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BIOPOLITICA E GOVERNO DELLE CONDOTTE
Commento al libro di Ottavio Marzocca
Alessio Porrino
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L’epoca della globalizzazione è stata piuttosto avara di date fatali. Non che la storia si fosse fermata, chiaramente. Al di sotto del business as usual la più recente evoluzione delle società umane e delle sue pratiche di governo stava preparando il terreno per un vero evento. Nell’anno 2020 questo evento ha infine preso forma: la pandemia di SARS-CoV2 ha rappresentato una netta cesura nella storia delle nostre società e ha mostrato il bisogno di rielaborare gli strumenti analitici propri della nostra teoria politica. Il testo di Ottavio Marzocca, Il virus della biopolitica. Forme e mutazioni (Efesto, 2023), si presenta come un’opera particolarmente preziosa in questo contesto, offrendo uno studio genealogico che consente di identificare la razionalità e le pratiche che hanno favorito lo scoppio di questa pandemia e hanno reso necessario, agli occhi dei nostri governi, reagire nel modo che abbiamo sperimentato.
Va precisato che questo non è in realtà un saggio dedicato al Covid-19. La versione originale dell’opera, uscita nel luglio 2020 in lingua inglese (Biopolitics for Beginners. Knowledge of Life and Government of People (Mimesis International, 2020), era stata redatta qualche mese prima che la diffusione del virus assumesse tutta l’ampiezza che le sarà propria. La posta in gioco principale del testo è invece quella di verificare la possibilità di analizzare le profonde trasformazioni che, negli ultimi due secoli, hanno toccato il nostro rapporto con la medicina e con l’ambiente a partire dal concetto foucaultiano di biopolitica. Non deve stupire, tuttavia, che un testo ispirato a Foucault e alla sua nozione di biopolitica possa essere tanto agilmente collocato all’interno del dibattito sulla pandemia di Covid-19. In effetti, e ciò vale in particolar modo per l’Italia, il pensiero del filosofo di Poitiers è stato immediatamente utilizzato per tentare di interpretare le politiche anti-pandemiche, anche se spesso con risultati deludenti o al costo di goffe imprecisioni.
Il primo dei sette capitoli che compongono il saggio è dedicato proprio all’esame della nozione di biopolitica per come originariamente intesa da Michel Foucault. Marzocca mette sotto la lente diverse sue opere degli anni Settanta per tentare di descrivere le modalità attraverso cui, secondo il pensatore francese, a partire dal XVII secolo la vita biologica della popolazione – le sue forze, la sua natalità e mortalità, la sua salute – è diventata oggetto e bersaglio di determinate tattiche di potere, costituendo una biopolitica. Mentre il potere inteso in quanto sovranità agisce attraverso strumenti giuridico-legali per scopi meramente repressivi o estrattivi, l’emergere della biopolitica evidenzia la necessità di pensare le relazioni di potere nella loro produttività – nel loro generare pratiche, discorsi, saperi, soggettività ma soprattutto vita, salute, forze – al di là del modello norma-sanzione. Non che la biopolitica possa esser definita come una configurazione di potere autonoma: il testo mostra in modo convincente come questa sia invece da inserire in un insieme più ampio di pratiche di governo di cui la biopolitica rappresenta un possibile outil tattico. Più precisamente, questo primo capitolo ricostruisce in modo efficace la genesi e il ruolo occupato dalla biopolitica nel pensiero di Foucault e innanzitutto la sua dipendenza concettuale e storica dalla governamentalità liberale (p. 105).
Difatti, Marzocca puntualizza che l’emergenza della biopolitica per Foucault non può essere slegata da precise condizioni storiche, appunto quelle della nascita della governamentalità liberale. Con quest’espressione Foucault vuole indicare quel modo di direzione delle condotte, quella razionalità di governo che «naturalizza» i processi economici e sociali e s’impegna anzi a rinforzarli e a moltiplicarne l’utilità complessiva. Si tratta di una governamentalità che, se difende la spontaneità dei comportamenti economici contro la loro direzione centralizzata, lo fa esattamente perché questa viene vista come la modalità più efficace di accrescere le forze e le ricchezze dello Stato. Se questa è una governamentalità intimamente biopolitica è perché con essa non si tratta più di intervenire direttamente nel flusso delle attività economiche e sociali, ma di garantirne la sicurezza e l’armonia per così dire dal di fuori, cercando di bilanciare le libertà individuali con meccanismi di sicurezza relativi alla popolazione nel suo insieme – controllo delle nascite, verifica della salubrità degli ambienti, medicalizzazione delle classi lavoratrici (pp. 89-92).
Tuttavia, le prime apparizioni del termine «biopolitica» appartengono a un periodo della sua produzione in cui le relazioni di potere erano ancora identificate con una sorta di guerra civile permanente che attraversa l’insieme del corpo sociale, e non con il governo. Ci si riferisce qui soprattutto al corso al Collège de France del 1975-1976 intitolato Bisogna difendere la società. Qui la ricostruzione genealogica del discorso storico della guerra permanente tra razze, propria del XVII secolo, si espande fino a prendere in considerazione quel momento in cui questo discorso viene appropriato dal potere sovrano. In questo modo nasce la possibilità di un razzismo di Stato in cui, alla preoccupazione biopolitica di conservare la vita e rinvigorire le forze della popolazione, si associa la necessità di eliminare quella parte della popolazione considerata pericolosa per la sopravvivenza dell’insieme – una politica della preservazione della vita che si trasforma in una giustificazione per la sua distruzione (pp. 76-79). Insomma, attraverso il rovesciamento sempre possibile della biopolitica in una tanatopolitica si tocca uno dei nodi fondamentali del percorso filosofico di Foucault: mentre una lunga tradizione occidentale di pensiero ha sempre opposto violenza e ragione, la biopolitica dimostra come da specifiche forme della nostra razionalità possano darsi esiti violenti – di una violenza che è dunque epifenomeno di una determinata razionalità.
Che sia proprio la razionalità a essa soggiacente a distinguere la biopolitica da altre pratiche di governo è confermato nel secondo e nel terzo capitolo del saggio di Marzocca, dedicati all’esame di quelle tesi che espandono indefinitamente la periodizzazione temporale associata alla biopolitica, facendone un concetto metastorico. Foucault, lo abbiamo visto, colloca l’emergenza di questa presa in carico della vita biologica della popolazione a partire dal XVII secolo, con il fiorire del liberalismo e la cattura del discorso storico della lotta tra razze da parte della sovranità. Si tratta, come si vede, di una delimitazione netta, corrispondente pressappoco alla nostra contemporaneità politica. Tuttavia, vi sono stati filosofi e storici del pensiero che hanno creduto di rinvenire pratiche biopolitiche anche al di là dell’epoca descritta originariamente da Foucault. Marzocca riporta in primo luogo le tesi di Mika Ojakangas, secondo il quale sarebbe possibile ritrovare elementi squisitamente biopolitici nelle opere di Platone e Aristotele (p. 119). Il filosofo finlandese fonda la propria interpretazione, ad esempio, sulla lettura di quei passi dove Platone sembra proporre strategie riproduttive di tipo eugenetico e Aristotele discute delle giuste dimensioni della popolazione di una città. Tuttavia, Marzocca ha buon gioco nel sottolineare la natura essenzialmente eterogenea tra queste posizioni dell’Antichità e la biopolitica: Platone e Aristotele non possono essere pensatori biopolitici perché per questi il problema della vita è assorbito da un tipo di razionalità politica differente – fondata sulla virtù, legata a dei compiti etici. Per i due massimi pensatori della Grecia classica il rapporto tra potere e vita non è quello della subordinazione della seconda in vista della sua accumulazione ma ha carattere essenzialmente strumentale per una certa pedagogia: non in vista di un accrescimento biologico della popolazione, ma di una conversione degli individui in senso essenzialmente etico (pp. 163-164). Come ancora giustamente nota Marzocca, qualcosa come la biopolitica può affermarsi solo in seguito a un processo di «naturalizzazione» dell’esistenza collettiva che rende possibile descrivere la società come un conglomerato di forze da moltiplicare e governare, naturalizzazione che «ha trovato le sue prime condizioni nell’assunzione dell’economia come elemento essenziale della natura e della vita dello Stato» all’epoca del mercantilismo, poi affermatasi con il fiorire della governamentalità liberale e infine fondantesi sulla concezione scientifica della vita come «processo naturale dotato di regolarità» (p. 165), fenomeni del tutto estranei ai greci del IV secolo a.C.
Nel terzo capitolo Marzocca affronta un’ulteriore tesi che assegna portato metastorico al concetto di biopolitica. Si tratta di quella, notoriamente difesa da Giorgio Agamben e di molto eterodossa rispetto alla concezione foucaultiana, per cui la sovranità abbia già da sempre di per sé un nucleo biopolitico. Per Agamben, infatti, la stessa scissione classica tra zoé e bìos – nuda vita e vita qualificata – rinvia alla capacità del potere sovrano di politicizzare e qualificare la vita biologica dei soggetti, descrivendo dunque un perimetro biopolitico coincidente con il politico stesso. Questa vocazione biopolitica della sovranità diverrebbe evidente, secondo Agamben, nel momento in cui questa sospende l’ordinamento normale proclamando lo stato d’eccezione, situazione nella quale il soggetto viene rimandato all’estrema alternativa in cui ne va della sua sopravvivenza o della sua soppressione, svelando l’originaria cattura della nuda vita nel dispositivo sovrano. Se Marzocca ancora una volta rifiuta tale concezione metastorica della biopolitica è perché essa rischia di risultare, paradossalmente, priva di storia. In primo luogo, legare in modo tanto stretto sovranità e biopolitica può far perdere di specificità alla successione delle evoluzioni storiche del rapporto tra individuo e potere (p. 174); inoltre, la sovrapposizione di sovranità e biopolitica fa sfumare il decisivo apporto del discorso scientifico moderno per l’implementazione di pratiche biopolitiche. Sulla scorta delle concezioni foucaultiane sulla stretta correlazione tra saperi e poteri, Marzocca evidenzia che l’interpretazione agambeniana della biopolitica ignora che questa non sarebbe stata possibile senza forme di sapere storicamente ben situate come quelle della biomedicina, dell’economia politica e della Polizeiwissenschaft (p. 180). Agamben, prosegue Marzocca, ha ragione nel diagnosticare l’esplosione di pratiche biopolitiche in età contemporanea, ma queste non sono, come egli crede, conseguenza della sempre più accentuata compenetrazione di stato d’eccezione e ordinamento – vale a dire come «perennizzazione» dello stato d’eccezione, quindi ancora all’interno della struttura della sovranità – bensì l’esito dell’espansione di pratiche governamentali biopolitiche al di fuori del campo della sovranità, risultato di processi come deterritorializzazione, globalizzazione, destatalizzazione e, in definitiva, del progressivo affermarsi del neoliberismo (pp. 182-183).
S’impone dunque, se si vuole comprendere la specificità della nostra contemporaneità biopolitica, la necessità di sistematizzare il rapporto tra zoé e bìos in modo diverso rispetto a quanto fatto da Agamben. Ciò può avvenire, secondo Marzocca, mediante il riferimento all’ethos come ambito terzo rispetto al dualismo zoé/bìos per come descritto da Foucault nel corso del 1980-1981, Soggettività e verità. In una delle sue lezioni il pensatore francese riflette su questi due termini affermando che il secondo di essi andrebbe letto non come vita qualificata, à la Agamben, ma da qualificarsi, ovvero come ambito di un’elaborazione che prevede delle pratiche di cura di sé in un processo di soggettivazione. Insomma, per Foucault il bìos è lo spazio di una vita che cerca di qualificarsi eticamente, «mediante pratiche di formazione e trasformazione, ovvero di governo di sé» (p. 194). Merito di questo saggio di Marzocca è quello di permetterci di porre sotto la lente il legame tra pratiche di governo, e tra di esse quelle di tipo biopolitico, e modificazione etica dei soggetti. Questo testo mette in evidenza che tanto per la biopolitica, quanto per la resistenza ad essa ne va della soggettività – vale a dire del modo in cui diviene possibile “condurre delle condotte” mediante una precisa razionalità governamentale, i suoi saperi e le sue pratiche economiche.
Il quarto capitolo del saggio, dedicato a una ricostruzione storica della formazione del welfare state, rappresenta un ottimo esempio dell’implicazione etica sottesa alla governamentalità liberale e alla biopolitica. Ancora sulla scorta di Foucault, Marzocca mostra che la posta in gioco etica di questo modello governamentale diviene evidente, in primo luogo, nell’assunzione da parte della famiglia di una posizione strategica decisiva per le pratiche di governo. La famiglia diviene infatti nel XVIII secolo il medium delle misure biopolitiche che hanno per oggetto l’insieme della popolazione – quelle legate alla natalità, al matrimonio, alle vaccinazioni. Inoltre, essa svolge un compito di carattere etico nel momento in cui si fa tramite di modelli di comportamento adatti alla razionalità economica liberale che in quel periodo andava costituendosi. La conduzione etica della popolazione troverà però il suo punto d’anchrage nella progressiva attenzione che da Malthus in poi viene portata alla demografia e, in particolare, ai problemi legati alla sovrappopolazione e alle condizioni delle classi più povere. Che la posta in gioco fosse fondamentalmente etica è già evidente nello stesso Malthus e nelle prime associazioni filantropiche le quali proponevano, come soluzione al problema della crescita diseguale della popolazione e delle risorse, campagne di moralizzazione votate al diffondere la morigeratezza sessuale e l’attitudine al risparmio presso le classi lavoratrici.
Sarà questo stesso modello a generalizzarsi nel corso del XIX secolo, dopo il passaggio intermedio delle assicurazioni private proprie del secolo precedente, con la nascita dei primi sistemi previdenziali. È in questa situazione che – secondo la ricostruzione dello storico e sociologo francese Jacques Donzelot, citato lungamente da Marzocca – viene inventato l’ambito autonomo del sociale, dimensione terza rispetto alla politica e all’economia, foriera di un diritto a lei proprio: quello che si esprime nei provvedimenti statali contro gli infortuni sul lavoro, la disoccupazione, la malattia, la vecchiaia, la disabilità, insomma di quell’area biopolitica d’intervento per cui ora lo Stato si forgia gli strumenti adatti. Questo modello, generalizzatosi dopo la Seconda guerra mondiale nel welfare state dei Trenta gloriosi, radicalizza la medicalizzazione già in atto nei precedenti modelli di previdenza sociale e inverte, come nota Foucault, il rapporto tra individuo e Stato. La biopolitica liberale dei decenni precedenti investiva l’individuo al fine di massimizzarne le forze a profitto dello Stato; ora è invece lo Stato a mettersi al servizio del cittadino, garantendo cure mediche gratuitamente in un’ottica di redistribuzione della ricchezza (p. 224). Marzocca, tuttavia, è lontano dal descrivere questo modello in toni trionfalistici. Non solo esso, al di sotto della pretesa universalità, esclude le fasce marginali della popolazione e ha forti squilibri territoriali ma, ancora citando Foucault, esso si lascia sfuggire quelle soggettività che non aderiscono ad un certo modo di vita: quello del lavoratore salariato e padre di famiglia. Insomma, a emergere è ancora una volta il portato etico della nostra razionalità economica. Promuovendo nel singolo lavoratore e nella sua famiglia un approccio auto-imprenditoriale alla propria esistenza e ai comportamenti riproduttivi (in termini di possibilità di istruzione per i figli, assegni familiari, fino all’attenzione al patrimonio genetico), il welfare state ha posto da sé le basi per il suo superamento in senso neoliberale (p. 232).
Ad essere oggetto del quinto capitolo sono le conseguenze di questo superamento. La crisi del welfare, innescata sul finire degli anni Settanta dal progressivo aumentare delle rivendicazioni in materia di sicurezza sociale e dalla contemporanea globalizzazione delle logiche del libero mercato, ha costituito il brodo di coltura per la diffusione del neoliberismo: «la crescente domanda di salute che lo stesso welfare state sembra aver generato storicamente può essersi rafforzata ulteriormente confluendo in un processo di infinita medicalizzazione dell’esistenza dell’individuo medio, che ha assunto anche il carattere di una progressiva privatizzazione della cura della vita, coerente con le logiche stesse del mercato globale» (p. 256). Ciò ha significato, in primo luogo, l’assunzione di un ruolo primario nella medicina contemporanea da parte della biologia molecolare e della genetica; inoltre, la medicina si è legata in modo ancora più stretto a dinamiche di commercializzazione; da ultimo, questo è stato il periodo che ha visto l’accentuazione di un approccio individualizzato e familiarizzato al benessere fisico e psichico (p. 257). La biomedicalizzazione e l’attenzione alla genetica divengono, insomma, la cifra biopolitica del nostro tempo, elementi perfettamente integrabili alla razionalità economica neoliberale che punta a minimizzare i rischi: non si tratta più in primo luogo di curare le malattie in atto, ma di scongiurare quelle eventuali attraverso la valutazione del proprio corredo genetico. Ancora una volta, ad essere posta sotto la lente è la modificazione che questi processi operano sulla condotta soggettiva degli individui, come dimostra ad esempio la nozione di responsabilità genetica. È a questo punto che Marzocca contrappone due diverse interpretazioni di queste modificazioni biopolitiche del nostro rapporto con la genetica e con la medicina. Da un lato viene riportata la tesi di Niklas Rose secondo cui queste trasformazioni non sono di per sé negative e che non andrebbero ostacolate, essendo queste delle pratiche biopolitiche che migliorano la qualità della vita e che, data la loro individualizzazione e appartenenza a un orizzonte liberale, scongiurano il pericolo del riaffermarsi di una tanatopolitica di stampo razzista (pp. 263-264). Marzocca non nasconde i propri dubbi sulle tesi di Rose. Non solo l’autore britannico ignora le pericolose derive razziste e autoritarie che caratterizzano in questo momento anche le democrazie liberali ma – e qui il riferimento a Melinda Cooper si rivela fondamentale – Rose non vede come il processo di biomedicalizzazione sia solidale col progressivo affermarsi delle logiche neoliberali e con un malcelato delirio di onnipotenza riguardo la capacità della genetica di generare e modificare la vita (p. 288). Inoltre, Cooper permette di porre sotto la lente il significato ecosistemico delle crisi biopolitiche, mostrando come deregulation neoliberale, globalizzazione e sfruttamento dell’ambiente favoriscano il nascere e il diffondersi di nuove malattie infettive (pp. 302-305).
A questo punto ritroviamo uno degli aspetti più interessanti del saggio di Marzocca, vale a dire la messa in relazione di queste problematiche biopolitiche con l’ecologia della mente di Gregory Bateson. Tramite questo riferimento, Marzocca mostra i limiti del considerare l’ambiente naturale come esterno rispetto alla popolazione che lo abita, e dunque disponibile ad uno sfruttamento economico illimitato. Contro le prospettive ecologiche basate sull’energia e sull’organico, Bateson propone invece di considerare come queste interagiscono sistematicamente con la mente, permettendo in questo modo di pensare l’ecologia politicamente e a partire da un investimento di tipo etico. La discussione delle tesi di Bateson occupa per Marzocca un posto strategico di primo piano perché questo consentono di gettare un ponte tra bìos ed ethos, evidenziando il passaggio dall’uno all’altro e il ruolo dei processi di soggettivazione, decisivi per la determinazione di modalità di rapportarsi con l’ambiente in cui questo non viene descritto a partire da categorie antropocentriche. Si tratta, secondo Marzocca, di un angolo prospettico del tutto paragonabile a quello che Foucault assume nelle sue opere maggiormente focalizzate sull’etica – quelle risalenti agli anni Ottanta – in cui la questione della biopolitica viene scalzata da quella, più profonda e fondamentale, dell’ethos come posta in gioco del governo e, più in generale, del potere (p. 343). Da qui il compito, tesi principale del saggio di Marzocca, di ripensare il modo umano di abitare il mondo, impegnandosi in un’etopoiesi autenticamente affrancata dal modello, oggi dominante, che vede il susseguirsi di cicli di lavoro/consumo secondo una razionalità di tipo puramente economico (p. 353).
Il testo si conclude con un’estesa analisi delle condizioni di possibilità dell’irrompere della pandemia di SARS-CoV2 e delle risposte governative al suo dilagare – un’occasione per tirare le fila di quanto espresso fino a quel momento e, insieme, esempio dei pericoli e delle problematiche che vengono evidenziate da Marzocca nel corso del suo saggio. In quest’ultimo capitolo, infatti, l’autore si concentra sulle radici eminentemente ecologiche della pandemia, legate all’inedita prossimità uomo-animale dovuta alla distruzione degli habitat naturali di molte specie. Deforestazione, intensificazione dell’agricoltura, industrializzazione e urbanizzazione provocano non solo il continuo contatto tra essere umano e nuovi microrganismi, ma anche facilitano e accelerano la trasmissione a livello globale degli agenti patogeni. La risposta al progressivo aumentare di questi rischi biologici è stata l’implementazione di una rete di sorveglianza preventiva globale, qualificata da Marzocca in tutto il suo portato biopolitico, la quale però tradisce l’assenza di visione di più ampio respiro sui problemi sistemici del nostro modello di sviluppo (p. 392). Ignorare la possibilità di modificare il nostro approccio all’ambiente non può che significare allora la rassegnazione a una governamentalità biopolitica di tipo emergenziale e a una perpetua sorveglianza (p. 380), il cui scacco è diventato evidente proprio con la pandemia e il fallimento delle politiche di previsione e tracciamento. Allora, secondo Marzocca, la soluzione alla proliferazione di rischi biologici non va ricercata nelle stesse pratiche che la inducono – la distruzione dell’ambiente e la biomedicalizzazione di stampo neoliberale. Ciò che si deve tentare è, per l’autore, trarre tutte le conseguenze da ciò che ha mostrato la pandemia tra il 2020 e il 2021: pensare il ruolo dell’essere umano nel mondo e la sua sopravvivenza sul modello binario della popolazione o dell’individuo non fa che rimandare, sebbene da due punti di vista diversi, a una concezione ancora antropocentrica del nostro rapporto con la natura. Il nostro compito è quello di spingere i limiti del nostro pensiero al di là questa alternativa biopolitica (p. 418).
Sulla copertina di questo saggio è riportato un particolare di un’opera di Jan Brueghel il Vecchio. Il dipinto rappresenta una scena del Vangelo in cui Gesù, insieme ai suoi discepoli, affronta una tempesta sul Lago di Tiberiade. La composizione cattura il tumulto del mare agitato e l’ansia dei discepoli mentre cercano aiuto da Gesù, che dorme tranquillamente sulla barca. «Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: “Salvaci, Signore, siamo perduti!”. Ed egli disse loro: “Perché avete paura, uomini di poca fede?”. Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia» (Matteo, 8, 25-26). Da duecento anni a questa parte chiediamo alla biopolitica di levarsi e sgridare i venti e il mare – di fornire assicurazione da tutto ciò che, nella natura, attenta alle nostre forze e alla nostra salute. La narrazione dei suoi insuccessi, come evidenziato da Marzocca in questo saggio, dovrebbe spingerci a sollevare interrogativi sulla reale possibilità di governare la vita, sulle nostre illusioni di una completa sicurezza, sugli effetti perversi della nostra razionalità economica.
Alessio Porrino
N.d.C. - Alessio Porrino (1996) sta perseguendo un dottorato di ricerca in Teorie e Storia delle Istituzioni e del Governo presso l’Università di Salerno. Ha svolto un periodo come visiting Ph.D. student all’Université de Paris-Nanterre sotto la supervisione di Judith Revel. La sua ricerca si concentra sulle diverse modalità con cui la violenza è stata concettualizzata nella filosofia francese contemporanea, focalizzandosi in particolare sulla produzione di Michel Foucault. Si è inoltre occupato del rapporto tra politica e temporalità nell'opera di Walter Benjamin e dell’evoluzione della figura del soldato nelle guerre del XXI secolo.
Sui libri di Ottavio Marzocca, v. anche: Luisa Bonesio, Dall’uso-consumo all’uso-cura del mondo (2 luglio 2021); Paolo Castoro, Biopolitica e mondo comune (29 ottobre 2021).
Di Ottavio Marzocca, v. in questa rubrica: Firenze: volumi zero, si fa per dire (2 dicembre 2016); L’ambiente dell’uomo e l’indifferenza di Gaia (16 settembre 2021).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 02 FEBBRAIO 2024 |
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M. Brusatin, Parlare al non-finito & altro, commento a: L. Crespi, Design del non-finito (Postmedia, 2023)
H. Porfyriou, L'urbanistica tra igiene, salute e potere, commento a: G. Zucconi, La città degli igienisti (Carocci, 2022)
G. Strappa, Ogni ricostruzione è progetto, note a partire a: E. Bordogna, T. Brighenti, Terremoti e strategie di ricostruzione (LetteraVentidue, 2022)
L. Bifulco, Essere preparati: città, disastri, futuro, commento a: S. Armondi, A. Balducci, M. Bovo, B. Galimberti (a cura di), Cities Learning from a Pandemic: Towards Preparedness (Routledge, 2022)
A. Bruzzese, Una piazza per ogni scuola, commento a: P. Pileri, C. Renzoni, P. Savoldi, Piazze scolastiche (Corraini, 2022)
C. Sini, Più che l'ingegnere, ci vuole il bricoleur, commento a: G. Pasqui, Gli irregolari (FrancoAngeli, 2022)
G. De Luca, L'urbanistica tra politica e comorbilità, commento a: M. Carta, Futuro (Rubbettino, 2019)
F. Erbani, Una linea rossa per il consumo di suolo, commento a: V. De Lucia, L’Italia era bellissima (DeriveApprodi, 2022)
F. Ventura, L'urbanistica fatta coi piedi, commento a: G. Biondillo, Sentieri metropolitani (Bollati Boringhieri, 2022)
E. Battisti, La regia pubblica fa più bella la città, commento a: P. Sacerdoti, Via Dante a Milano (Gangemi, 2020)
G. Nuvolati, Emanciparsi (e partecipare camminando), commento a: L. Carrera, La flâneuse (Franco Angeli, 2022)
P. O. Rossi, Zevi: cinquant'annidi urbanistica italiana, commento a: R. Pavia, Bruno Zevi (Bordeaux, 2022)
C. Olmo, La memoria come progetto, commento a: L. Parola, Giù i monumenti? (Einaudi, 2022); B. Pedretti, Il culto dell’autore (Quodlibet, 2022); F. Barbera, D. Cersosimo, A. De Rossi (a cura di), Contro i borghi (Donzelli, 2022)
A. Calafati, La costruzione sociale di un disastro, commento a: A. Horowitz, Katrina. A History, 1915-2015 (Harvard University Press, 2020)
B. Bottero, Città vs cittadini? No grazie, commento a: M. Bernardi, F. Cognetti e A. Delera, Di-stanza. La casa a Milano (LetteraVentidue, 2021)
F. Indovina, La città è un desiderio, commento a: G. Amendola, Desideri di città (Progedit, 2022)
A. Mazzette, La cura come principio regolatore, F. C. Nigrelli (a cura di), Come cambieranno le città e i territori dopo il Covid-19 (Quodlibet Studio, 2021)
P. Pileri, La sostenibilità tradita ancora, commento a: L. Casanova, Ombre sulla neve. Milano-Cortina 2026 (Altreconomia, 2022)
A. Muntoni, L'urbanistica, sociologia che si fa forma, commento a: V. Lupo, Marcello Vittorini, ingegnere urbanista (Gangemi, 2020)
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