Ottavio Marzocca  
  casa-della-cultura-milano      
   
 

L'AMBIENTE DELL'UOMO E L'INDIFFERENZA DI GAIA


Commento al libro di Alberto Magnaghi



Ottavio Marzocca


altri contributi:



  ottavio-marzocca-ipotesi-gaia.jpg




 

Uno degli intenti che Alberto Magnaghi si propone nel suo Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020) è di sistemare i risultati raggiunti nel suo lungo percorso di ricerca-azione attorno all'importanza imprescindibile che – secondo lui – le nostre società dovrebbero attribuire al territorio. In questo suo sforzo l'autore, fra l'altro, chiarisce in maniera efficace le motivazioni di questa necessità.

L'argomento più rilevante in tal senso deriva dalla teoria ben nota della cosiddetta ipotesi Gaia, della quale Magnaghi rimarca alcune drammatiche implicazioni generalmente sottovalutate. Questa teoria – come si sa – concepisce il nostro pianeta come sistema dominato da una biosfera capace, nel suo complesso, di rigenerarsi evolutivamente interagendo in modo dinamico con l'ambiente fisico e chimico. Ciò che l’autore pone in luce assumendo questa teoria è che la biosfera, nonostante le alterazioni ambientali, anche irreversibili, provocate dall’uomo, è in grado di riprodursi complessivamente, ritrovando nuovi equilibri anche a danno dell’ambiente dell’uomo e della sua sopravvivenza; perciò egli ne deduce che oggi la vera urgenza posta dalla crisi ecologica non è la salvezza della Terra o della Natura, ma la «salute dell'ambiente dell'uomo», che è sostanzialmente un problema secondario per i processi mediante i quali la biosfera riesce comunque a rigenerarsi (p. 90).

Richiamare questa lettura che Magnaghi ci propone della teoria elaborata da James Lovelock e Lynn Margulis è importante almeno per una ragione: malgrado venga ritenuta perlopiù ecologicamente "rivoluzionaria", questa teoria è segnata da una notevole ambiguità; essa può indurre facilmente a un certo fatalismo snobistico se si aderisce all'idea che la questione ecologica sia un problema riguardante semplicemente il "pianeta"; più o meno consapevolmente, infatti, da un lato ci si può persuadere che in fondo la maggior parte dei processi che provocano inquinamento e degrado ambientale rientrino fra le "normali" mutazioni che la natura e la terra hanno sempre subìto, riuscendo comunque a garantire la perpetuazione e la rigenerazione della vita; dall'altro, si può sempre sostenere che, in mancanza di incrollabili certezze scientifiche su processi complessi per definizione, non si debba dare per scontato che le alterazioni ambientali davvero pericolose siano quelle che vengono denunciate più clamorosamente, come accade in particolare nel caso dell'inquinamento industriale. Infatti, proprio riferendosi a questo tipo di inquinamento, Lovelock nel suo libro più famoso scrive: «il fatto è che siamo stati portati a cercare problemi nei posti sbagliati» (1).

Ovviamente, dall'ipotesi Gaia possono essere ricavate altre possibilità rispetto a quella di deresponsabilizzarsi completamente nei confronti della crisi ecologica; come fa Magnaghi, si può "scommettere" che sia l'umanità – non semplicemente come specie, ma anche come molteplicità di individui, società e comunità – ad essere oggetto di precise minacce ecologiche divenute ormai gravissime nella nostra epoca. Il che, dal suo punto di vista, implica la necessità di considerare non soltanto i tempi "geologici" in cui si svolge l'evoluzione della vita, ma anche le temporalità specifiche dei processi di antropizzazione della terra. Ed è in quest'ambito che – secondo lui – occorre cogliere l'importanza del corso dei millenni in cui l'uomo è riuscito a trovare nel territorio la strutturazione del suo ambiente più duratura e favorevole alla propria sopravvivenza, basandola su precise forme di alleanza con la natura o – se si preferisce – con la biosfera. Insomma, collocando la crisi ecologica in un quadro come questo, secondo l'autore, si sarà costretti a riconoscere che in effetti essa è una crisi che riguarda innanzitutto l'uomo, poiché oggi è il territorio ad essere oggetto di aggressioni continue.

Certo, si potrà obiettare legittimamente che così si finisce per riprodurre l'antropocentrismo da cui una visione ecologica dovrebbe rifuggire. Ma in realtà, dal punto di vista di Magnaghi, la questione si pone diversamente: se si vuole superare l'antropocentrismo, occorre cominciare a indebolirlo dal suo interno riscoprendo e riproducendo in forme aggiornate il territorio in quanto modo sostenibile di abitare il mondo, che l'uomo ha saputo praticare come tale prima di convincersi di poter prescindere dalla complessità ecosistemica dei luoghi in cui vive. Perciò è importante il chiarimento – tanto netto, quanto opportuno – che il nostro autore ci propone distinguendo la sua visione da quelle più abusate del territorio.

Se questo dev'essere riscoperto come ambiente dell'uomo, certamente non può essere identificato né con lo spazio della sovranità dello Stato, né con il contesto fisico che un animale rivendica come "proprio" moltiplicandovi i segni della sua presenza, né con la spazialità della quale l'urbanistica definisce e regola gli usi possibili. La formula più sintetica che Magnaghi ci propone in alternativa a queste accezioni è quella del territorio come «prodotto dinamico del processo di coevoluzione di lunga durata fra insediamento umano e ambiente naturale» (p. 44). In questo senso un territorio si definisce «nel tempo lungo di diversi cicli di territorializzazione» attraverso successive trasformazioni che ricostituiscono di volta in volta le relazioni fra componenti naturali e artificiali di un luogo, le quali tengono in vita il territorio stesso e garantiscono in modo permanente condizioni apprezzabili di esistenza per i suoi abitanti (pp. 43-46). Di qui la necessità di riconoscere che un territorio non può essere identificato neppure con una località definita dal rapporto privilegiato che una comunità di autoctoni intratterrebbe con essa. I veri garanti della sussistenza di un territorio sono coloro che non si comportano da possessori esclusivi, ma da abitanti-custodi di luoghi di cui si prendono cura tessendo e ritessendo i rapporti fra mondo artificiale e contesti naturali (p. 88).

Ponendosi da una angolatura simile, dunque, si potrà comprendere che – proprio in quanto ambiente vitale dell'uomo – il territorio è divenuto da molti decenni bersaglio privilegiato delle crescenti alterazioni ecosistemiche provocate dall'uomo stesso. Le società umane ormai devastano gli ecosistemi in cui vivono innanzitutto attraverso la distruzione dei propri territori; ma – sostiene Magnaghi – se gli ecosistemi, presto o tardi, trovano il modo di rigenerarsi in forme diverse, i territori possono essere mantenuti in vita solo mediante la cura dell'uomo, poiché nessun meccanismo naturale ne garantisce la permanenza.

 

L'autore ha completato la stesura del suo libro poco prima che esplodesse la pandemia da Covid-19. Ma – come scrive nel Post scriptum – ha rinunciato a riprendere in mano il suo lavoro ormai concluso per aggiungervi qualche valutazione inevitabilmente sommaria sull'evento (2). Questo, tuttavia, non impedisce al lettore di riconoscere che la maggior parte delle devastazioni ambientali che hanno contribuito a creare le condizioni della pandemia hanno a che fare con la distruzione del territorio. Che cos'altro si può dire infatti dell'urbanizzazione illimitata, della deforestazione, dell'estrattivismo dilagante, dell'espansione senza limiti dell'agricoltura e degli allevamenti industriali, e così via? In realtà, a questo riguardo si può aggiungere che la consapevolezza del peso che questi processi hanno nel trasformare il nostro pianeta in un gigantesco focolaio di spillover pandemici è maturata da tempo in ambiti sia scientifici che politici; ma, paradossalmente, il fatto che per lo più tali processi vengano presentati come fattori di una crisi ecologica "globale" sembra ridurre immediatamente al minimo le possibilità di tenerne conto per promuovere il loro arresto e la loro inversione; essi in tal modo vengono estrapolati dalle località terrestri in cui hanno origine e trasformati di fatto in questioni immani e ineluttabili delle quali finisce per sentirsi incolpevole persino chi maggiormente le provoca.

C'è un ben noto fenomeno strettamente legato a questi processi che da decenni subisce chiaramente questa sorte. Si tratta del cambiamento climatico che, malgrado l'attenzione di istituzioni nazionali e internazionali e di grandi movimenti planetari, non è mai divenuto oggetto di politiche davvero efficaci di contrasto. Magnaghi nel suo libro ci fa capire che a pregiudicare tale possibilità riguardo a questa e ad altre forme di alterazione dell'ambiente sono, da un lato, la loro definizione come problemi settoriali (nel caso specifico quello dei "gas serra"), dall'altro, la loro riconduzione a una complessiva quanto generica crisi del rapporto uomo‑natura, che le lascia comunque in una dimensione astratta rispetto ai contesti locali di vita delle società.

Sono di questo tipo le ragioni per cui – secondo l'autore – bisogna decidersi a ricollegare la questione ambientale ai processi di dissoluzione dei territori locali. Infatti, lo sforzo maggiore che egli compie nel suo libro è di delineare una prospettiva di coniugazione fra «conversione ecologica» e «trasformazione territorialista» dei nostri modi di vivere, di produrre e di agire. L'articolazione «eco-territorialista» di questa prospettiva trova il suo presupposto principale nella contestazione frontale dell'urbanizzazione infinita dello spazio terrestre: fenomeno che per Magnaghi rappresenta non soltanto il punto di convergenza della maggior parte dei processi di alterazione ecosistemica del pianeta, ma anche la sintesi più concreta delle diverse forme di aggressione al territorio che li sottende. Due concetti riassumono i termini di questo fenomeno, secondo l'autore: deterritorializzazione e despazializzazione (pp. 41-42, 51-53). Con il primo egli intende la riduzione dei territori a mera spazialità funzionale allo sviluppo metropolitano; con il secondo si riferisce invece all'irrilevanza a cui la stessa spazialità materiale dei luoghi deterritorializzati viene destinata mediante la digitalizzazione e la virtualizzazione telematica delle principali attività e relazioni economiche, sociali e politiche.

Se riguardo al concetto di deterritorializzazione non è difficile comprendere il senso in cui si può dire che la crescita delle metropoli e delle megalopoli deterritorializzi il mondo distruggendo le peculiarità storico-ambientali dei luoghi, riguardo all'idea di despazializzazione è opportuno aggiungere qualcos'altro seguendo Magnaghi: le città globali contemporanee contribuiscono in misura determinante alla despazializzazione del pianeta in quanto sedi principali dei centri di gestione dei flussi telematici di informazioni, transazioni, investimenti e disinvestimenti finanziari, che travalicano incessantemente le realtà spaziali concrete. D'altra parte, in quanto poli giganteschi di attrazione di funzioni materiali al servizio dell'economia globalizzata (dai business district agli hub logistici) le grandi regioni metropolitane producono intrecci vorticosi di de-territorializzazione, de-spazializzazione e ri-spazializzazione atopica e privatistica della terra, compromettendo così la possibilità di riattivare l'alternanza ciclica fra territorializzazione, deterritorializzazione e riterritorializzazione, che ha potuto caratterizzare le epoche passate (pp. 53-55).

 

Altri due concetti chiave è utile far emergere dal discorso di Magnaghi a questo punto: quelli di esodo e contro-esodo. Il primo corrisponde ai grandi processi migratori che non hanno mai cessato di confluire verso le concentrazioni urbane accrescendone progressivamente le dimensioni e lasciando dietro di sé abbandono o immiserimento degli insediamenti di provenienza legati soprattutto alle economie agricole locali; si tratta di processi che – innescati in epoca proto-moderna dalle enclosures e dall'espulsione dalle campagne dei contadini poveri – nel ventesimo secolo hanno portato la crescita della città‑fabbrica occidentale fino ai massimi livelli e negli ultimi decenni hanno rigonfiato a dismisura le città post-metropolitane del nord e le megaregioni urbane del sud e dell'est del mondo (pp. 68-80).

Tra gli esiti che Magnaghi evidenzia di queste tendenze c'è la sostanziale dissoluzione delle relazioni che la città nella sua storia ha comunque intessuto e mantenuto con i contesti rurali del proprio territorio. L'affermarsi della città come forma paradigmatica di insediamento non ha portato necessariamente al misconoscimento di queste relazioni; anche quando – con la nascita del capitalismo commerciale – la città è sembrata svincolarsi dal mondo agricolo per dedicarsi alacremente alle attività manifatturiere e mercantili, essa in realtà si è affrancata dai rapporti feudali che pesavano sulla campagna, senza recidere i legami con questa: di fatto la città ha continuato a lungo a trattare il proprio contado come parte essenziale dell'ecosistema che ne garantiva i mezzi di nutrimento (pp. 74-75). Il rapporto fra città e campagna è stato compromesso, piuttosto, dai processi di urbanizzazione infinita che – esplosi definitivamente nel ventesimo secolo – oggi raggiungono proporzioni mai viste.

Il concetto di controesodo invece nel discorso di Magnaghi indica il complesso di fenomeni che, sia pure discretamente, da qualche tempo tendono a invertire la relazione gerarchica fra concentrazioni urbane e aree periferiche (pp. 85-107). Se la nostra è ancora un'epoca interessante, infatti, è anche perché vi si esprimono presenze sociali che credono sempre meno nella potenza emancipativa della metropoli. Si tratta di vecchi e nuovi agricoltori, montanari, abitanti di città piccole e medie, che riscoprono attivamente le peculiarità storico-ecologiche dei luoghi che la metropoli ha emarginato e rivalutano la sostenibilità delle loro vocazioni produttive; ma si tratta anche di cittadini attivi nella riconquista collettiva e nella rigenerazione sostenibile di quei beni comuni che sono gli spazi metropolitani dismessi, degradati o esposti alla privatizzazione.

In effetti, se pensiamo al ruolo scatenante che le megaregioni urbane hanno avuto nel rendere catastrofiche le conseguenze della pandemia da Covid-19, oggi possiamo percepire chiaramente i segnali di un divenire epocale di tendenze di questo tipo. Ma Magnaghi, da parte sua, ci fa comprendere che esse hanno motivazioni anche meno contingenti: in particolare, secondo lui, il dilagare di forme di lavoro individualizzate, precarizzate, parcellizzate e sottoposte al predominio della comunicazione immateriale, fa emergere da tempo «la coscienza dello spaesamento, (...) che tende a ricostituirsi in coscienza di luogo» (p. 87).

 

È in una cornice di questo tipo che il nostro autore colloca la sua prospettiva strategica del «ritorno al territorio». Questo ritorno dovrà basarsi sul ruolo di "avanguardia" delle comunità, delle attività produttive e delle progettualità politiche che ridanno spessore e complessità eco-territoriale a insediamenti, luoghi e contesti penalizzati dalla deterritorializzazione e dalla despazializzazione postmoderna. A tal proposito un ultimo concetto chiave del discorso di Magnaghi va posto in luce: quello di bioregione urbana. Si tratta di una nozione che aggiorna e supera le visioni della bioregione come formazione geografica in cui è il "funzionamento" dei sistemi naturali a dettare le regole alle quali occorrerebbe ricondurre i comportamenti umani; l'autore lega piuttosto la sua visione bioregionalista alla «definizione del territorio come sistema vivente ad alta complessità composto di neoecosistemi e prodotto dai processi coevolutivi fra insediamento umano e ambiente». Da questo punto di vista la natura si presenta sempre come già trasformata, in misura più o meno profonda ed estesa, «in paesaggi antropizzati (urbani, metropolitani, rurali) viventi» (p. 146). Di conseguenza il riconoscimento delle relazioni fra diverse consistenze di insediamenti antropici e ambienti naturali è imprescindibile per la messa a fuoco non solo della specifica configurazione di una bioregione, ma anche della sua «biocapacità territoriale»; vale a dire delle possibilità differenti che, a seconda dei casi, le varie bioregioni eco-antropiche offrono sia alla vita dei loro abitanti umani sia a quella delle altre entità viventi di riprodursi in modi non problematici (pp. 146-151).

La prospettiva politico-progettuale che Magnaghi elabora su queste basi implica necessariamente la promozione del policentrismo urbano da perseguire, da un lato, dando nuova dignità e funzioni paritarie alle città piccole e medie, dall'altro, scomponendo e articolando la dimensione metropolitana secondo una logica municipale. Questa prospettiva inoltre comprende l'esigenza generale di riconnettere, alle diverse scale, «le urbanizzazioni contemporanee al proprio territorio rurale, l'unico in grado, con le molte funzioni cui può assolvere, di nutrire la città, di riprodurre il metabolismo urbano a livello di bioregione urbana e di elevare la qualità della vita urbana producendo servizi ecosistemici» (p. 167). Qui, evidentemente, l'attenzione al territorio rurale non comporta la contrapposizione della ruralità all'urbanità; il contesto rurale, d'altra parte, va inteso in un'accezione ampia e complessa, poiché non corrisponde a una visione strettamente agricola dello spazio extra-urbano; il rilievo che esso deve assumere implica, fra l'altro, «il neopopolamento agro-silvo-pastorale dei sistemi collinari e montani», e la loro «cura idro-geologica per affrontare la crisi climatica...» (p. 204). Infine, un compito a cui occorre rispondere è di arrestare e invertire lo scivolamento verso la pianura delle aggregazioni insediative che storicamente sono state a lungo distribuite sui diversi livelli della geomorfologia dei territori. È in pianura, infatti, che la metropoli trova le condizioni per espandersi senza criterio e per dimenticarsi dei mondi che la circondano.

Una notazione su questi aspetti del discorso di Magnaghi sembra opportuna. Fra le relazioni bioregionali da ricostituire, uno spazio adeguato bisognerebbe assegnare anche a quelle corrispondenti alla vocazione marinara – o anfibia – che in casi fin troppo noti la città ha espresso storicamente e ancora esprime. "Anche il mare vuole la sua parte" si potrebbe dire con una battuta un po' rozza che, tuttavia, Magnaghi ha già mostrato di saper comprendere (3).

Di certo la rigenerazione del rapporto bioregionale fra la dimensione urbana e quella extra-urbana, su cui l'autore insiste, fa tutt'uno con la necessità di marcare precisamente i confini tra l'una e l'altra, ossia con la netta limitazione del "diritto" della prima a invadere la seconda. Si tratta di un'indicazione del tutto estranea alle logiche di zonizzazione della vecchia – e dura a morire – urbanistica funzionale. Essa, piuttosto, va nella direzione del mantenimento di quelle caute relazioni-distanze fra gli insediamenti umani e gli ambienti delle altre specie viventi, che la megalopoli contemporanea ha fatto saltare del tutto, ponendo gli spillover pandemici fra le probabilità più angosciose della nostra epoca.

Ottavio Marzocca

 

 

 

Note:

1) J. E. Lovelock, Gaia. Nuove idee sull'ecologia, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 135; altro testo fondamentale sull'ipotesi Gaia è J. E. Lovelock, L. Margulis, Atmospheric Homeostasis by and for the Biosphere: the Gaia Hypothesis, "Tellus", 26, 1-2 (1974), pp. 2-10; sulle "ambiguità" di questa teoria si veda M. Cooper, Life as Surplus: Biotechnology & Capitalism in the Neoliberal Era, University of Washington Press, Seattle and London 2008, pp. 35-36.

2) Dopo l'uscita del libro, la Società dei Territorialisti e delle Territorialiste – di cui Magnaghi è fondatore – ha pubblicato un numero speciale sulla pandemia della sua rivista: Abitare il territorio al tempo del Covid, a cura di A. Marson e A. Tarpino, "Scienze del territorio", numero speciale, 2020.

3) Mi riferisco al pregevolissimo lavoro svolto dall'autore per il Piano paesaggistico della regione con la costa marittima più lunga fra quelle delle regioni peninsulari italiane. Cfr. A. Magnaghi, Il PPTR della Puglia e i progetti di valorizzazione del paesaggio per la qualità dello sviluppo, in AA.VV., Patrimoni culturali e paesaggi di Puglia e d'Italia tra conservazione e innovazione, a cura di G. Volpe, Edipuglia, Bari 2014, pp. 175-202.

 

 

 

N.d.C. - Ottavio Marzocca insegna Filosofia Etico-politica ed Etica e Politica del Mondo Comune all’Università di Bari.

Tra i suoi libri: Biopolitics for Beginners. Knowledge of Life and Government of People (Mimesis International, 2020); Il mondo comune. Dalla virtualità alla cura (Manifestolibri, 2015 e 2019); Foucault ingovernabile. Dal bios all’ethos (Meltemi, 2016); Il governo dell’ethos. La produzione politica dell’agire economico (Mimesis, 2011); Perché il governo. Il laboratorio etico-politico di Foucault (Manifestolibri, 2007); Transizioni senza meta. Oltremarxismo e antieconomia (Mimesis, 1998); La stanchezza di Atlante. Crisi dell’universalismo e geofilosofia (Dedalo, 1994); Filosofia dell’incommensurabile. Temi e metafore oltre-euclidee in Bachelard, Serres, Foucault, Deleuze, Virilio (Franco Angeli, 1989).

Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: Giuseppe Dematteis, Il territorio tra coscienza di luogo e di classe (5 febbraio 2021); Giancarlo Consonni, La coscienza di luogo necessaria per abitare (12 marzo 2021); Renzo Riboldazzi, Fare politica con l’urbanistica (e viceversa) (14 maggio 2021); Pancho Pardi, Dal territorio una nuova democrazia (30 luglio 2021).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri

R.R.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

16 SETTEMBRE 2021

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti
Filippo Maria Giordano
Federica Pieri

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
2021: programma/1,2,3,4
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021:

G. Consonni, Il passato come risorsa del progetto, commento a: A. Lanzani, Cultura e progetto del territorio e della città (FrancoAngeli 2020)

F. Indovina, Urbanistica? Bologna docet, commento a: R. Scannavini, Al centro di Bologna, 1965-2015 (Costa Editore, 2020)

S. Brenna, È questa l’urbanistica che vogliamo?, Commento a: P. Berdini, Lo stadio degli inganni (DeriveApprodi, 2020)

S. Moroni, Oltre la retorica dell’attivismo civico, commento a: C. Pacchi, Iniziative dal basso e trasformazioni urbane (Bruno Mondadori, 2020)

P. Pardi, Dal territorio una nuova democrazia, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

L. Carbonara, Riappropriarsi delle origini (di Mogadiscio), commento al catalogo della mostra curata da K. M. Abdulkadir, G. Restaino, M. Spina

C. Diamantini, La città nella tela del ragno, commento a: R. Keeton, M. Provost, To Built a City in Africa (nai010 publishers, 2019)

C. Petrognani e A. P. Oro, Paesaggi della pluralità, commento a: E. Trusiani et al. (a cura di), Paisagem cultural do Rio Grande do Sul, supplemento al n. 24/2021 di “Visioni LatinoAmericane”

E. Scandurra, Roma, e se non capitasse niente?, Commento a: W. Tocci, Roma come se (Donzelli, 2020)

G. Demuro, Custodire la bellezza insieme, commento a: G. Arena, I custodi della bellezza (Touring Club Italiano, 2020)

A. Casaglia, L'invenzione (e l'illusione) dei confini, commento a: L. Gaeta e A. Buoli (a cura di), Transdisciplinary Views on Boundaries (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2020)

R. Pugliese, Comporre nuove urbanità, commento a: A. De Rossi (a cura di), Riabitare l'Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste (Donzelli, 2018)

L. Bonesio, Dall'uso-consumo all'uso-cura del mondo, commento a: O. Marzocca, Il mondo comune (Manifestolibri, 2019)

G. Amendola, La città è fatta di domande, commento a: A. Mazzette e S. Mugnano (a cura di), Il ruolo della cultura nel governo del territorio (FrancoAngeli 2020)

C. Bianchetti, Incoraggiare rotture e nuovi germogli, commento a: Camillo Boano, Progetto Minore (LetteraVentidue, 2020)

M. Balbo, La città pensante, commento a: A. Amin, N. Thrift, Vedere come una città (Mimesis, 2020)

G. Pasqui, La ricerca è l'uso che se ne fa, commento a: P. L. Crosta, C. Bianchetti, Conversazioni sulla ricerca (Donzelli)

R.R., L'Urbanistica italiana si racconta, introduzione al video: E. Bertani (a cura di), Autoritratto di Alberto Magnaghi (Casa della Cultura 2020)

S.Saccomani, La casa: vecchie questioni, nuove domande, commento a: M. Filandri, M. Olagnero, G. Semi, Casa dolce casa? (il Mulino, 2020)

G. Semi, Coraggio e follia per il dopo covid, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei Sociologi e delle Sociologhe dell’Ambiente e del Territorio sulle Città e le Aree Naturali del dopo Covid-19, (Ledizioni, 2020)

R. Riboldazzi, Per una critica urbanistica, introduzione a: Città Bene Comune 2019 (Ed. Casa della Cultura, 2020)

M. Venturi Ferriolo, Contemplare l'antico per scorgere il futuro, commento a: R. Milani, Albe di un nuovo sentire (il Mulino, 2020)

S. Tagliagambe, L'urbanistica come questione del sapere, commento a: C. Sini, G. Pasqui, Perché gli alberi non rispondono (Jaca Book, 2020)

G. Consonni, La coscienza di luogo necessaria per abitare, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

E. Scandurra, Nel passato c'è il futuro di borghi e comunità, commento a: G. Attili – Civita. Senza aggettivi e senza altre specificazioni (Quodlibet, 2020)

R. Pavia, Roma, Flaminio: ripensare i progetti strategici, commento a: P. O. Ostili (a cura di), Flaminio Distretto Culturale di Roma (Quodlibet, 2020)

C. Olmo, La diversità come statuto di una società, commento a: G. Scavuzzo, Il parco della guarigione infinita (LetteraVentidue, 2020)

F. Indovina, Post-pandemia? Il futuro è ancora nelle città, commento a: G. Amendola (a cura di), L’immaginario e le epidemie (Mario Adda Ed., 2020)

G. Dematteis, Il territorio tra coscienza di luogo e di classe, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

M. Ruzzenenti, Una nuova cultura per il bene comune, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei sociologi e delle sociologhe dell’ambiente e del territorio sulle città e le aree naturali del dopo Covid-19 (Ledizioni, 2020)

F. Forte, Una legge per la (ri)costruzione dell'Italia, commento a: M. Zoppi, C. Carbone, La lunga vita della legge urbanistica del '42 (didapress, 2018)

F. Erbani, Casa e urbanità, elementi del diritto alla città, commento a: G. Consonni, Carta dell’habitat (La Vita Felice, 2019)

P. Pileri, Il consumo critico salva territori e paesaggi, commento a, A. di Gennaro, Ultime notizie dalla terra (Ediesse, 2018)