattutto nei versi alessandrini di Kavafis che Torricelli ritrova un legame con la sua, la nostra città, da cui era partito nel suo lungo viaggio. In particolare, con quello spirito ellenistico che un altro grande scrittore e interprete di città come Savinio aveva saputo ritrovare ascoltando il cuore di Milano. Con questo il circolo magico si chiude e ritrova una relazione tra città distanti nel tempo e nei luoghi, ma accomunate dalla medesima condivisione delle loro origini linguistiche.
Se l’architettura, come la scultura secondo Arturo Martini, è una lingua morta – come preconizzato da un altro architetto milanese oggi pressoché dimenticato – allora è proprio in questa che si può ritrovare un possibile bene comune. La comunanza di tali origini può oggi forse ancora ritrovarsi – grazie anche a questo libro – in quella lingua antica, che è sopravvissuta fino a noi nonostante tutti i soprusi, le cancellazioni e dimenticanze subite nel corso del tempo.
Michele Caja
N.d.C. – Michele Caja è professore associato in Composizione Architettonica e Urbana al Politecnico di Milano. Dopo il dottorato in Composizione Architettonica presso lo IUAV di Venezia (2005), ha svolto attività didattica anche all’ETH Zürich, alla Facoltà “Aldo Rossi” di Cesena e al FHP Potsdam. Ha collaborato con diversi studi di architettura in Italia e all’estero, tra cui a Dortmund (J. P. Kleihues, 1990), Vienna e Milano (G. Grassi, 1994-96). Dal 1993 svolge la libera professione a Milano. Il suo ambito di ricerca si incentra sul rapporto tra teoria e progetto contemporaneo, riferito in particolare all’ambito italiano e tedesco. È autore e curatore di diverse pubblicazioni e ha organizzato convegni e mostre, tra cui: Heinrich Tessenow. La ricchezza della semplicità (Parma/Milano, 2005); New Realism and Architecture of the City (Torino/Napoli, 2012); Mies van der Rohe. Un'idea di città (Milano, 2019/Porto, 2020). Ha partecipato a diversi concorsi di architettura nazionali e internazionali, tra i quali: IX MIBA – International Biennale of Architecure Cracow, NowaHuta (Krakow, 2003); Humboldt Forum Berlin – Progetto per la ricostruzione del Castello di Berlino (2008); Prix de Rome - Concorso internazionale di architettura di progettazizone per la grande Villa adriana (2018).
Tra i suoi libri: con Mara De Benedetti, a cura di, Fritz Neumeyer, Ludwig Mies van der Rohe. Le architetture, gli scritti (Skira, 1996); con Silvia Malcovati, Berlino 1990-2010. La ricerca sull'isolato e sul quartiere (Lampi di stampa, 2009); a cura di, Ludwig Hilberseimer, Grosstadtbauten ed altri scritti di arte e di architettura (Clean, 2010); con Martina Landsberger e Silvia Malcovati, Tipologia architettonica e morfologia urbana. Il dibattito italiano. Antologia 1960-1980, (Lampi di stampa, 2010; Libraccio 2012); con Petra Kahlfeldt, Il ventre di Rimini. Progetti per un nuovo mercato coperto (Clueb, 2010); con Massimo Fagioli, a cura di, Nuovi architetti berlinesi (Aion, 2011); Berlino anni Venti. Progetti urbani per il centro (1921-1933) (Aión, 2012); con Silvia Malcovati, Stefano Suriano, a cura di, Nuovo realismo e architettura della città (Maggioli, 2013); con Annegret Burg, a cura di, La memoria dell'Italia nell'immagine di Potsdam (Potsdam School of Architecture/Politecnico di Milano, 2014); a cura di, Paul Kahlfeldt, La colonna. L'amore infelice degli architetti (Cortina, 2015); con Silvia Malcovati, a cura di, Hans Stimmann, La townhouse berlinese. Un esperimento tipologico (Cortina, 2015); con Silvia Malcovati e Vittorio Uccelli, a cura di, Giorgio Grassi. Disegni scelti, 1966-2004 (Aión, 2016); con Martina Landsberger, Silvia Malcovati, a cura di, Tipo forma figura. Il dibattito internazionale. Antologia 1970-1990 (Libraccio, 2016); Ricostruzione critica come principio urbano e altri scritti (Aión, 2017); Il primo Mies. Dalla casa alla grande città (Clean, 2018); Progetti per Milano. Garibaldi, Isola, Gioia (Maggioli, 2020); Progetti urbani. I. Berlino (Aión, 2020); AA.VV., a cura di, Mies van der Rohe. The Architecture of the city. Theory and Architecture (il Poligrafo, 2022); a cura di, Modersohn & Freiesleben: Realta’ / Wirklichkeit / Reality (Maggioli, 2022); con Renato Capozzi e Luca Lanini, Le ville di Ludwig Mies van der Rohe (Quodlibet, 2022); con Renato Capozzi e Luca Lanini, Un architetto e una città. Ludwig Mies van der Rohe e Berlino (Quodlibet, 2023).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 09 FEBBRAIO 2024 |
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