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Così come nei precedenti, anche nel suo ultimo libro - La piazza europea (Marsilio, 2015) - Marco Romano dedica particolare attenzione all'aspetto estetico della città. Quella della bellezza, della bellezza delle città e dei luoghi urbani, è una questione enorme e complicata, certamente non nuova e tuttavia intrigante e stimolante. Siamo in grado, oggi, di dire se un edificio o un complesso di edifici, ogni cosa materiale, fisica, che si presenta sulla scena urbana possa dirsi oggettivamente bella? Esiste qualche concezione unanimemente condivisa della bellezza, un termine di riferimento al quale cose reali o immaginarie possano essere paragonate per verificarne questo attributo? O invece una simile oggettività non esiste e non può essere trovata? Non è forse vero che questa caratteristica è inevitabilmente connessa con i gusti e le sensibilità individuali o, forse più probabilmente, con quelli di gruppi di individui omogenei per cultura, tradizioni, storia, cosicché è possibile affermare che non c'è un'unica concezione di bellezza, ma questa è definita, stabilita, accettata e individuata in una varietà di elementi e possibilità?
Fin dal suo La città come opera d'arte (Einaudi, 2008), Romano ha spesso fatto riferimento all'intenzionalità estetica come condizione per ottenere bellezza. Un edificio, nel caso delle città, sarebbe bello se progettato e costruito con questo specifico obiettivo, ovvero perseguendo l'idea del bello da parte del cittadino che ne è proprietario e lo realizza. L'esempio che portò a sostegno di questa tesi in occasione dell'incontro che si tenne alla Casa della Cultura nel maggio 2013 [nell'ambito del ciclo "Città Bene Comune", n.d.c.] era semplice. Riguardava gli abiti che indossava. Un abbigliamento che, a titolo di esempio, riteneva elegante, bello, perché frutto di una scelta e di accostamenti cromatici, materici e formali premeditati (per la giacca, la camicia, i pantaloni, le calze, le scarpe). Ecco, qui sta il problema. Romano può essere certo che tutti i presenti a quell'incontro avessero la stessa opinione? E inoltre: se abbiamo una classe, un gruppo di persone che devono stare insieme, vivere insieme, e ognuno può giustamente scegliere i suoi abiti, possiamo essere certi che il risultato di questo insieme, dal punto di vista estetico, sia non diciamo bello, ma almeno complessivamente gradevole? In altri termini, e riferendoci alla città, chi è - o chi dovrebbe essere - colui che decide della bellezza di un edificio, di un contesto urbano, della città nel suo insieme?
Spesso sentiamo dire, citando Dostoevskij, "La bellezza salverà il mondo". Questo mi sembra uno di quei detti famosi che aspirerebbero a essere pieni di saggezza, mentre in realtà sono delle scatole vuote e alla fine, quanto meno in termini pratici, senza senso. Di fatto, com'è evidente, dire "bellezza" non è come dire "pane" o "cavallo". Noi tutti conosciamo e concordiamo su cosa indichino le parole "pane" e "cavallo" ma sappiamo bene che non è semplice trovare accordo sul significato e il valore della parola "bellezza", così come di altre espressioni in cui siano implicati giudizi concernenti qualità e anche differenti livelli di qualità. Cosa implica questo? Implica forse di non dover usare più questo termine o la rinuncia a questo parametro di giudizio con tutte le conseguenze anche pratiche che da ciò possono derivare? No, implica piuttosto la necessità di provare a cercare un minimo comun denominatore, quell'area dove i diversi modi di intendere la bellezza si sovrappongono. Quando migliaia di persone fanno la coda per andare a vedere Amore e Psiche di Canova esposto a Palazzo Marino a Milano, o altre migliaia applaudono alla fine di un concerto alla Scala o a Salisburgo, penso che quelle persone siano profondamente coinvolte nei confronti di quella scultura, quello spettacolo, quella musica. Ma penso anche che lo siano non solo individualmente, ma coralmente. Lo stesso può dirsi degli uomini e donne di tutte le età che nei loro viaggi si fermano di fronte alla villa Barbaro a Maser, o in Piazza di Spagna a Roma, con la Trinità dei Monti di fronte, oppure stanno a guardare l'antico teatro greco di Epidauro (cito architetture e spazi urbani la cui visione mi ha sempre dato un'enorme emozione). Quando uno spettacolo, una performance musicale, un dipinto, una scultura, un'architettura, danno una profonda emozione probabilmente connessa a quella particolare caratteristica che definiamo bellezza, forse non possiamo affermare con certezza che in queste opere questa ci sia effettivamente, tuttavia ne possiamo dedurre che per molte persone (forse la maggioranza) sia possibile asserire che qualcosa definibile bellezza esiste, anche se questa non ha esattamente il medesimo significato per tutti. Come l'ethos per le questioni etiche, così la bellezza per le questioni estetiche si articola in un'ampia sfera di criteri di giudizio in ogni tempo e in ogni popolo. E questo spiega perché lavori considerati di superba bellezza in certi momenti della storia, in certi paesi, da certi popoli, sono disprezzati - come criterio dominante di giudizio e di valutazione - in altri tempi, in altri paesi, da altri popoli. E in ogni tempo noi possiamo analizzare perché talune opere d'arte a noi personalmente (o magari alla maggioranza in un paese) appaiono importanti espressioni di bellezza o invece senza importanza, e come tali sono definite.
Se quanto detto è vero, diventa allora molto difficile esprimere un giudizio sulle scelte compiute dalla pubblica amministrazione, da un operatore immobiliare o da un architetto riguardo le forme di un'architettura, un quartiere, una piazza, un edificio. Per esempio, abbiamo letto sui giornali, e anche in questa rubrica, che per alcuni gli interventi di City Life o di Garibaldi-Porta Nuova sono brutti, sgradevoli, senza capacità di dare emozioni così come più abitualmente lo sono architetture o spazi urbani della città storica. Una tesi che può essere condivisa ma allo stesso tempo messa in discussione o perfino rigettata per molte altrettanto valide ragioni da altre persone. E, si noti, persone ugualmente amanti della bellezza della città, dell'architettura, delle arti esattamente come le prime. Tuttavia, che ci sia una pluralità di valori e di punti di vista sui fondamentali modi di sentire e di essere nella nostra società e nella nostra storia non significa affatto che, come cittadino, intellettuale e pianificatore, li consideri tutti sullo stesso piano, ugualmente apprezzabili per una buona vita e per la costruzione di un buona società, di una buona e bella città. Piuttosto, vuol dire che dovrei adoperarmi per far emergere quello che mi sembra grande, valido, giusto, bello, buono, apprezzabile, sublime: dovrei cioè agire - attraverso il progetto - affinché si affermi una sensibilità ampia e condivisa rispetto a certe forme architettoniche e urbane.
Marco Romano, al contrario, mi pare abbracci un approccio relativistico, specie quando sostiene che per la città e il territorio non può esserci un concetto di bellezza stabilito a priori, come regola imposta da strumenti urbanistici (normativi o pianificatori) espressione di una volontà pubblica o almeno collettiva. Ogni cittadino, per Romano, dovrebbe essere libero di scegliere quando, dove e soprattutto come costruire una casa o una struttura di qualsiasi tipo gli sia utile (questa tesi è argomentata approfonditamente nel suo Liberi di costruire, Bollati Boringhieri, Torino 2013). In questo modo, promotori, proprietari e designer di un edificio deciderebbero le forme del progetto senza vincoli, secondo la loro concezione di bellezza e l'intera città sarebbe l'esito imprevedibile di queste singole iniziative. Ora, tra le tesi di Romano, questa è forse quella che più si presta a critiche - ed è di fatto criticata - perché fondata sulla soggettività delle legittime opinioni delle persone; su una descrizione parziale di contesti pur corrispondenti a parti significative della città; su convinzioni che derivano da una lettura improbabile o perfino sbagliata della storia, nonché da giudizi ideologici o politici sulla cultura urbanistica moderna, i suoi strumenti e le sue norme.
Prima di tutto è necessario ricordare una cosa che dovrebbe essere ovvia, ovvero che la città non è fatta soltanto di edifici come abitazioni, fabbriche, negozi, etc. ad uso dei privati ma anche - se si parla di una città e non di una favela o di una shanty-town - di un sistema di strade per connettere vari insediamenti nonché di strutture al servizio della collettività, come centri per i servizi politici e amministrativi, per la sicurezza (caserme per l'esercito e la polizia) oltre che, naturalmente, scuole, chiese, palestre, stadi, musei, ospedali e servizi di varia natura. Soprattutto dal secondo dopoguerra, la pianificazione urbanistica ha proceduto definendo l'uso del suolo in tutto il territorio municipale, cioè non solo l'area da destinare ai vari tipi di edifici privati, ma anche quella per gli edifici e gli spazi pubblici, il tutto organizzato su una adeguata rete di infrastrutture per la mobilità. Se l'insieme di queste realizzazioni non fosse stato coordinato da una qualche forma di pianificazione, se fossero state costruite senza regole, la città che si sarebbe costituita nel tempo avrebbe dato luogo a situazioni di caos non solo estetico ma soprattutto funzionale e si sarebbe tradotta in definitiva in una realtà orrenda, assai più di quanto talvolta non ci appaia oggi. Questo perché, certamente, non c'è una "mano invisibile" che conduce a un buono, ordinato esito in un insieme di iniziative non coordinate.
Bisogna tuttavia riconoscere che anche in quegli ambiti soggetti alla pianificazione urbanistica prodotta e attuata dagli anni Settanta agli anni Novanta del secolo scorso è stato possibile giungere in diversi casi a esiti caratterizzati da disordine estetico e funzionale. Su questo Romano ha ragione. Questo perchè se, per esempio, nel piano urbanistico ampie aree erano state destinate a una particolare destinazione d'uso, non necessariamente la realizzazione degli edifici da parte di privati o enti pubblici ha poi seguito un programma tale da realizzare in modo incrementale, cioè man mano, qualcosa che determinasse una forma coerente con gli spazi urbani della città premoderna o una razionale dotazione funzionale. Talvolta ciò che si è realizzato è stato qualcosa di frammentato, incoerente, inefficiente, per non parlare di quello che gli anglosassoni definiscono urban sprawl e noi "città diffusa" o "città dispersa". Dunque - anche se non si deve sottovalutare il fatto che spesso gli edifici realizzati in tali contesti sono frutto di iniziative, sforzi, risparmi, magari di una vita, di persone che uscite da una condizione di povertà vedevano come un enorme successo il fatto di essere in grado di diventare proprietari della loro casa - non si può che constatare che altrettanto spesso, il complesso, l'insieme di tutte queste private iniziative sia risultato poco o per nulla gradevole e positivo per tutti. E sottolineo: l'insieme, il complesso.
Eppure i fallimenti dell'urbanistica moderna non fanno venire meno la necessità della pianificazione mentre Marco Romano - come altri pensatori impegnati in una riflessione su questioni ideologiche e politiche sul giusto modo di procedere nella nostra società - sembra optare esplicitamente per una via libertaria, spinta addirittura all'estremo. All'inizio del suo Liberi di costruire cita un sostenitore del liberalismo (anche in un approccio libertario) come Bruno Leoni (e anche come John Rawls, che peraltro non ha dedicato una particolare attenzione alle libere espressioni nei diversi ambiti). Altri esponenti del pensiero individualistico neo-liberale cui Romano ha fatto di volta in volta riferimento sono Popper, von Mises, Hayek, James M. Buchanan, Gordon Tullock. Questi, insieme ai loro seguaci e allievi, si sono opposti non soltanto alla pianificazione economica e sociale centralizzata, nello stile praticato nei paesi del "socialismo reale", ma anche alla pianificazione proposta e in una certa misura realizzata nei paesi europei, a iniziare dalla Gran Bretagna, attraverso il welfare state: un progetto non-individualistico - che avrebbe dovuto portare a un'economia e a una società regolate e anche a un ambiente pianificato - tra i cui maestri ricordiamo William Beveridge e John Maynard Keynes - e i pianificatori urbani britannici, a iniziare da Patrick Abercrombie. Il problema è che entrambe le grandi soluzioni politiche - come spesso lo sono quelle polarizzate a un'estremità - mostrano aporie in quanto caratterizzate da contraddizioni e difficoltà.
La necessità di un intervento pubblico superiore è riconosciuta anche da Marco Romano quando enfatizza l'importanza e il bisogno di creare "piazze e vie tematiche"; cioè parti della città qualificate dalla presenza di particolari funzioni, espressioni del potere civile, della religione, delle arti: teatri, scuole, università, sale da concerto, musei, negozi, per citare le più importanti. E la qualità delle architetture dovrebbe essere adeguata alla loro importanza. Il fatto è che sia per quanto riguarda il piano per realizzare queste parti di città come per i relativi edifici, le decisioni - e anche i finanziamenti per realizzare queste idee - sono necessariamente prese da un potere stabilito sui comuni cittadini. Potere che oggi non sarebbe, come nel passato, di autocrati civili o religiosi: imperatori, re, principi, nobili, vescovi, priori di comunità di monaci, o in altri casi ricchi mercanti e banchieri, o militari in grado di decidere anche grandi interventi architettonici nella città. Anche in società democratiche come in Francia e in Gran Bretagna, dove il sistema è tale da attribuire un potere effettivo ai governanti eletti, è stato possibile anche nell'ultimo mezzo secolo realizzare edifici di alta qualità e di enorme importanza. Questo perché la democrazia - insieme col liberalismo - è il sistema che dà a ogni individuo la libertà di esprimere pubblicamente i suoi sentimenti, le sue opinioni e di votare per certe persone politicamente orientate, anche se sull'esito di questo voto l'influenza del singolo cittadino è infinitesima e le decisioni finali, e la loro traduzione in concreto, possono contraddire ampiamente i suoi desideri, quanto meno quelli della minoranza dei cittadini elettori. Possiamo dunque affermare che l'applicazione di criteri democratici dal più alto fino al più basso livello non necessariamente deve essere tale da annullare o ferire i desideri di quei cittadini che preferirebbero seguire un sentiero stabilito da loro stessi invece che da tecnici al servizio delle autorità. Si tratta di trovare un punto di incontro che sia frutto di una mediazione tra coloro che desiderano una totale libertà d'azione e coloro che preferirebbero una soluzione stabilita completamente da esperti: soprattutto per quanto attiene il city planning e il disegno urbano di una città, di un quartiere o di una unità di vicinato.
L'ultima questione da considerare riguarda lo scopo del pianificare, il ruolo dei pianificatori, dell'architettura e degli architetti nel determinare la qualità della città. E questo in particolare per ciò che attiene la possibilità di dare qualcosa di bello e buono ai non-privilegiati, ai poveri della città e nelle città. Già Bernardo Secchi, nel suo La città dei ricchi e la città dei poveri (Laterza, 2013), aveva sostenuto l'idea dell'esigenza e allo stesso tempo della possibilità di utilizzare la pianificazione per ridurre le diseguaglianza e per garantire cittadinanza. Marco Romano, invece, sembra sostenere che da centinaia di anni nelle città del mondo occidentale, in Francia come in Gran Bretagna come in Italia, vi fossero democrazia e pari opportunità, e allo stesso tempo vi fosse, in generale, un clima di uguaglianza se non perfino condizioni effettive di uguaglianza. In realtà, liberalismo e democrazia hanno vita da un tempo molto breve e l'uguaglianza è un sogno di pochi, durante tutti i secoli, con limitati e anche non esaltanti esiti. Due sole cose, per brevità, vogliamo qui ricordare. La prima è che, senza dubbio, dal medioevo al diciannovesimo secolo con lo sforzo di molti, in generale delle classi subalterne, furono ottenute le risorse per creare quegli straordinari edifici (ville, palazzi e castelli) o ambiti urbani che ancor oggi fanno la bellezza delle città e dei paesaggi europei. Ville, palazzi e castelli che ovviamente non erano per tutti ma furono costruiti soprattutto per principi e nobili, e successivamente, dopo la rivoluzione industriale, per la borghesia ricca. La seconda è che dal tempo della democrazia, con il diritto universale di voto e le relative conseguenze in termini politici, è stato perseguito soprattutto in Europa il welfare state, e con questo anche una politica di pianificazione urbana e regionale. Certamente il folle obiettivo dell'uguaglianza tra proletariato e appartenenti ai ceti abbienti, well-to-do, non è stato mai raggiunto. Ma in generale, almeno nei paesi europei più avanzati, è stato perseguito l'obiettivo di permettere a ogni cittadino condizioni di vita decorose: "from the cradle till the grave", dalla culla alla bara, si teorizzò, per esempio, nel Piano Beveridge del welfare state britannico del 1942. Un piano che - tra l'altro - implicò in campo urbanistico la creazione di new-towns e la riqualificazione di tutti gli insediamenti popolari nelle città industriali, Birmingham, Leeds, Londra. Questo per dire che prima di esprimere un giudizio, soprattutto estetico, sulle città nuove o rinnovate di tutta Europa nella seconda metà del novecento, si dovrebbe cercare di considerarne la genesi, la storia politica e sociale, senza dimenticare ciò che hanno rappresentato al momento della loro realizzazione per moltissimi cittadini.
Andrea Villani
NdC - Andrea Villani ha studiato scienze economiche all'Università Cattolica di Milano, filosofia alla Statale di Milano e architettura al Politecnico di Torino. Ha diretto il Centro Studi Piano Intercomunale Milanese (PIM) ed è stato membro della Giunta Esecutiva della XVI Triennale. Docente di Economia Urbana e coordinatore del programma Sulla città, oggi del Dipartimento di Economia Internazionale, delle Istituzioni e dello Sviluppo dell'Università Cattolica di Milano, è stato direttore di "Città e Società" e condirettore di "Edilizia Popolare". Villani è stato anche visiting scholar presso la Research School of Social Sciences della Australian National University di Canberra; il Public Choice Center della George Mason University di Fairfax (Virginia); il Department of Economics dell'Università di Toronto (Ontario); il Department of Economics dell'Università di Tucson (Arizona).
Tra i suoi scritti: Le strutture amministrative locali (1968); La politica dell'abitazione (1971); Tesi sulla casa e la città (1974); Piani urbanistici per una città metropolitana (1980); La Città del Buongoverno (2002); La gestione del territorio: gli attori, le regole (2002): Per una nuova politica della casa (2006); I luoghi dell'accoglienza. Per un nuovo welfare dell'alloggio (2007).
Sull'ultimo libro di Marco Romano (La piazza europea, Marsilio, 2015) v. anche i commenti di: Paolo Colarossi, Fare piazze (10 marzo 2016) e di Franco Mancuso, Identità e cittadinanza nelle piazze d'Europa (2 settembre 2016).
NB. I grassetti nel testo sono nostri
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© RIPRODUZIONE RISERVATA 09 DICEMBRE 2016 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di dibattito sulla città, il territorio e la cultura del progetto urbano e territoriale
a cura di Renzo Riboldazzi cittabenecomune@casadellacultura.it
Gli incontri
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Interventi, commenti, letture
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- M. Ruzzenenti, Riprogettare le città a 40 anni da Seveso, riflessione a partire dal libro di D. Bianchessi, La fabbrica dei profumi. Seveso 40 anni fa (Jaca Book, 2016)
- G. Nebbia, Dall'abbondanza all'abbastanza, commento a: J. Rockström e M. Klum, Grande mondo, piccolo pianeta (Ed. Ambiente, 2015)
- P. L. Cervellati, La città madre di città, commento a: R. Milani, L'arte delle città (il Mulino, 2015)
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- B. De Bernardinis, Per una nuova cultura del suolo, commento a: P. Pileri, Che cosa c'è sotto: il suolo, i suoi segreti, le ragioni per difenderlo (Altreconomia, 2015)
- V. Pujia, Politiche per la casa: una difficile transizione, commento a: S. Santangelo, Edilizia sociale e urbanistica (Carocci, 2015)
- U. Fadini, Per una nuova alleanza tra città e campagna, commento a: I. Agostini, Il diritto alla campagna (Ediesse, Roma, 2015)
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- V. Gregotti, Il futuro si costruisce giorno per giorno, intervento all'incontro su Bernardo Secchi, 23 maggio 2016.
- P. Gabellini, Un razionalismo intriso di umanesimo, commento a: R. Pavia, Il passo delle città (Donzelli, 2015)
- A. Lanzani, Quali politiche per la città?, Commento al primo rapporto di Urban@it
- M. Romano, I nemici della libertà commento a: A. Lanzani, Città territorio urbanistica tra crisi e contrazione (FrancoAngeli, 2015)
- F. Mancuso, Identità e cittadinanza nelle piazze d'Europa, commento a: M. Romano, La piazza europea (Marsilio, 2015)
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- A. Villani, Progettare il futuro o gestire gli eventi? Le origini della pianificazione della città metropolitana
- L. Meneghetti, Città metropolitana, policentrismo, paesaggio
- A. Monestiroli, Quando è l'architettura a fare la città. Cosa ho imparato da Milano
- F. Ventura, Urbanistica: né etica, né diritto, commento a: S. Moroni, Libertà e innovazione nella città sostenibile (Carocci, 2015)
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- J.Gardella, Mezzo secolo di architettura e urbanistica, dialogo immaginario sulla mostra "Comunità Italia", Triennale di Milano, 2015-16
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- L. Meneghetti, Casa, lavoro cittadinanza. Il nodo irrisolto dell'immigrazione nelle città italiane
- M. Romano, Urbanistica: 'ingiustificata protervia', recensione a: S. Moroni, Libertà e innovazione nella città sostenibile (Carocci, 2015)
- P. Pileri, Laudato si': una sfida (anche) per l'urbanistica, commento all'enciclica di Papa Francesco (2015)
- P. Maddalena, La bellezza della casa comune, bene supremo. Commento alla Laudato si' di Papa Francesco (2015)
- S. Settis, Cieca invettiva o manifesto per una nuova urbanistica? Recensione a: F. La Cecla, Contro l'urbanistica (Einaudi, 2015)
- V. Gregotti, Città/cittadinanza: binomio inscindibile, Recensione a: L. Mazza, Spazio e cittadinanza (Donzelli, 2015)
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- R. Riboldazzi, Città: e se ricominciassimo dall'uomo (e dai suoi rifiuti)? Recensione a: R. Pavia, Il passo della città (Donzelli 2015)
- R. Riboldazzi, Suolo: tanti buoni motivi per preservarlo, recensione a: P. Pileri, Che cosa c'è sotto (Altreconomia, 2015)
- L. Mazza, intervento all'incontro con P. Maddalena su Il territorio bene comune degli italiani (Donzelli, 2014)
- L. Meneghetti, Dov'è la bellezza di Milano? , commento sui temi dell'incontro con P. Berdini su Le città fallite(Donzelli, 2014)
- J. Muzio, intervento all'incontro con T. Montanari su Le pietre e il popolo(mimum fax, 2013)
- P. Panza, segnalazione (sul Corriere della Sera dell'11.05.2014)
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