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"Amare le differenze degli uomini significa amare la libertà"
Ernesto N. Rogers, conferenza al Rotary Club di Trieste, 21 giugno 1949
Confesso. Mi procura disagio non certo il ritorno ai problemi del fenomeno metropolitano di Milano e dintorni, quanto a contraddizioni già avvertite durante i primi anni sessanta del secolo scorso nell'esperienza del Piano Intercomunale Milanese che mi sembrano riaffiorare con la legge Delrio 56/2014. Le istituzioni hanno l'agilità dell'obeso nel vivere le pur lente trasformazioni imposte al territorio dal "processo" in atto nel sistema sociale e nel suo ambiente fisico (1): i "quozienti di intelligenza" (linguaggio, percezione, memoria) che consentono di coglierli erano già allora frammentati per via delle migrazioni prodotte dal cosiddetto "miracolo italiano". Oggi il confronto non è soltanto da consumare alla luce di fenomeni simili ma di ben diversa portata: può e deve essere indagato attraverso nuove o altre "possibilità" di conoscenza. La riproposizione da parte della legge Delrio di lineamenti di politica territoriale condensati nella "città metropolitana" - una nuova e appartata Provincia? - rischia di avvenire senza un coinvolgimento efficace di istituzioni, risorse e cittadini (2). I più, ministro e ministero dei Lavori Pubblici compresi, pensavano ieri a un'uscita di Milano dal perimetro dei suoi dazi sotto l'ala protettrice della "città centrale" o - come ancor oggi molti pensano - a una pianificazione dell'area metropolitana ignara di una necessità culturale sempre più incombente: la ricerca della vita autentica in un mondo che si smarrisce e "spaesa" nella Modernità liquida (3).
In questo quadro diventa difficile comunicare il progetto, incagliato anche quando è stata o viene imboccata la strada partecipativa, fuori dal "processo". Per contro i nuovi mezzi di comunicazione appaiono manipolabili, suscitando allarmi e denunce di cui si sono fatti portatori intellettuali del calibro di Adorno e Horkheimer, di McLuhan e Morin. Con i cosiddetti Millennial, insofferenti più di altri della sonnolenza delle istituzioni, vengono a galla nelle giovani leve tendenze cosmopolitiche e vibrazioni coscienziali più vicine al "vivere in" (4) o ad altre forme di presenza "autentica" del cittadino sul territorio: tanto più preziose, quanto più il numero dei giovani andrà calando in una cittadinanza senescente o a causa del lavoro offerto ai più intraprendenti fuori dall'Italia.
Esperienze e progetti, come tutte le vicende umane, sono discutibili e azzardati ma troppo frequentemente venduti come innovazione, anche quando appaiono distanti da dove è più acuto il malessere. In queste situazioni - nella tarda Modernità numerose e spesso occultate - il "significato" diventa oscuro pure per chi vuole attribuirgli autonomia al riparo di qualche mito o credenza: è il "significante" a riscattarlo attraverso le emozioni e i sentimenti chiamati da gran tempo in causa da Husserl quando dice "penso e rifletto, ma anche immagino e ricordo". Vado oltre: è l'"immateriale", come viene emergendo in Occidente a partire dalla fine del diciottesimo secolo fino a oggi, a incidere sulla coscienza (5).
Contro i trionfalismi di un sapere che cela o ignora chi si muove fuori dal potere e dal mercato, il conflitto si alza e allarga. Con un salto di qualità che la "città metropolitana" dovrebbe fare proprio, superando il tradizionale policentrismo spaziale, caro ad architetti e urbanisti, in modo polilogico e polilinguistico (6). Siamo sempre pronti a disfare gli insediamenti compiuti del passato - pare venuto il turno del centro di Milano - ma mai a intervenire dove la Modernità ha fallito: diventa invece impellente il confronto con un orizzonte "interculturale" di cui mi sembra di dover sottolineare la differenza rispetto a quello "multiculturale" (7). Lo stesso ripensamento della presenza naturale e antropica sul territorio - il "terzo paesaggio" di Clément (8), la "città-concetto" e lo "spazio agito" di de Certeau dall'altro (9) - appartiene alla crisi e, anzi, ne rinnova l'orizzonte problematico.
Nell'area milanese la "città centrale" perde il confronto non soltanto con l'efficienza raggiunta da molte città europee di analoga stazza: ha mutato struttura e appare retrocessa all'entità demografica del secondo dopoguerra. Avvenimenti del passato o prossimi e nuovi accentuano trasformazioni già attive nelle generazioni più radicate a Milano e nell'area milanese: il prevalere ieri delle attività terziarie su quelle industriali e, oggi, gli effetti - le "comunità a distanza" - generati dalle reti aperte dalle nuove tecnologie della comunicazione o, ancora, dall'urto con l'immigrazione extra-comunitaria producono umori di ordine multiculturale e - ripeto - "interculturale" che acutizzano il conflitto. La "città centrale" è divisa fra una realtà notturna, di pochi abitanti stanziali sempre più vecchi, scarsamente operosi e altrettanto scarsamente prolifici, non soltanto a una diurna affollata di city users, dove continuano a guadagnare spazio gli erogatori dei servizi di alta gerarchia interagenti con un hinterland costellato da centri caratterizzati a loro volta da proprie suscettività e influenze.
Sarebbe grave perdere un momento di possibile crescita politica e culturale nella cittadinanza, che già si riconosce poco nelle proprie rappresentanze istituzionali e associative, di una "città metropolitana" come rinnovata sintesi della concentrazione spaziale - continua o discontinua che sia - in atto da decenni. Nella "città-concetto", subdolamente pianificata dal potere e dal mercato, l'"uomo comune", protagonista dello "spazio agito", è giudicato invasivo; quando occupa gli spazi pubblici e i ritagli sottoutilizzati delle infrastrutture attraverso l'economia informale o l'arte di strada o lavora la terra abbandonata negli orti coltivati sul suolo rimasto scoperto. Terra abbandonata che, per esempio, intorno al gasometro dismesso della Bovisa mostra spazi di rinaturalizzazione fino a ieri inimmaginabili e tali da provocare nuovi ruoli e rapporti fra il suolo compromesso dall'urbanizzazione e il suolo agro-rurale.
Sono percepibili occasioni evolutive, smarcanti e aperte alla ricerca delle individualità generate da ogni storia urbana e territoriale: Wang Shu - Pritzker 2012 - e Aravena - Pritzker 2015 - hanno recentemente portato dentro il mondo politico-culturale se non del mercato, arbitri nella "città-concetto", l'artefatto prodotto dal riciclaggio dei materiali edilizi provenienti dalle demolizioni o l'autocostruzione e l'autoristrutturazione che le "coree", sorte nella "conurbazione" milanese fin dalla metà del secolo scorso, avevano anticipato (10).
Oggi, non poco abusivismo edilizio - la cosiddetta "non città" - ha posto e continua a porre in essere problemi senza suscitare ascolto da parte della politica ufficiale del territorio. Lo sfondo di questi fenomeni è indubbiamente attraversato dal degrado di ampie aree urbane, da un rapporto stringente e opprimente fra abusivismo e infrastrutture e spesso fra artefatto e dissesto, ma è in questa realtà, sgradevole e inquietante, che dobbiamo ravvisare il baratro creatosi fra città e non città da affrontare nel progetto di quella metropolitana. Inquinamento dell'aria e inondazioni ricorrenti (basta un po' di pioggia per creare a Milano allarme e danni) continuano a mostrarne la debolezza e i rischi connessi al ricarico insediativo della "città centrale": lo smog, che ha preso il posto dell'innocuo nebiun milanese, ne costituisce la plateale e allarmante conferma.
Milano, città annoverata fra gli insediamenti urbani più contaminati d'Italia: riscaldamento domestico, traffico automobilistico, densità eccessive del costruito, pochezza degli spazi pubblici e alberati o vuoti intesi come timidi supplenti del suolo naturale appaiono i suoi punti deboli. Eppure alcuni rimedi sono a portata di mano. La metanizzazione degli impianti di riscaldamento e un maggiore controllo delle emissioni dell'auto tradizionale, in proprietà o a noleggio, diventano tanto più "strategici" quanto più l'alternativa dell'auto elettrica non può continuare a trascurare il tema energetico e la congestione che, insieme a una motorizzazione privata ancorché sempre più ecologica, continuerebbe a generare e forse ad accrescere. Il nostro Paese produce circa un quarto e la metà delle energie alternative messe rispettivamente in campo dalla Germania e dalla Spagna e a Milano il traffico privato continua ad abbattere la velocità commerciale del trasporto pubblico su una rete di superficie vasta e capillare. Per correggere questi guai basterebbero interventi senza danno per l'impianto storico di Milano, già ampiamente malmenato dagli sventramenti giustificati in passato con il fine di affrontare senza successo l'incremento del traffico motorizzato; sventramenti e ampliamenti che hanno anche trainato, a partire dal piano regolatore del 1934, le alte densità edilizie cui possono essere addebitati apporti sempre più pesanti all'inquinamento, agli scompensi fra carico insediativo, infrastrutture tecnologiche e attrezzature sociali e, problema più grave di tutti, agli squilibri nella composizione sociale della cittadinanza: "la città che sale" non li sta riproponendo?
Continuano inoltre a prevalere sul suolo e nel sottosuolo tecniche diffusive e coprenti, cui non sarà facile trovare antidoti soltanto attraverso opere idrauliche anche in vista della intensificazione delle piogge che ci attende. Clément e de Certeau invitano l'uno a "lasciar fare" la terra liberata dalle dismissioni di attività spente o comunque scampate alla compromissione della "città-concetto" e di badare, il secondo, ai comportamenti dell'"uomo comune": nasce il bisogno di sorpassare la vecchia società e i vecchi spazi in cui si sono incancreniti gli altrettanto vecchi schieramenti politici, oggi impegnati a celarli sotto il mantello barocco della "maraviglia" da accendere tramite la nuova edilizia. Mi verrà detto: si tratta pur sempre del binomio tutto verde e housing sociale che la Sinistra più a sinistra ha contrapposto alla politica urbanistica convenzionale dei partiti politici che si sono avvicendati nel governo di Milano. Replico: innanzi tutto la riflessione sul futuro della "città centrale" si muove da uno stato di fatto che è cresciuto malamente ed è oramai saturo (11).
Nel secondo dopoguerra il "tecnico" Belloni aveva toccato il tasto, allora legittimamente, del decentramento quando aveva proposto di orientare ricostruzione e sviluppo fuori dalla "città centrale", seguendo i gradienti di accessibilità offerti dalla rete ferroviaria esistente al suo esterno, connettendoli con quella in pectore della ferrovia metropolitana (12).
Sotto un altro profilo l'alleggerimento e la riqualificazione della "città centrale" non è questione affrontabile attraverso una querelle sulla "modernità" della nuova edilizia. Sarà impresa ardua, ma per assumere connotati attuali e trasmigrare da una già scarsa partecipazione dei cittadini al loro coinvolgimento in tutto il "processo", l'operazione non può continuare a sottrarsi con l'"immateriale" che si ingrossa - causa non ultima la immigrazione extra-comunitaria - nel mutamento della struttura socio-demografica e socio-culturale dei milanesi. Gli stessi fautori del verde e dell'edilizia sociale sono i primi a dover spiegare di quale verde vanno parlando e quali sono gli obbiettivi e gli strumenti in grado di costruire una politica della casa organica alla necessità di cambiare o quantomeno modificare l'ambiente umano e fisico della "città centrale".
Sassen aveva denunciato poco meno di vent'anni fa l'assurda omogeneizzazione a scala planetaria delle city circondate e contraddette da gigantesche periferie e "conurbazioni"; sminuite le prime dai limiti della "città-concetto" e le seconde da un degrado inarrestabile (13) che va impennandosi con l'urbanesimo oramai dilagante anche nel Terzo e Quarto Mondo. Non voglio essere sacrilego, ma quelle city mi ricordano i grattacieli del plan Voisin, provocatori della denuncia di una lacerazione fra artefatto e città che Poëte legge nella invocazione corbusieriana della mappe blanche come base del progetto moderno nel cuore della Parigi degli anni venti del secolo scorso (14).
L'amicizia fra Belgiojoso e Vago porta Paris, son évolution créatrice, che non mi risulta essere stato tradotto in italiano, sugli scaffali dello studio BPR: corrono gli anni cinquanta del secolo scorso. Sul numero 215 del 1957 di "Casabella-continuità", Rogers scriverà l'editoriale Continuità o crisi, che ritengo possa essere riconosciuto come un punto di decollo del ripensamento del Moderno, emergente non soltanto teoricamente, ma anche sul territorio attraverso l'architettura e l'urbanistica (15). Artefatti diversissimi (dello stesso Le Corbusier, di Gropius e, in Italia, di Albini, dei BPR, di Gardella e Ridolfi) si allontanano dal lessico razionalista e dal suo mondo: potrei proseguire, ricordando le esperienze più propriamente urbanistiche, presenti in alcune regioni italiane, dove la ricusazione della mappe blanche diventa esplicitamente o implicitamente un'adesione all' evoluzione creatrice e al ripensamento del Moderno.
L'area del "biologismo" con il trascorrere degli anni riceve nuovi apporti: gli antropologi parlano di mutamento culturale e quest'ultimo, causa i cambiamenti intervenuti nello spazio e nel tempo, va prevalendo su quello biologico (16). Voglio dire: un po' in tutte le culture occidentali vagano le tensioni innescate precocemente dalla linguistica saussuriana: quest'ultima invaderà le scienze umane con il proprio strutturalismo che mette in discussione il primato del costituente. A lungo dominante nella Modernità, incrocia un costituito sempre più incisivo fra le pieghe e le lacerazioni dell'Occidente costellato da contraddizioni e conflitti che rammentano i vaticini spengleriani. Il dialogo che Foucault e altri aprono con lo strutturalismo gli riconosce il merito di avere denunciato il carattere solipsistico del cogito cartesiano, ma è al linguaggio che viene attribuito un ruolo insostituibile nella costituzione della soggettività: ne consegue una radicale revisione della cultura del progetto (17).
I maestri operosi a Milano fra quelli appena ricordati hanno offerto nel mezzo del secolo scorso un apporto alto e troppo presto sacrificato sull'altare dell'artefatto ubiquitario e disconoscente nei confronti delle differenze create dal luogo e prodotte nel momento. "Processo" tuttavia a lungo contrassegnato da culture occidentali e oramai remote rispetto al "mondo della vita", multietnico e ricco di fermenti "interculturali" come sconvolto per contro dall'ipertrofia digitale che l'accompagna nel sistema sociale e nel suo ambiente difficile (18). L'alternativa non sembra reggere nell'artefatto, più generico che polivalente, confezionato da tante archistar perché il percorso fra progetto e uso è da tracciare attraverso pratiche di ascolto sensibili alle complessità, presenti o latenti, fra margini, spazi del "vivere in" e immaterialità; tra suolo, artefatto e corpo (19), ma anche tra condizione materiale e immaterialità.
Noi "chierici" sul territorio siamo in ritardo rispetto agli eventi come alle "possibilità" aperte dalle nuove conoscenze: l'avanzamento per esempio nella neurobiologia per quanto concerne le funzioni superiori dell'animale umano - percezione, elaborazione e memoria, apprendimento, volontà, intenzione e attenzione, emozioni e motivazioni - si è ripercosso sulla linguistica, sulla filosofia, sull'antropologia e sull'informatica attraverso le cosiddette "neuro +" (20). Le relazioni fra biologia e cultura si rovesciano: l'"empatia" (un sentire dentro e nell'"altro") non muta soltanto l'interazione fra essere e conoscere, ma fra natura e cultura, offrendo a neuroscienze e progetto terreni inesplorati e comuni di studio e di proposta. Avanza una ricerca "bioculturale" che rischia tuttavia di trascurare l'"intenzionalità" sviluppata sull'asse Brentano/Husserl lungo le attività mentali sovraoordinate, come linguaggio e coscienza: probabilmente siamo già sull'orlo delle filosofie della crisi, in quanto vivibili attraverso le "potenzialità motorie" del corpo in una "intersoggettività neurobiologicamente fondata". Percezione, imitazione e immaginazione si mostrano ancora più strettamente connesse (21).
La occidentalizzazione del pianeta, spinta dall'ordine e dalla misura, sta spegnendosi: la fiducia in una crescita senza fine cala e lascia intravvedere conflitti drammatici qualora non prendessimo atto delle differenze irrevocabili che ci circondano: il progetto non può essere sottratto a questo sfondamento. A un "decostruzionismo", orecchiato da troppe archistar fuori dalla crisi, mi sembra debbano essere ancora una volta contrapposte esperienze senza soluzione di continuità fra immaginare e costruire, fra ricordare, abitare e riabitare. Quanto il patrimonio degradato può, spesso e non soltanto nella periferia della "città centrale", essere aperto alla spesa pubblica e a nuove forme di credito immobiliare? Quanto può essere rivitalizzato non soltanto attraverso una residenza "sociale", ma anche per il tramite di micro-attività economiche? Due esempi chiaramente "performativi" di questi giorni. Rispetto al riuso stabile e residenziale del patrimonio edilizio degradato, come proposto nella legge 457/1978, sono da ricordare interventi a Ferrara, Milano, Novara e Torino dove enti pubblici, detentori di un patrimonio edilizio che decade, lo affidano temporaneamente (tramite comodato) ad associazioni impegnate a rimetterlo in circolo (22). In spazi non soltanto periferici del capoluogo lombardo, nel vivo cioè della "città centrale", l'arcidiocesi ambrosiana e le "realtà cattoliche" cui fa cenno il cardinale Scola stanno impegnandosi in un'accoglienza dei migranti di netto risalto nei confronti di quella organizzata dalle istituzioni, italiane ed europee (23).
L'esperienza "performativa" può e deve essere estesa anche all'edilizia nuova. Bisogna travalicare il progetto prefigurato, in quanto "monofigurato" dal potere e dal mercato, per renderlo "plurifigurato" dall'"uomo comune" e dal "popolo nuovo"; progetto - torno a dire - "polifonico" e "polilinguistico", capace di far vivere ogni voce nella propria autenticità come parte insostituibile di un insieme. Orientamento che comporta una certa dose di diffidenza verso le acrobazie della tecnica e i rimedi che a loro volta generano attese smisurate indotte tecnicisticamente (24) o, magari, il rifugio nel sottosuolo delle contraddizioni più sfuggenti (25).
Alla nostra cultura riesce difficile uscire da una "creaturality" in forma colta - il rispetto o la riverenza verso il lascito storico? - o liquida, dove si alternano la falsificazione dell'antico come la sostituzione che fa da battistrada alla omogeneizzazione astratta e alienante: contrariamente a quanto ci insegnano i tessuti vissuti e viventi delle nostre antiche città. La cittadinanza può essere, e spesso è, condizionata dalle abitudini, manipolata nella "città-concetto" e attratta nel gorgo del mondo liquido; se poveri e rozzi sono i miei richiami al pensiero della crisi, resta importante la parte che in quest'ultimo continua a sostenere l'"intenzionalità" bandita dalla Modernità liquida (26).
Il tornare insistentemente sull'immaginazione e sul ricordo (quest'ultimo non è diventato da molti anni insopprimibile anche grazie alla lezione della psicanalisi?) vuole invitare a una prassi consapevole di muoversi controvento. Decadono i paradigmi, ma non muore l'obbligo di governare le complessità che attraversano il territorio: la "città centrale" ha però bisogno a Milano di un'edilizia diversa e, in generale, di una cultura dell'artefatto protesa sull'orizzonte problematico della Modernità del territorio. I rischi contro cui battersi sono noti: constatata - anzi, riconstatata - la povertà delle casse pubbliche si cercherà il soccorso degli operatori convenzionali cioè si ricorrerà ad altro cemento più che probabilmente chiuso - secondo pericolo - nei modelli superstiti e mistificanti del territorio della Modernità. La "città metropolitana" deve invece diventare, a partire dalla "città centrale", l'arena dove il territorio - messo in crisi dalla "metropolizzazione" come sul suolo agro-rurale quando il mutamento contamina e cessa di essere sviluppo - lascia spazio a una "Modernità del territorio" non impegnata soltanto ecologicamente (27).
Sono molti gli interrogativi da non eludere anche se, spesso, in ombra nelle nostre cerimonie collettive: non remano contro lo sviluppo di Milano ma si collocano in una fase della vita della città dove anche la lingua dell'ambientalismo viene ambiguamente utilizzata come linguaggio pubblicitario e il divenire storico appare sulla soglia di un collasso della memoria. Del resto non sarebbe la prima volta che Milano cerca di "rifarsi", divorando il proprio passato e rimanendo in mezzo al guado (28).
La "città moderna" esige l'efficienza di quanto occorre per garantirvi socializzazione e salubrità, ma la "città metropolitana" deve generare e ricomporre strutture insediative dove vi sia ovunque spazio per la natura e per le voci dell'immaginazione e del ricordo. Stiamo invece logorando e smagliando una società urbana che nel nome di una vacua Modernità non deraglia soltanto dal "significato" tradizionale, ma anche dall'ascolto dei "significanti" che ne raccolgono e ne differenziano gli aspetti più autentici o presenti e latenti nella stessa "città-concetto". In rozza sintesi: filosofie della ragione contro "mondo della vita"? Non lo so, ma dobbiamo contrapporre all'alternativa, palesemente falsa e perdente della integrazione omogeneizzante, l'irrazionale, lo spontaneo, il primitivo e, infine, l'immateriale che animano la Modernità del territorio.
Silvano Tintori
Note
(1) Il "processo" nella pianificazione intercomunale traeva alimento dall'incontro in seno al neonato ILSES - l'Istituto Lombardo di Studi Economici e Sociali - con la ricerca sulla scuola di Chicago (Park, Burgess, McKenzie) promossa da Alessandro Pizzorno che curerà di lì a poco l'edizione in lingua italiana di loro scritti in: La città (ed. di Comunità, Milano 1967). Ogni teoria costituisce un azzardo, rete di eventi esposta a una connessione reciproca: il soggetto non è più all'origine della conoscenza, ma si muove verso un punto cui il "processo" tende (Whitehead A. N., Processo e realtà, Bompiani, Milano 1966). Il concetto subì allora un attacco politico da parte di chi, a Destra come a Sinistra, non voleva cedere alcunché del potere locale, ma sollevò anche un dissenso di ordine metodologico: gli autorevoli economisti, presenti negli organismi del Piano Intercomunale Milanese, vi scorsero uno spirito aggressivo del sapere logocentrico o comunque insensibile al pensiero della crisi (Husserl, Heidegger); emerso nel periodo interbellico, questo pervade il mondo tardomoderno e, fra gli anni trenta e sessanta del secolo scorso, entra nel dibattito epistemologico (Popper, Bachelard, Kuhn, Feyerabend e altri). (2) Oltre gli artefatti, la cittadinanza. Esemplare in proposito: Berengo M., L'Europa delle città. Il volto della società urbana tra Medioevo ed Età moderna, Einaudi, Torino 1999. (3) Uso questa metafora di successo desumendola da: Bauman S., La modernità liquida (Laterza, Bari-Roma 2006) sottolineando il suo debito nei confronti del pensiero della crisi. Il concetto sempre più debole di un progresso permanente si incrina, ma sono le mutazioni, intervenute verso la fine del millennio a farlo precipitare e a creare lo stato liquido della società tardomoderna: scompare la borghesia delle imprese attive sul territorio; cedono scuola e professioni intellettuali improntate dalla cultura umanistica; la classe operaia fatica a riferirsi alla fabbrica. Il lavoro è dominato dalle nuove tecnologie e chiede continuamente innovazione: si dissolvono i legami di classe, cambia il messaggio della democrazia e della rappresentanza senza offrire nuovi spunti convincenti di dibattito e confronto, ne esce sfinito il bagaglio ideologico ereditato dalla prima Modernità. (4) Cerco di precisare: nella Fenomenologia di Husserl il "vivere in" (erlebnis) appare fin dalle sue prime opere all'inizio del secolo scorso in: Ricerche logiche del 1900-1901 (tr. it. il Saggiatore, Milano 1988). Le Ricerche non aprono soltanto un nuovo stadio nel pensiero husserliano, che troverà in un trentennio di sofferta ricerca il proprio apice ne La crisi delle scienze europee (tr. it. il Saggiatore, Milano 1961), ma segnano anche l'esordio o il recupero di un lessico - il mondo della vita e altri neologismi come la brentaniana intenzionalità - di cui si arricchisce il linguaggio della fenomenologia. Per constatarne i primi consapevoli, ma a mio avviso timidi, riflessi nell'architettura e nella urbanistica si veda: Norberg-Schulz C., Intenzioni in architettura (Lerici, Milano 1967); mentre per inquadrare la distanza che cultura e politica italiane intrattengono con la crisi segnalo: Altan C. T., Populismo e trasformismo (Feltrinelli, Milano 1989) in part. p. 320 e sgg. (5) Di Zoja L. v.: Psiche (Bollati Boringhieri, Torino 2015) con particolare riguardo al capitolo dedicato alla storia del concetto di psiche, pp. 24-67. (6) Riprendo questi due ultimi aggettivi da Chiricosta A., Filosofia interculturale e valori asiatici, ObarraO, Milano 2013. (7) Fornet-Bétancourt R., Trasformazione interculturale della filosofia, Dehoniana, Bologna 2000. Il neologismo interculturalidad, ripreso più volte in contesti lontani e lingue diverse, proviene da un altro neologismo - transculturatiòn - coniato fin dal 1940 a Cuba dall'antropologo Ortiz Fernàndez per designare incontri fra culture diverse. Questo orizzonte problematico insorge nel contesto particolare dell'America meridionale dove sale la temperatura del conflitto fra componente ispanica e componente autoctona a causa delle contraddizioni che attanagliano il progetto marxistico di affrancamento dal colonialismo, come un multiculturalismo irrigidito in un confronto di "idemità" che sono lasciate fluttuare senza cogliervi nuovi nessi e dipendenze. L'argomento appena sfiorato obbliga a una citazione di Paul Ricoeur (si veda: Soi même comme un autre, éditions du Seuil, Paris 1990 p. 140 e sgg) dove "idemità" imbevute nelle tradizioni e "ipseità" vissute esibiscono una differenza dilagante nel "contemporaneo". Fornet-Bétancourt sottolinea la vocazione performativa, che connette enunciazione e azione, ovvero progettare, costruire e abitare, della "filosofia della liberazione": fra il 1943 (Zea) e il 1973 (Dussel) questa linea di pensiero si separa e poi abbandona la linea messicana di rivisitazione della filosofia occidentale per crescere autonomamente. Subentra il bisogno di un ascolto che si misuri con il compimento dell'azione mediante un'esperienza (le ermeneutiche del non identico) orizzontale e sinergica. Si stagliano su analoghi orizzonti problematici la "teologia della liberazione" di Boff e Gutierrez e quella "nera" in Africa e nell'Occidente nordamericano dove sono presto affiancate da istanze femministe ed ebraiche destinate a traboccare pure in Europa. Cito, infine, il film Un giorno devi andare, girato da Giorgio Diritti nel 2012 in Amazzonia, che narra un episodio significante di questa temperie. Per la mia generazione la lontananza dagli ingredienti della cultura di Sinistra appare enorme e difficile da colmare, così come per quelle successive interviene il rischio di uno "spaesamento" altrettanto profondo.
(8) Clément G., Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2006: accanto a quello naturale e culturale cresce quello del suolo abbandonato . (9) de Certeau M., La invenzione del quotidiano, Ed. Lavoro, Roma 2001, p. 141 e sgg: la "città-concetto", prodotta dal potere e dal mercato, è rivisitata e contraddetta sotto traccia dallo "spazio agito" dall'"uomo comune". (10) Alasia F. e Montaldi D., Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli, Milano 1960. (11) V. in proposito, se non altro come testimonianza storica: Piccinato L., voce Urbanistica, in Enciclopedia Italiana, vol. XXXIV, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma 1937. (12) Della relazione Belloni ho fornito vent'anni fa un consuntivo in: Il dibattito urbanistico a Milano fra Resistenza e ricostruzione postbellica, pubblicato negli atti del convegno e catalogo della mostra, a cura di Silvestri A., Il ruolo del Politecnico di Milano nel periodo della Liberazione, Scheiwiller, Milano 1996, p. 72 e sgg. (13) Sassen S., La città nell'economia globale, il Mulino, Bologna 2003. (14) Poëte M., Paris son évolution créatrice, Vincent, Fréal et Cie, Paris 1938. Il richiamo non può sottrarsi a un chiarimento del proprio porsi all'interno di quel vasto e contraddittorio orizzonte di ricerca che viene solitamente chiamato "biologismo" e che conta fra i propri cultori dallo stesso Bergson, indubbio ispiratore di Poëte, a Mumford, ma anche Spengler e magari Evola in una critica della Modernità di cui nel nostro Paese lo stesso Evola si fa ispiratore. Il concetto di "ritorno integrale" dedotto da Guénon attraverso un paragone astronomico (il pianeta si muove intorno a se stesso ma anche verso il proprio punto di partenza) è antistorico perché non può esserci un sapere ultimo, né possiamo accettarlo come un'ipotesi di ordine scientifico (Guénot R., La crisi del mondo moderno, Ed. mediterranee, Roma 2015 e, ivi, l'introduzione di Evola J., p. 17 e sgg). Poëte segue un'altra traiettoria in cui la lezione di Bergson, che nel pieno clima materialistico e naturalistico fra Ottocento e Novecento indica nella "durata" un presente vivente (matière et mémoire) animatore dell'evoluzione creatrice, diventa reattiva nei confronti della staticità del materialismo come dello spazio astratto dove Galileo e Newton hanno confinato la natura. (15) Esemplare il percorso architettonico, poetico e storico-critico di Aldo Rossi come viene emergendo in: Architettura della città, Marsilio, Padova 1966. (16) Di Cavalli Sforza L. L., v.: L'evoluzione della cultura, Codice ed., Torino 2010: tesi centrale del libro: l'"affinità" tra evoluzione e storia. Di Burke P., v.: La storia culturale (il Mulino, Bologna 2006) che affronta le nuove tematiche del corpo, della memoria e delle identità individuali e collettive . (17) Mi limito a citare: Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane (BUR Rizzoli, Milano 1967), senza dimenticare le opere dei cosiddetti "postrutturalisti" (Deleuze , Derrida , Lacan) tanto più oggi, quando lo spazio aperto all'occidentalizzazione del pianeta in salsa americana dallo sfascio del mondo sovietico, si riempie ogni giorno di nuove contraddizioni e di altrettanto nuovi e spesso sanguinosi conflitti . (18) Ricordo circa quest'ultimo argomento la brillante e al tempo stesso penetrante intervista a Serres, "la Repubblica", 18 aprile 2015 e soprattutto di Stoll, C., Miracoli virtuali, Garzanti, Milano 1996. (19) Al "volto" delle vecchie culture e di un multiculturalismo circoscritto a queste ultime si contrappone quello del "popolo nuovo" che viene ad abitare il territorio a seguito e oltre il migrare nelle sue dimensioni recenti. È la stessa personalità dell'"uomo comune" (v. per es. la testimonianza di Quirico D., Migranti: il popolo nuovo, "C&D - Città e dintorni", 118/2016) a dovere confrontarsi con vicinanze, prossimità ed estraneità evolventi. (20) Legrenzi P. e Umiltà C., Neuromania, il Mulino, Bologna 2009; degli stessi autori, v. anche: Perché abbiamo bisogno dell'anima, il Mulino, Bologna 2014. (21) Mallgrave H. F., La empatia degli spazi. Architettura e neuroscienze, Raffaello Cortina, Milano 2015. "Guardare un edificio, una stanza oppure un oggetto di design - osserva Gallese introducendo il libro citato - significa anche simulare i movimenti e le azioni che quegli spazi evocano": in altre parole la "cognizione motoria" non incide soltanto sull'esecuzione dell'azione ma, a partire dalla percezione, sull'imitazione e sulla immaginazione e, ancora, sulla comprensione dell'"altro". È ancora una ricerca in movimento contro il "solipsismo" della visione di impronta cartesiana, che ha dominato per secoli la estetica occidentale, mettendo in risalto - osserva ancora Gallese il debito ermeneutico delle "neuro +" e avvicinando mente e corpo, soggetto e oggetto, l'io e il tu. Sono temi già noti alla ermeneutica heideggeriana e gadameriana, ma anche presenti intorno alla metà del secolo scorso dalla pittura informale negli Stati Uniti attraverso la ricerca e l'opera di artisti, pur diversi, come Hofmann e Pollock, Rothko, Kline, Still e altri. (22) Voci MC., Rinascita urbana, "Casa Naturale", 28-29/2016. (23) V. l'intervista di Zita Dazzi, "la Repubblica", 3 giugno 2016. (24) Rifkin J., Economia all'idrogeno. La creazione del Wordlwide Energy Web e la ridistribuzione del potere sulla terra, Mondadori, Milano 2002. Rifkin J., La terza rivoluzione industriale. Come il "potere laterale" sta trasformando l'energia, l'economia e il mondo, Mondadori, Milano 2011. Fin dal 2008 Ministero dell'Ambiente e Regione Puglia hanno dato vita a una rete di distributori di idrogeno, metano e idrometano ottenuti da fonti rinnovabili disponibili o allestite in loco. (25) "Costruire, pensare e abitare l'ipogeo" (nel sottotitolo della Filosofia del nascosto di Croatto G. e di Boschi A., Marsilio, Venezia 2015) soprattutto per i temi che prospetta nella rivisitazione tecnologica dell'artefatto sullo sfondo di paesaggi gravemente compromessi in soprassuolo dal progetto ricorrente, pur sotto diverse insegne, nel "territorio della Modernità". Non sono soltanto le conflittualità di natura geotecnica ed idraulica cui il libro pone peraltro innegabile attenzione a indurre alla cautela soprattutto dopo i recenti disastri sulla riviera atlantica degli Stati Uniti, ma l'impatto con i giacimenti storici del sottosuolo e con le risorse capaci di alimentare il paesaggio terzo. (26) A questo proposito segnalo di Modeo S., Nel labirinto dei neuroni ("La lettura" 88/ 28-07-2013) come pure di Seung S., Connettoma. La nuova geografia della mente (Le Scienze, Torino 2013). (27) Per quanto riguarda il dualismo "territorio della Modernità" e "Modernità del territorio" segnalo l'introduzione dal titolo Gli orizzonti dell'urbanistica tra fortuna e crisi della modernità che ho scritto per Il nuovo manuale di urbanistica (direttore scientifico L. Benevolo), Mancosu, Roma 2009, p. A3 e sgg e, nello stesso volume, Maderna M., Tre parole-chiave, p. A64 e sgg. (28) Piccinato L., Guardare Milano, "Urbanistica", 18 e 19/1956.
NdC - Silvano Tintori è stato professore ordinario di urbanistica presso entrambe le Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Ha lavorato alla definizione del Piano Intercomunale Milanese (1964-1967) e nel capoluogo lombardo, negli anni settanta del secolo scorso, alla variante "partecipata" del quartiere Gallaratese. In Lombardia ha redatto i piani di Cremona, Lodi e Mantova, nonché strumenti urbanistici, comunali e regionali, in Abruzzo, Emilia-Romagna, Liguria e Marche.
Accanto a saggi e articoli pubblicati su riviste specializzate - in particolare la "Casabella-continuità" di Rogers - si ricordano i volumi: L'individualità urbana (Dedalo, Bari 1968); Piano e pianificatori dall'età napoleonica al fascismo (FrancoAngeli, Milano, in varie edizioni fra il 1985 e il 1992) e il saggio Orizzonti dell'urbanistica tra fortuna e crisi della Modernità comparso in apertura del primo volume de Il nuovo manuale di urbanistica diretto da Leonardo Benevolo (Mancosu, Roma 2008).
Del suo lavoro di architetto rendono testimonianza nel capoluogo lombardo e nell'hinterland milanese numerosi edifici pubblici e privati, pubblicati in riviste specializzate e monografie; a Brescia il progetto, tradito in fase esecutiva, della nuova sede della Facoltà di Ingegneria.
Sul tema della città metropolitana v. anche: Lodovico Meneghetti, Città metropolitana, policentrismo, paesaggio (14 luglio 2016); Andrea Villani, Progettare il futuro o gestire gli eventi? (21 luglio 2016).
I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 28 LUGLIO 2016 |