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1. La memoria del passato e il progetto del futuro negli articoli 9 e 41 della Costituzione oggi
Il rapporto con la bellezza e con la ricchezza del passato e della natura è reso consapevole, possibile ed è sviluppato grazie alla cultura; la ricerca; la conservazione; la tutela dell’ambiente. La recente riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione promuove un nuovo dibattito sullo sviluppo della cultura e della ricerca; sulla tutela della memoria (il patrimonio culturale ed artistico); sulla comprensione del presente e dei suoi molteplici problemi; sul progetto del futuro (l’ambiente e le prossime generazioni, la biodiversità, la transizione ecologica e quella tecnologica, troppo spesso in contrasto anziché in sinergia fra di loro). La città è emblematica a tal fine.
Occorre ripensare il rapporto fra spazio (paesaggio, territorio e ambiente) e tempo (patrimonio storico e artistico) nel contesto di crisi della globalizzazione. Nella continuità del rapporto fra memoria del passato e progettualità per il futuro, i beni cui si riferisce l’articolo 9 della Costituzione recentemente riformato – ma già nella formulazione “riduttiva” originaria – devono essere considerati beni comuni. Quei beni devono essere accessibili e salvaguardati nella prospettiva di un’economia della cultura e non in quella di un’economia di cultura, con i tagli sbrigativi alle risorse e agli strumenti o con il predominio della logica di sfruttamento. L’ambiente è arcipelago di valori spesso in conflitto fra di loro, di cui offrono una fotografia spietata l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco del 2015; la sua denunzia nel Sinodo del 2019 sull’Amazzonia; la recente Esortazione apostolica del 2023 sul disinteresse sostanziale all’ambiente e sull’inerzia dei sette anni trascorsi fra di esse, di fronte alla gravità e all’urgenza dei problemi ambientali. Quell’ammonimento – di fronte al rischio di un secondo diluvio universale di cui molti cominciano a rendersi conto – si ricollega al “Cantico” del suo omonimo Francesco di Assisi, protagonista dell’ecologia al pari di lui, novecento anni addietro.
Troppo spesso l’uso sfrenato e l’abuso presuntuoso e senza limiti delle risorse tecnologiche nell’uso e abuso delle risorse naturali – con l’orgoglio e la fiducia malriposta di sapervi comunque porre rimedio – è stato causa o concausa delle devastazioni ambientali a fine di profitto. È importante la modifica dell’articolo 9 e dell’articolo 41. Essa rende esplicita la tutela dell’ambiente, della biodiversità, delle generazioni future; introduce accanto alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, il limite di recare danno alla salute e all’ambiente. Quest’ultimo limite apre un dubbio sulla esistenza di un vincolo di gerarchia tra principi e fra diritti fondamentali: esso era stato negato dalla Corte costituzionale, pur riconoscendo la necessità di un equilibrio tra essi e il “valore” primario dell’ambiente e della salute. Oggi il problema si ripropone di fronte al riferimento esplicito dell’articolo 41 alla salute e all’ambiente come primi fra i valori da rispettare. La Costituzione oggi promuove il nuovo “principio fondamentale” dello sviluppo sostenibile, faticosamente e lentamente elaborato in sede internazionale e comunitaria. Ma sostenibile per chi? La risposta a questa domanda costituisce la sfida per il futuro delle città e della natura.
2. Lo sviluppo sostenibile: un obiettivo per la transizione ecologica e un limite per quella tecnologica
È necessaria una valutazione politica alta della riqualificazione del territorio alla luce delle peculiarità che si radicano in esso, affinché non prevalga la sola logica del profitto. È essenziale per superare la frattura altrimenti difficilmente evitabile tra l’“oggetto (e il monumento) bello, antico, prezioso, raro” e la quotidianità; tra lo spazio chiuso e troppo spesso elitario del museo o del monumento e lo spazio aperto della vita e dell’esperienza comune di tutti. Vi è il rischio che il bene artistico diventi “bello perché caro”, anziché “caro perché bello”, nella logica del mercato e del profitto aggravata dal legame e dalla reciprocità fra profitto e potere.
Il problema del confronto/scontro tra profitto e ambiente, tra rivoluzione ecologica e tecnologica, tra profitto (da misurare) e cultura (da sviluppare e da tutelare senza limitazioni) diviene in questa prospettiva più ampio: è in realtà un aspetto del confronto fra potere e cultura. Il potere attraverso le nuove prospettive aperte dall’intelligenza artificiale può condizionare le scelte di singoli e di gruppi, con ricadute anche sulle conseguenze sociali, economiche, politiche, sul funzionamento della democrazia e della città. Dal principio dello sviluppo sostenibile nasce la necessità della svolta, ossia della “transizione ecologica”. Lo sviluppo sostenibile esprime l’esigenza di equilibrio e di contemperamento fra interessi e soggetti diversi: il presente e il futuro; il benessere e sviluppo e la conservazione delle risorse; il rapporto tra popoli poveri e in sviluppo e popoli “benestanti”; l’uso equilibrato delle risorse e le esigenze delle generazioni future.
Alla transizione ecologica si accompagna la transizione tecnologica. Quest’ultima però, senza limiti e controlli, mette in forse la centralità della persona umana nel nostro sistema di vita e il suo rapporto equilibrato con la natura, la terra e la scienza. Può compromettere la “riserva di umanità” indispensabile in molti aspetti della vita pubblica e privata. Al percorso di risveglio, di partecipazione e di responsabilizzazione deve partecipare anche la città, con le sue complessità; le sue diversità fra megalopoli, città metropolitane e storiche; le sue contraddizioni; le sue opportunità.
3. La città come “formazione sociale”, nella nuova relazione fra persona e ambiente
La Costituzione parlava di paesaggio prima della riforma del 2022; ma non – e ancor più oggi – per tutelare solo l’aspetto estetico: diversamente, sarebbero esclusi dalla tutela costituzionale le periferie delle città o le serie di villette a schiera che deturpano le spiagge. L’attenzione è rivolta al valore del rapporto tra persona e ambiente. La città è un “sistema complesso” (come la foresta); un’aggregazione di persone, di vita e di realtà naturali (la biodiversità). Nasce come esigenza di vivere insieme; l’individuo diventa persona attraverso le relazioni sociali, culturali, affettive, politiche ed economiche con gli altri, nel contesto di spazio e tempo. La città si è sviluppata nel tempo soprattutto per difendere sé stessa e la “propria” collettività e per agevolare lo scambio culturale, economico, di servizi, di prestazioni. Prima il pericolo era esterno alle città e la costruzione delle mura serviva a difendere dall’aggressione esterna: delle bestie selvagge, delle calamità naturali o del nemico.
Le città hanno poi iniziato a presentare mura all’interno. Si pensi alle caratteristiche e alle assurdità del muro di Berlino: è caduto più di trent’anni fa, ma anche oggi dobbiamo fare i conti con una realtà in cui le mura della città sono diventate mura nella città. La delimitazione è tra comunità; non più al di là delle mura, ma al di là dell’individuo; «ciò che è diverso mi sta accanto». Si pensi ai centri delle città, “vetrine” o groviglio di strutture ricettive per il turismo “mordi e fuggi”; ai centri storici occupati dai senzatetto e dai migranti, alle baraccopoli, alle favelas; a tutte quelle forme di concentrazione umana nelle quali mancano risorse umane e tecnologiche fondamentali. Le città diventano ghetti contrapposti: da un lato la città dei ricchi, con la chiusura e la difesa del loro benessere, risorse e privilegi; dall’altro lato la città dei “diversi”, dei vulnerabili, con le loro condizioni di difficile sopravvivenza. È una esemplificazione della constatazione più generale che nella globalizzazione – al di là dei suoi indiscutibili vantaggi – i ricchi (paesi e individui) sono diventati sempre più ricchi e i poveri (paesi e individui) sono al più diventati un po’ meno poveri.
La città “in un quarto d’ora”, la smart city e la blind city sono possibili grazie a uno sviluppo tecnologico incredibile: quest’ultimo non è indirizzato verso livelli essenziali e omogenei. Non è garantita la pari dignità sociale. Allo sviluppo tecnologico della città si accompagnano l’accumulo di tensioni e ingiustizie; l’esasperazione delle diseguaglianze; il consolidamento dell’emarginazione.
La città viene intesa in modo riduttivo come organizzazione, realtà burocratica, concentrazione di potere in lotta con altri poteri. Le città si espandono, invocano poteri propri da contrapporre a quelli delle regioni, a quelli dello Stato, cercano autonomia. Mirano a creare nuove realtà ed entità di tipo burocratico. Ma le città devono essere anzitutto “formazioni sociali” in cui si forma e si sviluppa la personalità di ciascuno e di tutti. Svolgono un ruolo fondamentale per l’attuazione dell’articolo 3; sono formazioni sociali per eccellenza. Non sono soltanto realtà di tipo commerciale o giuridico: un luogo di scambio o un’espressione della ripartizione dei poteri tra un centro e una serie di autonomie locali.
Nelle formazioni sociali in cui si svolge la personalità possono e devono convivere diritti inviolabili e doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. L’articolo 2 della Costituzione afferma il principio personalistico ed apre la via al successivo articolo 3, in cui si afferma il principio solidaristico: la pari dignità sociale per tutti e per ciascuno, compresi i “diversi”; con l’impegno per la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che impediscono quella parità e l’eguaglianza formale.
La città è il luogo in cui le persone si radunano, vivono, convivono, si contrappongono, trovano la sicurezza, soddisfano i loro bisogni essenziali e sviluppano la loro personalità. È un contesto fondamentale per l’educazione ai valori costituzionali che nascono dal personalismo sociale; le persone sono entità e identità che vivono nella solidarietà, nel contatto e nel rapporto con gli altri, non come monadi isolate.
Paradossalmente, l’isolamento imposto nel 2020/2021 dall’emergenza pandemica ha fatto riemergere la bellezza dei centri non affannati dall’impatto quotidiano dell’essere umano; ma anche le criticità di quegli agglomerati non connessi con il territorio esterno e con la natura. È anche di questo che tratta il libro curato da Cristoforo Sergio Bertuglia e Franco Vaio, La città dopo la pandemia - pubblicato nella collana Studi Urbanistici della Fondazione Aldo Della Rocca per i tipi di Aracne nel 2023 – mettendo in luce quanto una urbanizzazione spinta dalla logica del profitto e del mercato abbia mostrato le sue debolezze e fatto emergere la povertà di una vita vissuta in “quattro mura”, per mangiare e dormire, per poi lavorare e produrre. Al contrario, il rapporto fra città, foresta e campagna è fondamentale, purché la seconda e la terza non siano poste al servizio dei bisogni (più o meno essenziali o voluttuari) della prima: frane, dissesti, alluvioni e siccità, scioglimento dei ghiacciai sono i segni dell’impatto violento dell’essere umano che produce per la città e nella città.
4. La città nell’era della globalizzazione
La città può trainare una transizione culturale – nel solco dello sviluppo umano sostenibile – che eviti di ridurre la transizione ecologica (more solito) soltanto ad una transazione economica di basso rango, agevolata più o meno consapevolmente dalla transizione tecnologica. Le città dovranno affrontare un numero sempre crescente di abitanti e una serie di «rigenerazioni» ed evoluzioni, come il progetto delle smart cities: città intelligenti che, grazie ai progressi della tecnologia e dell’urbanistica, promettono ottimizzazione e innovazioni. A cominciare dalla progettazione e dalla realizzazione di abitazioni non più con l’obiettivo di una «cultura del proprio mattone per ciascuno»; ma con quello di rispondere alle effettive e diverse esigenze di abitazione di giovani, anziani, famiglie e comunità. Il tema apre la via alla riflessione sulla «rigenerazione» delle città e delle loro zone degradate, in centro e in periferia. Non si deve proseguire in una «cementificazione» del suolo in orizzontale per ragioni soprattutto economiche; ma lavorare per una riqualificazione delle zone degradate con interventi di miglioramento sociale, ambientale, culturale; con il coinvolgimento dei soggetti pubblici e privati interessati, secondo le linee di diverse iniziative legislative (per ora rimaste sulla carta); evitando un ulteriore degrado del nostro dissestato e fragile territorio.
Le innovazioni incidono sulla gestione delle risorse; sulle modalità della convivenza; sulla organizzazione sociale del lavoro, della formazione culturale ed economica; sulla elaborazione delle regole di convivenza e la loro applicazione; sulla logistica e sui servizi urbani essenziali nei settori più diversi. La storia della città è una continua ricerca di soluzioni alternative; delle vie di comunicazione verso di essa, da essa e in essa; del rifornimento del cibo e dell’energia; della presenza di acqua; della eliminazione dei rifiuti; della difesa e della sicurezza all’interno delle mura cittadine; dello sviluppo e della cultura del lavoro dall’artigianato all’industria e del commercio dal baratto all’ipermercato. Si tratta della realizzazione di condizioni di salubrità, di salute collettiva e dei presìdi di sanità centrali e di prossimità; delle strutture per lo svago e il divertimento; del governo delle città; delle regole e condizioni di convivenza; della pianificazione urbana per la crescita di tutte quelle realtà e per la risposta alle richieste degli abitanti. È un percorso che si snoda anche attraverso l’elaborazione di regole e norme sempre più complesse.
Il problema più significativo di questa evoluzione sembra rappresentato dall’equilibrio necessario – in una prospettiva dinamica e non statica – tra parti antiche e recenti della città. Tra esigenze produttive e ambientali; tra istanze tese al profitto e dirette ad ampliare il senso di solidarietà; tra esigenze di una “città giusta” e di una “città sicura”. Soprattutto tra memoria del passato e progetto del futuro, nella consapevolezza che anche gli Stati passano, ma le città restano, quando non muoiono per distruzione, per abbandono degli abitanti o occupazione bellica, o per «Alzheimer sociale». La globalizzazione – col suo flusso di idee parole e cose: prima il computer e il container; ora i sistemi di digitalizzazione e di intelligenza artificiale – rende vicino quel che è lontano; ma allo stesso tempo allontana coloro che sono vicini; sconvolge i vecchi modi del vivere insieme. L’urbanizzazione su scala planetaria, la città-mondo enfatizza le disuguaglianze storiche e ne crea di nuove. Questo gigantismo distingue tra le città quelle capaci di stare in rete col mondo, di essere nodi significativi della post-globalizzazione; quelle che invece quest’ultima relega nelle periferie del pianeta.
5. La città dei cittadini
Per parlare oggi e domani di città dobbiamo interrogarci sul senso attuale dell’essere cittadini; sul senso della vita della e nella città senza perdere il legame umano e sociale che fonda una comunità. In epoca di pandemia - come si legge nel libro curato da Bertuglia e Vaio - la dimensione comunitaria è stata particolarmente ridotta. Il legame tra i cittadini dovrebbe manifestarsi ben più fortemente nella corresponsabilità, nell’impegno per il bene comune. La corruzione, l’inquinamento, la privatizzazione degli spazi pubblici, la diminuzione del verde urbano, il costante peggioramento della qualità della vita – soprattutto nei quartieri più poveri – hanno inciso sull’anima delle città. La cultura dell’individualismo – che si traduce in relazioni solo o prevalentemente esclusive o opportunistiche – è la prima responsabile di una crisi economica e ambientale negli effetti, ma etica e culturale nelle cause.
Se la comunità è parcellizzata in individui che abitano una città divisa al proprio interno, il problema è restituire un’appartenenza ora disgregata, un senso in cui non l’individuo ma il cittadino, la persona possa riconoscersi con il suo DNA di relazioni umane, di tempo e di spazio. Si avverte la necessità di recuperare una città in cui al centro (o ai centri, rispettivamente dedicati al lavoro, allo svago, alla cultura, alla attività politica e di governance) non corrisponda soltanto una periferia (dormitorio); in cui si riaffermi e si rispetti la centralità della persona. Occorre superare la frattura radicale ed esistenziale tra centro e periferia – ma anche tra città e campagna, tra uomo e natura – se si vuole giungere alla «città dei quindici minuti», proposta come modello per lo spazio urbano. Una città in cui «tutto sia a portata di mano, in prossimità», con riferimento ai bisogni essenziali.
Si propone una nuova relazione tra spazio e tempo più sostenibile e vantaggiosa per la qualità della vita, rispetto al pendolarismo della mobilità costosa e degradante. Non è però soltanto un problema di mobilità da riorganizzare tecnicamente e operativamente. È un problema di cultura, di recupero e di rispetto della centralità delle persone. Durante l’emergenza sanitaria, più che in altri momenti, è emersa l’essenzialità della salute, dell’istruzione, della casa e del lavoro, della relazione e del dialogo con gli altri. Quando i principali problemi da affrontare sono la fame e la povertà estrema, tutta una serie di altre questioni – come l’accesso alla salute e all’istruzione, le aspettative dei giovani o l’ambiente – ne risentono. I riflessi di questo impoverimento si faranno sentire per generazioni. Questa crisi, prima che economica, è una crisi dell’etica, della socialità, della politica e della legalità. Chiama in causa tanti egoismi, tante piccole e grandi corruzioni; perde il valore della relazione non solo virtuale e a remoto con l’altro; nasce da una gestione degli spazi comuni, dei beni pubblici e dell’ambiente spesso condizionata da interessi privati, se non illeciti. La tutela dei diritti inviolabili attraverso le opportunità urbane non è possibile senza una diffusione ed una accettazione della cultura della legalità. Senza una coscienza collettiva circa i benefici derivanti dal rispetto delle regole non è possibile attuare il principio solidaristico di cui parla la Costituzione.
Il governo delle città affronta un grado sempre crescente di complessità difficile da gestire, se non viene affrontato con approccio multidisciplinare. Un ruolo importante, per una ridefinizione della città in questo senso, lo assumono gli architetti: coloro che hanno il compito di tradurre le idee e i desideri degli uomini nel linguaggio delle pietre. Ma comprendere e governare il fenomeno urbano per cercare di indirizzarlo verso un futuro desiderabile richiede altresì il contributo di tutti – laici della e nella città – attraverso una partecipazione condivisa alle decisioni e alle responsabilità di queste ultime. La rigenerazione può far rifiorire i centri urbani, ma rischia al contempo di danneggiarne l’anima; lascia prevalere l’interesse economico sulla loro funzione sociale. Un obiettivo per gli sviluppi futuri della città è quello del suo divenire un «bene comune» in cui a tutti sia garantita la pari dignità sociale. Da ciò la necessità di una «legge per la città» che tenga conto della sua realtà, della sua complessità, del suo rapporto con la persona; che aiuti a realizzare una città a misura di persona, anziché una persona a misura di città. Il rimedio, ancora una volta, lo si può rinvenire ponendo la persona al centro. È possibile cogliere una ragione di speranza e di ottimismo nella constatazione che, da anni, in Italia ci sono persone che si stanno prendendo cura dei beni pubblici presenti sul territorio – sia esso un quartiere cittadino, un borgo, un edificio o un monumento – con la stessa attenzione e la stessa passione con cui si prenderebbero cura delle proprie case.
Ho più volte espresso (nel 2016 e nel 2021 in particolare) le considerazioni che precedono. Ovviamente ben poco è cambiato da allora, se non la crescita del tasso di inquinamento del nostro pianeta; quella sorprendente della tecnologia, dell’informazione e dell’intelligenza artificiale; quella dei buoni propositi della cui attuazione si colgono ben poche tracce; quella infine della pandemia – di cui scrivono ampiamente i numerosi autori chiamati a riflettere sul tema da Bertuglia e Vaio – e, infine, della guerra. Perciò mi sembra in qualche modo giustificato ripetere quelle considerazioni.
A quando un arcobaleno come quello – ricordato dalla Bibbia – che segnò la fine del primo diluvio universale e dell’equilibrio fra la persona e la natura?
Giovanni Maria Flick
N.d.C. – Giovanni Maria Flick è presidente emerito della Corte costituzionale. È stato ministro della Giustizia del governo Prodi e professore di Diritto penale all’Università Luiss di Roma. È inoltre presidente onorario della Fondazione Museo della Shoah di Roma ed è stato delegato del Commissario straordinario del governo per l’Expo 2015 di Milano.
Tra i suoi libri: Il controllo generale sugli enti a base locale nel quadro del decentramento amministrativo (Giuffrè, 1970); La tutela della personalità nel delitto di plagio (Giuffrè, 1971); Il delitto di peculato. Presupposti e struttura (Giuffrè, 1972); Droga e legge penale. Miti e realtà di una repressione (Giuffrè, 1979); Diritto penale e credito. Problemi attuali e prospettive di soluzione. Scritti 1980-1988 (Giuffrè, 1988); Dal pubblico servizio all’impresa banca. Ritorno al futuro (Edibank, 1989); Lettera a un procuratore della Repubblica (il sole-24 ore, 1993); Giustizia vera per un paese civile (Piemme, 1996); La globalizzazione dei diritti. Il contributo dell’Europa dal mercato ai valori (Piemme, 2004); Sussidiarietà e principio di prossimità, quali modelli per uscire dalla crisi? (Arel, 2010); Elogio della città? Dal luogo delle paure alla comunità della gioia (Paoline, 2019).
Sui libri di Giovanni Maria Flick, v. in questa rubrica: Giovanni Vaio, Una città giusta (a partire dalla Costituzione), 5 giugno 2020.
Quello qui riportato è il testo della presentazione del libro curato da Cristoforo Sergio Bertuglia e Franco Vaio organizzata dalla Fondazione Aldo della Rocca presso l’Istituto Luigi Sturzo, tenutasi a Roma il 19 aprile 2024.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R.
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