Alberto Magnaghi ci ha lasciato lo scorso settembre. Non senza assicurare al “suo” progetto territorialista, come al territorio ed alle relative Scienze, nuove, ulteriori, importanti acquisizioni e innovazioni scientifiche e politiche, strumenti fondamentali per affrontare i problemi di fase, presenti e prossimi futuri. Negli ultimi anni, infatti, Magnaghi ha promosso e favorito, insieme ai molti studiosi che aderiscono al programma territorialista, più che una serie di prodotti: una nuova “cassetta degli attrezzi” consistente in un percorso programmatico, fatto di ricerche e riflessioni, analisi, verifiche e, finalmente, proiezioni “sul campo”. Con esiti di rilievo non solo sul piano dell’elaborazione scientifico-accademica, ma per le applicazioni, concrete e potenziali, all’azione territoriale. Un percorso che ha preso le mosse con l’avanzamento teorico espresso ne Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020) in cui i capisaldi teoretico-concettuali, le categorie portanti, del filone territorialista, sono state “rivisitate” con maggiore attenzione ai problemi contingenti, dalla crisi ecoclimatica alle emergenze sociali e territoriali. Temi che oggi richiedono forse attenzione e cura maggiori di quanto era successo in passato. Questo, tuttavia, era solo il primo momento di un programma - certo stimolato anche dall’ulteriore emergenza epidemiologico-ambientale rappresentata dalla pandemia di COVID su cui la Società dei Territorialisti e delle Territorialiste ha proposto una riflessione centrata sulle ricadute sanitarie del degrado ambientale e delle compressioni delle zoocenosi (Marson, Tarpino, eds., 2020) - che prevedeva la verifica di consistenza delle categorie fondamentali del progetto territorialista attraverso una serie di colloqui e seminari che analizzavano la corrispondenza tra “nuove letture” di tali categorie e avanzamenti teorici e applicativi relativi alle diverse discipline, tutte afferenti alle Scienze del Territorio, nonché circa il loro impiego, metodologico, strategico e operativo, corretto. Un’azione culturale culminata in un seminario nazionale, tenutosi il 9 maggio 2022, in cui si è dibattuto con molti esponenti di questo approccio alla ricerca. Da qui, da questo confronto, è scaturito il volume Ecoterritorialismo (Firenze University Press, 2023), curato dallo stesso Magnaghi con Ottavio Marzocca, dove sono stati raccolti contributi di molti studiosi, dai “capiscuola” ai dottorandi di questo nuovo approccio alla pianificazione e, più in generale, alla vita sui territori.
Il numero di «Scienze del Territorio» dedicato a questo, Ecoterritorialismo. La prospettiva bioregionale (R. Cevasco, D. Fanfani, A. Ziparo , eds., 2022), ha rappresentato un primo passaggio dalla riflessione teorica alla verifica metodologica e contenutistica, nonché alla messa in campo della strumentazione in via di definizione. Ai contributori si chiedeva infatti di dispiegare due diversi tipi di narrazioni interpretative: la rivisitazione ecoterritorialista di ambiti urbani e metropolitani degradati, da “riterritorializzare”, con rappresentazioni tali da favorirne i relativi scenari, ovvero la prospezione degli effetti di consolidamento e ampliamento di risanamento, tutela, valorizzazione e affermazione dei patrimoni territoriali, con la proiezione su di essi delle “nuove categorie” ecoterritorialiste, in situazioni ambientali già contrassegnate da opzioni di autosostenibilità. L’incontro “strutturato” con i saperi pratici espressi da contesti già attenti o dove erano in atto pratiche territorialiste ha costituito l’ultimo passaggio di tale programma.
La proiezione su di essi delle innovazioni più recenti e la verifica circa gli effetti di allargamento e rafforzamento degli elementi di autosostenibilità socioambientale già presenti - oggetto del convegno “Buone pratiche territoriali nell’emergenza ecologica. La prospettiva bioregionale” (Roma, 6/8 ottobre 2023) - rappresenta infine lo strumento mirato a favorire la proiezione delle nuove pratiche ecoterritorialiste e la loro applicazione sul terreno concreto dell’azione territoriale.
1. Il principio territoriale: l’innovazione teoretico-epistemologica
Molti studiosi sostengono che, a fronte delle catastrofi attuali e delle tendenze perduranti a condizioni ambientali sempre più gravi, servono svolte radicali dettate da nuove visioni, di cui si lamenta spesso la mancanza, tali da prefigurare soluzioni innovative quanto improntate a una reale riconversione ecologica di economia e società. Nel volume Il principio territoriale, Alberto Magnaghi ha costruito una proposta dello “scenario oggi necessario”, attraverso il richiamo e soprattutto la riflessione su lustri di pratica professionale, scientifica e politica, portata avanti insieme a molti altri studiosi (“era e resta un grande organizzatore di anime”, disse di lui Rossana Rossanda diverso tempo fa), e in collaborazione con moltissimi attori e movimenti attivi nella difesa e valorizzazione del patrimonio territoriale.
Il testo si apriva con una rivisitazione del lessico territorialista, approccio di cui si ripuntualizza la semantica delle categorie portanti. Fino alla “cattura della fiamma”, l’uomo è stato “necessariamente ecologico”, per mancanza di conoscenza e tecnologia tali da poter esulare dai vincoli energetici. Economia e insediamenti rispettavano la “regola ambientale”: ogni strato di civilizzazione produceva lasciti che non configgevano, anzi arricchivano, la struttura ecologica originaria e i paesaggi insediativi che l’avevano preceduto nel tempo (cicli di territorializzazione). Dopo la rivoluzione industriale il territorio è stato invece inteso sempre più nel senso economicistico: la regola ambientale è stata negata da localizzazioni crescentemente ingombranti; il suolo sempre più consumato ha contribuito in molti contesti alla distruzione degli apparati paesistici. Gli effetti combinati delle alterazioni inquinanti hanno indotto, alla fine, la crisi climatica globale che oggi ci ricasca addosso non solo come dramma ecologico, ma come flagello pandemico. Dissesti, degradi, distruzioni, catastrofi tutt’altro che naturali, esasperati dalla pervasività delle macrourbanizzazioni, una cascata di cemento illimitata fino alla città diffusa di fine Novecento e all’attuale postmetropoli digitale, vengono rapportati nel volume all’obliterazione della regola ambientale, la cui negazione deterritorializzante spiega le amplificazioni pesantissime e spesso disastrose delle ricadute locali della crisi ecologica. Soltanto il blocco di tutto ciò e l’avvio di processi diffusi di riterritorializzazione possono assicurare un futuro.
Lo studioso illustra quindi le categorie portanti “dell’edificio che, dalle fondamenta al tetto” costituiscono l’aggiornamento del nuovo progetto di territorio, verso un futuro “ecoterritorialista”. È importante notare come la “rimessa a fuoco” delle strutture sostantive dello scenario costituisca l’esito dell’interazione con gli attori sociali che nelle diverse realtà operano costantemente non solo per la tutela del patrimonio ambientale, ma per la ripresa o l’avvio di economie locali autosostenibili. Un’operazione più complessa e difficile oggi, con la crisi ecoclimatica, e le sue ricadute territoriali, ormai conclamata.
Nel testo, negli allegati, nell’apparato dei riferimenti, sono illustrati, raccontati i termini di questo incontro di Magnaghi e i territorialisti con gli abitanti di molti contesti. Avvenuti in esperienze di progettazione e pianificazione partecipate, nelle pratiche di ricerca e azione sul campo, nell’affiancamento delle azioni di difesa, nella reinterpretazione e valorizzazione degli elementi peculiari del paesaggio, nella conversione bioecologica delle produzioni agrorurali. Tale interazione con la razionalità sociopolitica dei territori si rivela elemento decisivo di “contaminazione virtuosa” della razionalità tecnico-scientifica che permea l’elaborazione del progettista e contribuisce non poco all’evoluzione dei costrutti che significano oggi il pensiero territorialista. Tanto più per l’emergenza sociale e ambientale in atto, oggi appare necessario operare secondo una concezione patrimoniale del territorio, ovvero rispettando i profili prospettati dall’ “insieme degli elementi, dei beni e dei sistemi ambientali, urbani, rurali, infrastrutturali e paesaggistici, formatisi mediante processi coevolutivi di lunga durata tra insediamento umano e ambiente”. È necessario per questo che si consolidi “il controesodo”, il ritorno al territorio che oppone alla prosecuzione dei processi di macrourbanizzazione fenomeni innovativi di ritorno alla terra, ai luoghi urbani, alle economie locali, ai territori interni. Fenomeni peraltro già registrati da ricerche come “Riutilizziamo l’Italia”, “Riabitare l’Italia “, “Nuovi Montanari”, oltre che dai report sulla “Ripresa dei Borghi” di Legambiente e Symbola; e dagli stessi convegni e attività dell'Osservatorio dei territorialisti. Tali azioni sono da rafforzare verso una rete di contesti segnati da “Nuove forme di ricchezza durevole del modello di sviluppo delle società locali” proposto. La bioregione urbana è l’ambito idoneo ad interpretare meglio le esigenze di vita e relazione della società attuale, arrestando le tendenze distruttive di iperconsumo di suolo della megacity, anche per l’apertura della propensione naturalistica della “bioregione" verso interazioni virtuose tra natura e antropizzazione. Questo quadro richiede però una visione unitaria delle scienze del territorio, che ha già integrato statuti scientifici diversi, con una logica multidisciplinare, e oggi tende sempre più verso la transdisciplinarità.
Nell’ultima sezione della monografia (“La democrazia dei luoghi”) Magnaghi illustra i caratteri delle azioni in atto da parte di quello che Aldo Bonomi chiama “Il popolo della cura”: gruppi, movimenti, associazioni, comitati che dalla difesa dei contesti muovono spesso verso azioni di “sviluppo locale auto sostenibile”. Dando luogo a strumenti di intervento “speciali” che si concretizzano in “laboratori, tavoli, patti, contratti, accordi” che dal rispetto dei caratteri dei diversi luoghi giungono alla produzione di nuovo valore. Queste situazioni, raccontate nel volume, costituiscono l’ultima decisiva dimostrazione di quanto si rivelassero inconsistenti e vacue le accuse di “visionarismo da proiezione sulla realtà dei propri desiderata, in definitiva autoreferenziale” che qualcuno in passato muoveva a Magnaghi e al filone territorialista. Simili affermazioni potevano forse comprendersi una trentina d’anni fa, allorché l’istanza sociale appariva "in dissolvenza" e i “nuovi abitanti forse molto di là da venire”. Le condizioni attuali , assai diverse , emergono spesso nel volume - certo, se si va oltre le sensazioni epidermiche suscitate forse da sguardi di superficie -: solo nel Belpaese si contano oggi decine di migliaia di gruppi e movimenti che operano quotidianamente per fronteggiare le ricadute a terra della crisi ecoclimatica (e sociale) non solo rafforzando la tutela; molti di loro stanno dando luogo a processi di valorizzazione sostenibile, autentiche pratiche di consolidamento e ampliamento della democrazia dei luoghi che stanno autonomamente irradiando, rifertilizzando quadri istituzionali altrimenti sclerotizzati. Alberto Magnaghi ha ricomposto tutto ciò in una fondamentale visione di futuro ecoterritotialista. Un quadro assai interessante, ma soprattutto teorico, che richiedeva riflessioni, verifiche e simulazioni per diventare fertile per l’azione sociale territoriale.
2. Ecoterritorialismo
Il primo momento relativo al programma di dispiegamento dell’innovazione scientifica e politica prospettata da Alberto Magnaghi ne “Il principio territoriale” è consistito nell’articolare e dettagliare le posizioni espresse nel saggio proiettandole sulle categorie caratterizzanti dell’azione ecoterritorialista attraverso una serie di incontri e colloqui di studio, culminati nel seminario nazionale del 9 giugno 2022, organizzati insieme a molte sedi scientifiche e dottorati di Scienze del Territorio diffusi nell’Università italiana. Di cui i contenuti del volume Ecoterritorialismo, curato da Alberto Magnaghi e Ottavio Marzocca, costituiscono gli atti.
Nella presentazione del volume i curatori richiamano la validità di presupposti su cui è nata la ricerca del programma territorialista, oltre un trentennio addietro: l’insostenibilità del modello di sviluppo contemporaneo economicistico-industrialista, tanto più nella versione recente “turbofinanzcapitalista” (Gallino, 2012). Che resterebbe inadeguato, specie dal punto di vista ecologico, pure con un’attenzione, particolare quanto improbabile, al sociale. Questo, persino nelle versioni più prossime al “modello di sviluppo socialista”. Le forti istanze di riterritorializzazione che scaturiscono dalla crisi ecoclimatica - e le tragedie sociali di fase che ne costituiscono l’altra faccia - richiedono un cambio radicale di prospettiva etica, che metta al centro non più un paradigma “economicistico”, quali quelli che hanno marcato l’intera età moderna e contemporanea finora (con l’eccezione mostruosa dei regimi nazifascisti del Novecento che vi sostituirono una logica etnorazziale), ma il costrutto territorialista, messo a fuoco a suo tempo da Alberto Tarozzi (1999) di “autosostenibilità socioambientale”, che lega l’affermazione dei luoghi alla conservazione e valorizzazione dei propri valori strutturali e dettati statutari. I disastri sociali e ambientali richiamano l’urgenza dei processi di riterritorializzazione, ovvero di blocco delle dinamiche di degrado e destabilizzazione dei territori e di una loro ricostituzione basato sul ripristino dell’assetto ecosistemico, nonché sul rispetto della centralità della regola ambientale e di revisione delle altre istanze, strategiche e normative, di azione sui territori, economiche, insediative, culturali, civili. Probabilmente l’esplicitazione del prefisso “eco” promosso da Magnaghi ne “Il principio territoriale”, apparentemente tautologico in un filone da sempre molto attento all’ecologia, richiamava la necessità di una svolta chiara anche nel linguaggio. Tale approccio tra l’altro tende a individuare anche un terreno concreto per la pertinenza dell’azione territoriale nell’emergenza e nella transizione ecologica, costituito dai luoghi, i contesti territoriali di “ricaduta a terra” degli effetti della crisi ecoclimatica. Tutto ciò prospetta anche elementi di convergenza con le azioni auspicate dai programmi delle grandi istituzioni ambientali, UNEP e Green Deal UE. Da non confondere però con le banali posizioni di qualche commentatore che riteneva che Magnaghi e i territorialisti avessero rivisto in senso maggiormente ecologico le proprie posizioni, proprio alla luce di tali istanze istituzionali. Le convergenze, ove presenti, sono dettate invece dalla gravità e dall’urgenza dei problemi contingenti. Ma resta una differenza sostanziale, riguardante lo scetticismo territorialista perdurante circa le potenzialità dell’azione politico-istituzionale quale fattore “scatenante” di una reazione sostantiva alle dinamiche critiche, ambientali e sociali (basta ricordare i continui semifallimenti delle conferenze internazionali sul clima, in primis sul tema di regole precise per la riduzione fino alla cancellazione delle fonti fossili o i limiti e le contraddizioni del NGUE e della sua versione italiana, il PNRR-Ziparo, 2022).
I processi di riterritorializzazione reali devono vedere al centro gli attori che animano luoghi e contesti locali, gli abitanti-produttori. “Oggi l’ecoterritorialismo testimonia la preoccupazione, maturata da un trentennio, di ricomporre queste figure attorno all’abitare promuovendo esperienze di comunità, reti di produttori, aggregazioni di cittadini che, appunto, abitano il mondo riconnettendo alla specificità dei territori i propri modi di vivere, di fare, di agire. Infatti, è innanzitutto su questo terreno che gli abitanti possono riconoscersi come tali, elaborando il proprio ethos come modo di vivere e di stare al mondo, come maniera di abitare, secondo il significato originario del termine” (Marzocca, 2023).
3. I contributi teorico-disciplinari
Nella prima parte del volume alcuni studiosi, coordinatori di ricerche sistemiche su filoni tematici, corrispondenti ad altrettante componenti del programma ecoterritorialista, sottolineano come l’innovazione teorico-epistemologica espressa ne “Il principio territoriale” abbia innescato dinamiche interpretative articolate che rendono forse più efficaci rispetto al passato i contributi delle diverse discipline di Scienze del Territorio alle categorie portanti del programma.
Antonella Tarpino sottolinea come l’ecomemoria e la storia del paesaggio contribuiscono ad individuare meglio gli elementi strutturanti del patrimonio territoriale, funzionali ai necessari processi di riterritorializzazione.
Giuliano Volpe sottolinea come anche la ricerca sui diversi “strati di civilizzazione” e sugli stessi cicli di storicizzazione dei territori si riveli strumento essenziale per definire la strutturazione del patrimonio territoriale e per comprendere le dialettiche dinamiche relative ai processi di territorializzazione, alla successiva deterritorializzazione, alla prossima necessaria riterritorializzazione.
Anna Marson sottolinea come molti programmi di ricerca e di intervento urbanistici assumano oggi l’ecologia quale componente caratterizzante. Tuttavia l’efficacia del progetto ecoterritorialista sta nel suo determinarsi attorno al patrimonio territoriale da cui discendono regole ambientali, insediative, sociali e culturali che ne costituiscono la peculiarità, tendenzialmentesingolare nel panorama dell’azione disciplinare.
Egidio Dansero e Giuseppe Dematteis evidenziano come anche i contributi della ricerca geografica abbiano elevato le proprie valenze nell’interazione con le innovazioni ecoterritorialiste. In particolare, i temi ruotanti attorno ai concetti di luogo e valori statutari del territorio hanno modificato i limiti della concezione di spazio, che caratterizzava per esempio l’approccio - pure consolidato - della Actor Network Theory, arricchendola appunto di contenuti legati ai “valori verticali”, che li rendono più efficaci nel rispondere alle domande complesse provenienti oggi dai contesti territoriali. Altrettanto interessante è lo shift verso concezioni meno utilitaristicamente economiciste e più aperte all’autosostenibilità socioambientale, dalla ricerca di “buen vivir, benessere, più che sviluppo locale”.
Anche Giovanni Carrosio spiega come l’assunzione del patrimonio, quale campo privilegiato di frequentazione dell’azione sociale renda la ANT più coerente e funzionale alle domande di riterritorializzazione dei contesti, per esempio con una “nuova contadinizzazione” che trasforma gli addetti al primario in abitanti-produttori attenti “all’ecowelfare mirato” all’autosostenibilità dei territori.
Stefano Bocchi infine chiude tale sezione sottolineando i contributi fondamentali dell’innovazione agroecologica alla costruzione del programma ecoterritorialista, di cui la neoagricoltura, necessariamente tendente proprio verso la agroecologia, resta componente fondamentale.
4. Gli strumenti e i metodi del programma: le proiezioni della bioregione urbana
Alberto Magnaghi apre questa sezione di Ecoterritorialismo ricordando il ruolo fondamentale del concetto di “bioregione urbana”, interpretandone le potenzialità di impiego utile ed efficace nei processi di affermazione dei valori patrimoniali, di riqualificazione e transizione ecologica e sociale dei territori, di riterritorializzazione dei contesti.
Gli altri contributi alla sezione analizzano da diverse prospettive - e tramite l’esplorazione di ruoli e funzioni di categorie differenti - l’efficacia dell’uso di tale fondamentale “strumento multidisciplinare” negli auspicati processi di riterritorializzazione prossimi futuri.
Sergio De La Pierre ricorda l’ascesa e il declino della categoria “comunità”, specie nel Novecento a fronte dell’affermazione del concetto di società “quale categoria più funzionale a determinare tessuti sociali e contenuti culturali” della forma insediativa urbana e metropolitana che si andava affermando in quella fase. Oggi l’esigenza di riterritorializzazione e riqualificazione socioambientale dei contesti impone forse di superare tale dicotomia “verso la società comunitaria” della bioregione urbana, più attenta alla complessità dei valori statutari patrimoniali, oltre la mera affermazione delle valenze socioeconomiche dello spazio antropizzato.
Aldo Bonomi muove dalla “sofferenza” dell’attore sociale nel “conflitto tra flussi e luoghi” che segnava anche i distretti produttivi e sembrava destinato ad accentuarsi; anche per una tendenza prevalente fino a ieri: quella che pretendeva di gestire tale nodo assai problematico tramite il crescente ricorso alle “piattaforme”, forse coerenti a letture socioeconomicistiche dello spazio in questione, ma che ne accentuavano una rappresentazione forse eccessivamente distante da valori e statuti dei luoghi. Ne conseguivano carenze interpretative, rese più evidenti dal drammatico emergere dei problemi più recenti: la questione epidemiologico-sanitaria con la pandemia e l’esplosione della crisi ecologica nel quotidiano.
Da qui il rimontare della “coscienza di luogo” sottolineato da Giacomo Becattini, quale esito dell’evoluzione del concetto di distretto, tramite “l’assunzione dei valori verticali e l’emergere di soggetti oggi assai attenti” ad essi: “Il popolo della cura e le comunità operose “. Capaci di “sollevare lo sguardo” ed individuare nella bioregione urbana non solo l’ambito consistente per processi di ricostituzione ecologica dei territori, ma anche la sede di possibile reindirizzo dei flussi sull’affermazione dei valori verticali presenti.
Angela Barbanente e David Fanfani sottolineano come, nel caso del Piano Paesaggistico Territoriale della Puglia, la proiezione su quel territorio del concetto di bioregione urbana ne abbia permesso la reinterpretazione in termini di rete di “sistemi autosostenibili, multipolari e solidali”, particolarmente idonei a favorire “funzione di resistenza e costruzione di nuove forme coevolutive fra insediamenti umani e ambiente” atti a favorire processi di riqualificazione ecologica del territorio, nonché di riterritorializzazione.
Daniela Poli, per rivisitare la città quale nodo della rete ecoterritoriale, muove da una nuova consapevolezza ecologica che può andare addirittura oltre la coevouzione sostenibile tra assetto sociale e struttura naturale, per giungere alla coscienza dell’umano quale entità in equilibrio di convivenza assolutamente rispettosa degli altri esseri viventi. Da qui la necessità che lo squilibrio caotico metropolitano, la città abnorme e diffusa come elemento destabilizzante dell’ecosistema territoriale, possa trovare tra le prime risposte la tendenza al ripristino delle funzioni ecoterritoriali e dei relativi servizi, indispensabili per il restauro della qualità ambientale degli ambiti urbanizzati. Il processo prevede una serie di passaggi: dall’individuazione del sistema preesistente, alla rideterminazione della struttura dell’ecosistema territoriale, all’interpretazione di motivi e caratteri dei fattori attualmente destabilizzanti, alle indicazioni progettuali che permettono d rimuoverli e superarli. Tale ricomposizione si colloca in una nuova dialettica ambientale tra la città e il territorio circostante che viene prefigurata più agevolmente dalla rappresentazione dell’ambito come bioregione urbana.
Carlo Cellamare indica come la ricomposizione della città nella bioregione urbana di riferimento possa favorire negli attori sociali interessati anche il riconoscimento dei valori statutari, ambientali, culturali, storici, artistici, non sempre colti nella razionalità economica spesso prevalente nelle pratiche sociali. Tali valori patrimoniali, allorché riemersi, vanno poi declinati nei diversi quartieri e comparti urbani e riconosciuti dagli agenti della riqualificazione socioambientale della città: le reti di mutualismo, i poli civici , i centri sociali, gli operatori della ricostituzione ecologica e culturale dell’urbano.
Infine, Monica Bolognesi sottolinea come vada assunto per la transizione ecologica dei contesti il concetto di risorsa energetica quale elemento del patrimonio territoriale, fondativo per la bioregione urbana. A quel punto le risorse possono favorire la determinazione di comunità energetiche che, muovendo dalla centralità della regola ambientale, individuino modalità e tipologie di localizzazione e realizzazione di impianti di produzione legati alla struttura patrimoniale locale, che diventino servizi ecosistemici e contribuiscano ai processi di riterritorializzazione.
5. Il contributo della rivista con il volume dedicato a Ecoterritorialismo: la prospettiva bioregionale
Pubblicato allorché il libro citato nelle sezioni precedenti era in ultimazione, il numero della rivista dedicato apparentemente allo stesso tema, curato da Roberta Cevasco, David Fanfani e Alberto Ziparo - anch’esso esito delle esperienze e riflessioni registrate in oltre un biennio di colloqui, incontri, conferenze e seminari, ma anche di una prima sintesi del lavoro “sul campo” degli Osservatori tematici SDT, di incontro con i “saperi pratici” delle esperienze ecoterritorialiste in dispiegamento - costituisce un compendio della duplice proiezione dell’avanzamento innovativo ecoterritorialista, dapprima teorico-metodologico , quindi anche pragmatico.
Non è peraltro di secondaria importanza, nel fascicolo, la parte introduttiva in cui, rileggendo le ricadute territoriali della crisi ecoclimatica da prospettive analitiche divese , Paolo Pileri (attento all’eccessivo consumo di suolo), Sergio Malcevschi (nuovi rischi per gli ecosistemi territoriali) e Tonino Perna (necessità di affermazione dei valori dei luoghi e della “sovranità “ dei territori) contribuiscono a confermare uno dei presupposti dell’azione ecoterritorialista: l’attuale governance ai diversi livelli è caratterizzata da una struttura politico - istituzionale per svariati motivi “incapace e inadatta” ad affrontare consistentemente la crisi ambientale ed intraprendere nuovi efficaci processi di riqualificazione. Da qui la necessità di rafforzare l’interazione scientifica e politica con il soggetto oggi in prima linea nelle possibili istanze di inversione di tendenza: l’abitante -produttore locale.
Il contributo forse più rilevante del volume consiste forse nei saggi che prospettano le due direzioni in cui si può dispiegare la proiezione dell’innovazione ecoterritorialista: la costruzione di visioni di reinterpretazione di ambiti urbani o metropolitani compromessi dal degrado diffuso con rappresentazioni e visioni tendenti verso scenari che favoriscano programmi e progetti di riterritorializzazione; l’individuazione e il consolidamento di elementi di strategia ecoterritorialista già presenti in contesti in cui si sono già avviate e si stanno attuando azioni di riqualificazione e riuso ecologico del territorio.
Tra le prime, troviamo la rilettura in termini di scenario di bioregione urbana dell’Ile de France, la macroregione parigina, da parte di Agnes Sinai, nonché dell’ambito metropolitano torinese di Fiorenzo Ferlaino e Francesca Silvia Rota. In questi casi la reintepretazione dei contesti interessati da prospettive che privilegiano la reindividuazione dell’ecosistema territoriale e l’affermazione dei valori patrimoniali facilitano e prefigurano scenari praticabili di riterritorializzazione. Certo in queste formulazioni le relative strategie appaiono necessariamente quali criteri di massima con “maglie molto larghe”, tuttavia i relativi scenari lasciano emergere potenziali di futura praticabilità.
Anche la rivisitazione di un contesto assai compromesso, degradato e inquinato, come la Valpolcevera a Genova, ne favorisce la rilettura in termini di potenzialità di riqualificazione (Giampiero Lombardini).
Esistono però situazioni in cui la presenza di componenti ecoterritorialiste contribuiscono già a consolidare le istanze di riqualificazione ecologica dei territori: è il caso della riduzione del rischio idraulico ed idrogeologico - senza interventi pesanti e impattanti di “chirurgia territoriale” basati sul cemento - nell’Alto Valdarno, richiamato da Paolo Baldeschi; o della riscoperta dei percorsi della transumanza come parte dell’armatura di ristrutturazione ecologica del territorio, in vari contesti dell’Italia centrale, verso l’individuazione di nuove bioregioni urbane (Carlo Valorani e Marco Vigliotti).
Un caso particolare di convergenza tra ecoterritorialismo e istanze di riqualificazione virtuosa dei territori è rappresentato poi dalla “coscienza di luogo” dimostrata dal compianto sindaco di Pollica nel Cilento, Angelo Vassallo, che portò il conflitto contro gli speculatori e i responsabili di azioni devastanti per ambiente e assetto urbanistico fino alle estreme conseguenze (Giulia Panepinto).
Elementi di ecoterritorialismo evidentemente già presenti in azioni, più o meno recenti di riterritorializzazione. Che troveranno realizzazioni più ampie e solide nelle esperienze raccontate nel convegno “Buone pratiche territoriali nell’emergenza ecologica. Una prospettiva bioregionale” circa un anno dopo.
6. L’incontro con il sapere pratico delle esperienze
Il convegno “Buone pratiche territoriali nell’esperienza ecologica. Una prospettiva bioregionale” costituisce l’ultimo passaggio per l’attuazione del programma di innovazione ecoterritorialista, promosso e avviato da Alberto Magnaghi nel 2020 con le posizioni espresse ne Il principio territoriale e quindi consolidate nelle verifiche di “coerenza e consistente applicabilità” descritte nelle sezioni precedenti. Per la natura del programma territorialista, fin dal suo avvio, l’interazione tra elaborazione scientifica e azione sul territorio costituisce un momento quasi ovviamente fondamentale: da qui l’importanza dell’incontro, tenutosi nell’ottobre 2023, che doveva confermare la prospettiva del dispiegamento con esiti positivi della più recente innovazione ecoterritorialista su agenzie e attori del territorio. Che, ove restasse chiusa in accademie e centri studi, aldilà dell’importanza dell’avanzamento scientifico, perderebbe gran parte delle proprie valenze per rischiare di ricadere nell’autoreferenzialità.
L’importanza dell’incontro ne giustifica la lunga preparazione e l’affidamento dell’organizzazione agli Osservatori SDT. Il dialogo con le expertize del territorio doveva infatti rispondere ad alcuni requisiti: innanzitutto incontrare esperienze che, esplicitamente o meno, avevano già assunto, in qualche misura, contenuti territorialisti; ancora si dovevano richiamare esperienze che avevano almeno tentativamente già “sollevato lo sguardo” sia dal punto di vista spaziale che tematico, ovvero erano state capaci di andar oltre gli specifici luoghi e contenuti con cui si erano avviate, per guardare , più o meno consapevolmente, alla riterritorializzazione di contesti più ampi, tramite anche le necessarie cooperazioni o alleanze, con azioni rispondenti a finalità analoghe, anche se con contenuti specifici diversi; infine dovevano avere contezza della necessità di un rapporto dialetticamente critico con le istituzioni di governance ai diversi livelli; fino alla capacità di predisporre strumenti decisionali non ordinari, nel caso in cui la politica istituzionale coinvolta si rivelasse troppo distante dalle linee strategiche richieste.
La lunga preparazione al convegno (circa un anno di lavoro da parte di una commissione diretta dal Coordinatore degli Osservatori SDT, Sergio De La Pierre, in cui ha avuto grande ruolo lo stesso Alberto Magnaghi - almeno fino a quando le condizioni di salute glielo hanno permesso (sostanzialmente fino a pochi giorni prima della sua dipartita, avvenuta proprio alla vigilia del convegno) - comportava tra l’altro la non semplice selezione di un numero limitato di casi significativi (alla fine sono stati 12) dalle oltre duecento esperienze con cui gli Osservatori SDT già interagivano, anche intensamente.
Si richiedeva a ciascuno di presentarsi, sottolineando se, come e quanto l’eventuale presenza di contenuti, strumenti e pratiche ecoterritorialiste caratterizzasse già l’esperienza , nonché di riflettere sulle modalità con cui “le acquisizioni della messa a punto innovativa” recente del programma poteva contribuire ad ampliarle e consolidarle, verso la costruzione di una “rete di reti” di situazioni contestuali ecosocialmente autosostenibili, di un qualche rilievo alle diverse scale territoriali.
Coerente con tale impostazione, il convegno si apriva infatti con la presentazione del volume Ecoterritorialismo soprattutto per trasmettere le innovazioni teoriche e metodologiche discusse in precedenza a coloro che non avessero partecipato alla serie di colloqui e seminari che avevano permesso di produrre quell’elaborazione.
Gli attori cui toccava assumere gli elementi di innovazione in questione, rifletterci e proiettarne le potenzialità sulle esperienze presentate, erano raggruppati in tre tavoli di lavoro macrotematici, al cui interno si sviluppava la riflessione sui diversi casi. Essi erano costituiti da “Nuova urbanità e produzione sociale”, “Neoagricoltura, ritorno alla montagna e migranti”, “Paesaggi, parchi, ecomusei e valorizzazione del patrimonio”.
Il primo workshop si apriva con la presentazione del caso di St. Macaire, nella Gironda, Francia. Lì l’ex sindaco, Jean Marie Bille, raccontava come dall’inizio della propria esperienza amministrativa, l’azione gestionale si caratterizzasse per la presenza rilevante di contenuti territorialisti, che aveva favorito operazioni di restauro e valorizzazione del patrimonio storico-architettonico e di riqualificazione dell’ecosistema urbano.
La Fattoria di Mondeggi, nella collina fiorentina, era contrassegnata dall’inizio per un’esperienza di autogestione nella produzione agricola, da parte di un collettivo espressione degli abitanti locali, che avevano permesso il prosieguo dell’attività produttiva dopo l’abbandono da parte della vecchia struttura gestionale. Il salto di qualità, ambientale e sociale, che ha suscitato dapprima l’interesse e quindi il consenso e l’appoggio di società e istituzioni locali e metropolitane, è stato favorito anche dal rapporto con la “Scuola territorialista” presente presso i corsi di laurea in Pianificazione dell’Università di Firenze, prima ad Empoli e poi a Prato. Ciò che ha spinto verso uno sguardo più ampio, che oltre alle superfici direttamente produttive, è attento alle potenzialità di valorizzazione, con produzione di beni immateriali, dell’intero patrimonio ambientale, che si allarga verso una logica di “biosubregione” urbana. Da qui la promozione di nuove attività sociali e culturali, dall’educazione alla ricerca, dal visiting al turismo esperienziale, che ha allargato molto il quadro degli attori e anche dei fruitori dell’esperienza. Fino ad un coinvolgimento di tutto il territorio metropolitano, favorito anche dal suo costituire il bacino di consumo, oggi allargato, dei “prodotti di qualità” di Mondeggi.
Percorso quasi opposto quello delle realtà più legate allo spazio urbano o metropolitano denso, che dalla difesa delle proprie attività, passavano all’allargamento delle iniziative socioculturali, fino all’erogazione di servizi alla collettività di concerto con le istituzioni pubbliche (Spin Time di Roma). Ancora si è consolidata la collaborazione con altri centri civici e sociali, verso una rete metropolitana che assumeva infine anche l’importanza, accanto alla ricostituzione di socialità, della riqualificazione degli ecosistemi urbani e territoriali.
Ciò che era più evidente nel caso del Giardino “Mater Dei” a Napoli, che già legava - e consolidava nel tempo - azioni di rilancio sociale e di riqualificazione ecologica. L’assunzione della “coscienza di luogo” era evidente anche nel passaggio dall’affermazione del singolo progetto locale a strategie di fruizione e valorizzazione di interi patrimoni contestuali. Ciò che si riscontra anche nei casi presentati nel workshop “Neoagricoltura, Aree interne, Migranti”.
Nel caso di Ostana, realtà agroturistica delle Alpi Cuneesi, presentata dal sindaco Giacomo Lombardo, la frequentazione territorialista aveva favorito la comprensione della necessità di legare i settori produttivi già presenti - a lungo in crisi anche per lo svuotamento demografico della zona - alle potenzialità dell’intero patrimonio presente. Da qui la ripresa dei comparti già economicamente attivi, anche per la presenza dei “nuovi abitanti” migranti; cui si aggiungeva la convergenza, su nuove attività socioculturali, degli stessi con i lavoratori indigeni. Favorita anche dalla formazione di “strutture cooperative di comunità”, che permettevano anche l’apertura di nuovi progetti e azioni intersettoriali che consolidavano ulteriormente le relazioni tra “vecchi e nuovi “abitanti.
Nella Garfagnana la produzione agricola ha permesso la formazione di “Comunità del Cibo” che ha a sua volta favorito la nascita di nuove attività, legate alla fruizione dell’intero patrimonio ed al “consumo intelligente” dei beni non solo materiali.
Analogamente la Valle Subequana in Abruzzo è attenta a far sì che le attività legate alla filiera turistica non impattino negativamente sulla qualità e sull’equilibrio ecopaesaggistico del proprio patrimonio. La logica ecoterritorialista era già implicita nella capacità di conservazione e fruizione di tutti i beni patrimoniali, ma le ultime acquisizioni inducono maggiore attenzione alle relazioni sistemiche tra i suoi elementi.
Importante il contributo dei “nuovi abitanti” anche nel caso di Nonantola, nel modenese. Da operatori agricoli, gli attori interessati hanno colto la domanda di nuovi servizi aprendo nuove attività. Ciò ha permesso la riscoperta di altri beni, in una campagna un tempo segnata solo dalle colture. Ne conseguono benefici in termini di socialità e di occupazione, non solo per i migranti, ma per l’intera cittadinanza.
I casi raccontati nel workshop “Paesaggi, Parchi, Ecomusei e di valorizzazione del patrimonio” presentano tratti omologhi: si trovano tutti al Sud e si sono avviati anche come risposta ai fallimenti dei modelli di sviluppo proposti in passato in generale per il Mezzogiorno, in particolare per i contesti interessati; sono tutti basati sulla valorizzazione delle risorse locali, reinterpretate quali componenti del patrimonio territoriale e paesaggistico; si trovano in ambiti già emersi come potenziali contesti di bioregioni urbane.
Lo Stretto di Messina era già stato definito da Gambi (1961) e Rossi Doria (1982) quale “Regione metropolitana omogenea”: il fallimento del passato programma di sviluppo “per grandi poli industriali e infrastrutturali” ha permesso di recente, anche per l’azione della pianificazione, l’individuazione del patrimonio ecopaesaggistico quale fattore di autosotenibilità sociale, oltre che ambientale. Dopo la proposta di dichiararlo “Patrimonio universale dell’umanità” e di farne un “Parco costiero e marino”, viste le numerose aree protette che vi insistono, di recente si sta consolidando una rete di programmi e progetti di autosostenibilità locale (risanamento territoriale, energie rinnovabili, percorsi ecoculturali, turismo esperenziale, neoagricoltura, didattica, ricerca, educazione, ecc.) esplicitamente riferentesi al programma ecoterritorialista; anche perché promossa anche da esponenti SDT.
Nei Nebrodi, analogamente a quanto sopra, la “nuova fase” nasce dopo mia creazione di un laboratorio territoriale (2004) di matrice territorialista; che da allora in poi segna in misura crescente progetti e piani, fino al Piano del Parco dei Nebrodi e alla recente approvazione del programma di “Ecobiodistretto” - come racconta Andrea Marcel Pidalà (2021).
Nella Madonie la presenza già rilevante di attività agricola si rinnova con la maggiore attenzione all’ambiente, verso elementi di ecoagricoltura. Un programma di educazione e formazione sulle potenzialità dell’intero patrimonio territoriale è il connotato territorialista dell’azione in atto (dovuta ai rapporti con l’Università di Palermo e i molti studiosi aderenti al filone ivi presenti); che intende infatti perseguire migliori relazioni tra le componenti ecosistemiche e le diverse attività presenti nel contesto.
Il Parco dei Paduli in Puglia rappresenta una concretizzazione delle azioni promosse dal PPTR, tendenti a favorire la rilettura del territorio regionale in termini di bioregioni urbane “con sistemi multipolari solidali”. Dall’antica produzione di olio di qualità, oggi la realtà del Parco permette di ampliare la presenza di nuove attività di produzione di beni materiali e immateriali, prefigurando un contesto tendenzialmente bioregionale, in cui l’intero patrimonio viene tutelato e fruito.
L’esito del convegno ha sostanzialmente confermato come le acquisizioni degli ultimi anni, con relative innovazioni, teoriche e pratiche, scientifiche e politiche, possano contribuire ad ampliare e consolidare progetti ed esperienze che già tendevano a riqualificare e riterritorializzare diversi contesti. Si può prefigurare la formazione e la continua crescita di una rete di situazioni territoriali che, dal basso, evolvono con crescenti realizzazioni di ambiti di autosostenibilità sociale ed ambientale. L’ecoterritorialismo, rafforzata la propria armatura scientifica e politica, diventa azione territoriale. Un percorso già avviato, ma per molti versi ancora da compiere nel prossimo futuro, con sempre maggiori ampliamenti e acquisizioni.
Alberto Ziparo
N.d.C. – Alberto Ziparo, già professore di Tecnica e Pianificazione urbanistica all’Università di Firenze, ha svolto attività di ricerca sull’impatto ambientale di progetti e programmi di opere rispetto alle variabili territoriali e paesaggistiche oltre che su teorie e metodi di pianificazione ambientale, territoriale e paesaggistica.
Ha coordinato e condotto ricerche di interesse nazionale e internazionale sui temi dell’impatto ambientale, territoriale e sociale dei progetti: di megacentrale termoelettrica a Gioia Tauro, del Ponte sullo Stretto di Messina, del sottoattraversamento ferroviario AV della città di Firenze e della mobilità sostenibile nell’Area fiorentina; e ancora le indagini dell’Osservatorio Nazionale Movitalia sulla Legge-Obiettivo e la ricerca “Riutilizziamo l’Italia”, promossa da WWF Italia e condotta da un gruppo di scienziati afferenti a numerose istituzioni di ricerca. Ha inoltre partecipato a Ricerche nazionali quali ITATEN e RETURB sull’assetto del territorio italiano e fatto parte del coordinamento scientifico per la redazione e/o l’aggiornamento del Piano Territoriale Paesaggistico della Regione Siciliana, delle Linee Guida della Pianificazione della Regione Calabria e del Quadro Territoriale Regionale Paesaggistico della Calabria.
È membro fin dalla fondazione del LaPEI e della Società dei Territorialisti/e ONLUS, del cui Consiglio Direttivo fa parte dal 2018. Collabora con associazioni e gruppi ambientalisti di tutela e valorizzazione auto sostenibile di contesti territoriali.
Tra i suoi libri: Pianificazione ambientale e trasformazioni urbanistiche. Problemi e metodi di integrazione delle procedure di bilancio di impatto ambientale nelle pratiche di piano (Gangemi, 1988); con Francesca Moraci, Le analisi per il piano ambientale (Gangemi, 1992); con Gustav Schachter, Alessandro Busca, Daryl Hellman, a cura di, Boston in the 1900's. Territorial planning and economic development in the Boston area to the end of the century (Gangemi, 1994); con Fabrizia Biagi, Pianificazione ambientale e sviluppo insostenibile nel Mezzogiorno (Alinea, 1998); con Maurizio De Zordo, Giorgio Pizziolo, a cura di, TAV sotto Firenze. Impatti, problemi, disastri, affari e l'alternativa possibile (Alinea, 2011); con Giuseppe Fera, a cura di, Pianificazione territoriale paesaggistica e sostenibilità dello sviluppo. Studi per il quadro territoriale regionale della Calabria (Angeli, 2014); ancora con Fera, a cura di, Lo Stretto in lungo e in largo (CSUNIRC, 2016).
Sui libri di Alberto Magnaghi, v. in questa rubrica: Giuseppe Dematteis, Il territorio tra coscienza di luogo e di classe (5 febbraio 2021); Giancarlo Consonni, La coscienza di luogo necessaria per abitare (12 marzo 2021); Renzo Riboldazzi, Fare politica con l’urbanistica (e viceversa) (14 maggio 2021); Pancho Pardi, Dal territorio una nuova democrazia (30 luglio 2021); Ottavio Marzocca, L’ambiente dell’uomo e l’indifferenza di Gaia (16 settembre 2021).
Sui libri di Ottavio Marzocca, v. in questa rubrica: Luisa Bonesio, Dall’uso-consumo all’uso-cura del mondo (2 luglio 2021); Paolo Castoro, Biopolitica e mondo comune (29 ottobre 2021); Alessio Porrino, Biopolitica e governo delle condotte (2 febbraio 2024).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.