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Sono andata ai funerali di Umberto Eco per onorare un debito di penna: anni fa aveva messo a fuoco una questione spinosa su cui era stato scritto molto ma niente che mi sembrasse convincente. Mi riferisco al caso di Eluana Englaro, la giovane donna rimasta in coma vegetativo diciassette anni e tenuta in vita con l’alimentazione artificiale. Il padre, che si era a lungo battuto per il suo ”diritto” alla morte, alla fine aveva ottenuto che la si lasciasse morire. Accadeva nel 2009: il caso aveva riempito le pagine dei giornali, commosso il pubblico, imbarazzato i politici e i giuristi, messo al lavoro la commissione di bioetica e quasi provocato una crisi di governo.
Uno strano fenomeno sociale perché, in realtà, la questione era indecidibile. Cosa ne sappiamo, avevo scritto nel libro che preparavo allora, del possibile ”sentire” di un corpo che ha una vita solo vegetativa? Come si poteva tagliare corto sui dubbi di chi si faceva scrupolo di interrompere l’alimentazione artificiale per lasciarlo morire di fame e di sete? E se quel corpo, sia pure vegetale, avesse sofferto di una morte così atroce? Domande da vivi, che non si arrendono alla propria ignoranza su che cosa provi un corpo fisiologicamente vivo ma inerte come una pianta e privo di possibilità di comunicare.
Eco, in un articolo intitolato: Perché ho il diritto di scegliere la mia morte* , dopo aver dichiarato la sua ignoranza sulle risorse di un corpo il cui cervello non dia segni di vita, formulava tre ipotesi su ciò che potrebbe succedere a chi si trovasse nelle condizioni di Eluana Englaro: sopravvivere come una rapa, senza coscienza, senza poter dire ”io”; essere catapultati in una specie di stato paradisiaco in cui si realizzano tutti i desideri di quando si era in vita; infine, ipotesi più angosciante, trovarsi in uno stato di vita sospesa in cui si comprende lucidamente tutto. ”Questo sarebbe l’inferno” concludeva lo scrittore passando con uno scarto brusco dal registro dell’ironia al registro del tragico. Essere lucidi e vivi nel sarcofago di un corpo che appare morto è il più terribile degli incubi, il più temuto se solo proviamo a immaginarci morti. Con crudezza arguta Eco non solo lo evocava ma vi inseriva se stesso per dichiarare, con una specie di testamento biologico pubblico, di voler rinunciare alle cure se il destino l’avesse ridotto a uno stato di vita vegetativa. Del confine tra la vita e la morte non ne sappiamo niente ma dalla morte non si torna indietro: era la sua lezione lucida, da vivo che pensa come può l’impensabile.
*La Repubblica del 9 febbraio 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA 26 FEBBRAIO 2016 |