|
|
Pubblichiamo un estratto da “L’istituzione inventata / Almanacco Trieste 1971-2010” (Edizioni alpha beta Verlag, Collana 180, 2005) a cura di Franco Rotelli.
Brevi istruzioni per l’uso
di REPARTO AGITATI
La forma insolita dell'”Almanacco” curato da Rotelli, restituisce alla storia raccontata la propria architettura. La ricostruzione di trent’anni di attività, svoltesi a Trieste a partire dalla distruzione del manicomio fino ad arrivare alla costruzione di un sistema di servizi di salute mentale integrati al territorio, si articola attraverso un lavoro di taglia, cuci, riconnetti, sviluppa, sulla base dei materiali sia scritti che visivi, prodotti dal 1971 al 2010. La capacità di mescolare materiali di diversa natura, mette nelle condizioni il lettore e la lettrice, di entrare nella storia che piano si compone, in un percorso che sembra farsi via via tridimensionale, senza la necessità di appositi occhiali: come si trattasse di un vero e proprio documentario che scorre però tra le pagine anziché sullo schermo.
Ci sono le immagini, gli estratti degli scritti che hanno elaborato presupposti ed effetti dell’esperienza in atto lungo tutto il suo periodo di svolgimento, ci sono didascalie, frammenti di giornali, riproduzioni di locandine, intrecciate in modo tale da dare la sensazione di avvertire le voci delle persone che si raccontano e vengono raccontate. L’eccezionalità de “L’istituzione inventata / Almanacco Trieste 1971-2010? consiste nell’aver trovato il modo di infilare la forma della realtà, con le sue consistenze, i suoi materiali e la sua pluralità, tra le pagine di un libro che in questo modo smette di essere superficie piana.
Per questo oggi, assieme a uno degli estratti pubblicati all’interno del testo, che Franco Rotelli scrisse nel 2008 articolando una riflessione che riteniamo preziosa attorno al tema della salute mentale, pubblichiamo anche alcuni frammenti di queste pagine “tangibili” per assecondare l’invito implicito di questo libro a “toccare” con mano la realtà, anziché limitarsi a guardarla dalla soglia.
Che cos’è la salute mentale?
di Franco Rotelli
Può essere che la salute mentale sia il contrario della follia. Per quel che mi riguarda io mi immagino che essere folli altro non significhi che prendersi molto o troppo (o del tutto) sul serio. Se sta all’opposto, salute mentale non potrà che identificarsi con l’esercizio della vacuità, dell’insignificante: in sintesi la realizzazione completa dell’essere in malafede e del subire l’ottusa piattezza dell’inerzia.
Per fortuna tra questi due estremi c’è una ragionevole dose di angoscia che quasi tutti si portano dietro e una ragionevole dose di stolidità e di menzogne che non consente alla prima di travolgere il nostro equilibrio instabile. Equilibrio, chissà quanto auspicabile, chissà quanto mediato, reso tale da un contratto sociale che, misurato in merci e prodotti, costituisce la nostra commerciale formazione che tutto sopravanza e che di inclusione/esclusione decide.
La questione vera è allora quando e perché la produzione di sentire, e un far condiviso che vi si associ, siano possibili, credibili, dedicati ad altra utilità che non siano le merci. Il socialismo reale ci
ha insegnato che via dalle merci c’è l’imbroglio, l’illibertà, l’istituzionalizzazione di un potere astratto fatto di ideologia che si fa concreta e pervasiva violenza: lo Stato. D’altra parte il mercato tenderà a sostituirsi a Dio se glielo sarà permesso.
Ci si potrebbe immaginare che salute mentale stia laddove un soggetto può esistere con altri, attraverso il linguaggio comunicare di sé, poter di sé parlare per differenze accettabili, costituirsi per singolarità parziale e parziale comunanza. Costruirsi ed essere costruito laddove inclusione/esclusione si tendono e rischiano tra loro, sul limite sul quale altri possono trattenerti, tu possa trattenerti e insieme possa trovarsi un comune sentire, una prassi comune, un progetto interrelato.
Se è verosimile che solo il linguaggio ci può salvare, se è verosimile che nella follia ci sia non so se una scelta ma una sicura compiacenza, un vezzeggiamento continuo, una seduzione subita, un arrovello accarezzato, un’identità estrema purchessia, l’altro diventa ancor più decisivo del tuo futuro. Se solo l’altro può salvarti da te, può trattenerti al di qua, può forse anche spingerti di là o lasciarti, abbandonato naufragato, irrelato: solo di questo è utile parlare.
Molto altro non so. So poi allora che, quando il limite è oltrepassato, il sociale contratto prevede che qualcuno si debba per professione e servizio, per statale compito, in qualche modo occuparsi di te.
E abbiamo pur visto che cosa lì può accadere e vediamo ogni giorno che cosa accade o rischia di accadere. Come lì possa essere cementata l’esclusione, la tua non salute giudicata e oggettivata la malattia (occorrendo però essere consapevoli che è forse meglio essere “malati” che indemoniati o simili, con ragionevole dubbio che sia meglio se di te si occupi il soi-disant medico piuttosto che un soi-disant esorcista e forse meglio un ospedale piuttosto che l’esilio al limite del villaggio).
Continua la lettura su Il lavoro culturale © RIPRODUZIONE RISERVATA 24 NOVEMBRE 2015 |