Giovanni Carosotti  
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UN ANNO DI SVOLTA PER LA SCUOLA


Impossibile 'imparare ad imparare' nell'indifferenza dei contenuti



Giovanni Carosotti


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Ad anno scolastico ormai avanzato, in prossimità della chiusura del primo trimestre per molti istituti, è possibile proporre alcune valutazioni sulla grande svolta che, da settembre, avrebbe dovuto interessare la scuola italiana. Lo scorso anno, nei documenti programmatici che il governo aveva pubblicato, in particolare in quello relativo alla "didattica digitale" (cfr. Il Prezzo della "scuola digitale"pagato dalla cultura), si affermava tra le righe la volontà, proprio a partire dal 20162017, di far sì che i docenti mutassero in modo radicale la loro pratica d'insegnamento, in coerenza con le nuove metodologie fondate, più che sul sapere disciplinare, sull'equivoco concetto di "competenze" (cfr. anche Gli insegnanti e "la buona scuola"). Una metodologia che, per convinzione profonda maturata in anni d'esperienza, non appartiene affatto alla grande maggioranza del corpo docente. La "legge 107" è stata approvata con un voto di fiducia nonostante il profondo dissenso manifestato dagli insegnanti. E, subito dopo, in nome di un decisionismo che fino a poco più di un anno fa sembrava vincente, il MIUR iniziò subito a dettare le nuove linee programmatiche, molto contestate nei più diversi ambiti intellettuali, come pure anche alla Casa della Cultura si è cercato di dare conto. Un atteggiamento provocatorio, sicuramente costato molto all'esecutivo dal punto di vista elettorale, e che ha condotto lo stesso ex presidente del Consiglio a riferirsi alla "Buona Scuola" come a un'occasione mancata, un'esperienza di cui il governo non poteva dirsi totalmente soddisfatto. Ad onta di ciò, l'ex ministra dell'Istruzione Stefania Giannini ha proseguito nella sua linea dura, pubblicando a ottobre un preoccupante documento sulla formazione obbligatoria dei docenti, nonché annunciando il proposito di inserire fin dalle elementari la nuova disciplina del coding, per ben 60 ore all'anno.

Il sostanziale immobilismo della classe docente, registratosi in particolare lo scorso anno scolastico, quando ancora forse c'era la possibilità di capitalizzare quell'80% di partecipazione allo sciopero contro la riforma della scuola, ha illuso il governo di poter continuare nella politica delle innovazioni imposte dall'alto, senza confronto. In realtà, dietro l'impressione di soggettività disperse, le reazioni degli insegnanti alle diverse nuove iniziative, se attentamente valutate, restituiscono un sentimento diffuso, anche se ancora frammentato, che potrebbe facilmente, se convogliato da organizzazioni sindacali accorte, esprimersi in modo strutturato. Basti valutare le espressioni di dissenso della quasi totalità dei docenti sui social network, quando nelle pagine di associazioni specializzate vengono annunciati corsi di formazione metodologica basati sui deboli assunti del cognitivismo. Anche presso alcune testate tutt'altro che pregiudizialmente ostili al governo, sempre più spazio viene concesso a esternazioni preoccupate o sconfortate dei lavoratori della scuola.

Non è forse un caso che, con il cambio di governo verificatosi all'indomani del Referendum sulla "riforma costituzionale", si sia decisa la sostituzione della ministra dell'Istruzione. È impossibile affermare se tale decisione presupponga una politica di discontinuità rispetto agli ultimi due anni; vorremmo però in queste righe dare ragione di alcune questioni critiche che hanno investito la scuola italiana con la Legge 107, e che il nuovo esecutivo dovrà affrontare.

Per quanto fitta di provvedimenti a volte incoerenti, e sicuramente affrettati, la Legge 107 rispondeva a un preciso obiettivo di trasformazione sistemica. Il proposito vero che stava alla base delle iniziative del governo era quello di scardinare i presupposti della professione docente, attribuendo alla scuola una nuova funzione: non finalizzata alla formazione di una cittadinanza consapevole, ovvero di una personalità intellettuale capace di inserirsi nelle dinamiche sociali in modo critico e attivo, sapendole interpretare grazie ai contenuti appresi; bensì una finalità esclusivamente produttivistica, fondata non sullo specifico disciplinare, ma su abilità pratiche e propensioni metodologiche che si ritiene siano immediatamente spendibili nel mondo del lavoro. Un convincimento che, evidentemente, considera di secondo piano la formazione prettamente culturale.

A questa convinzione risponde il progetto che più ha sconvolto l'organizzazione della vita scolastica, ossia l' "Alternanza Scuola-lavoro". L'esecutivo si è richiamato ad esperienze analoghe esistenti in Europa, in realtà con strategie e obiettivi molto diversi (unicamente rivolte alle scuole tecnico professionali; progetti pensati e finanziati congiuntamente dal potere pubblico e dalle imprese, destinati a coinvolgere l'intero istituto scolastico). Il governo italiano ha invece introdotto l'obbligo di questa pratica, per un numero enorme di studenti, senza prima accertarsi della disponibilità delle aziende non solo a riceverli, ma anche a realizzare un progetto in linea con i fini formativo-educativi che la scuola dovrebbe avere. Per rendere stringente tale obbligo, il governo ha deciso di impostare il nuovo esame di stato in particolare sulla rendicontazione di tale esperienza, impedendo l'accesso agli esami per gli studenti che non avessero raggiunto il monte ore previsto; tale condizione-capestro ha costretto le scuole a una spasmodica ricerca di esperienze in cui impegnare gli alunni. Gli insegnanti sono diventati procacciatori di posti per l'alternanza; il numero delle riunioni dedicate a tale tema si è moltiplicato all'infinito, ben oltre l'orario previsto dal contratto di lavoro; col proposito, da parte degli insegnanti più responsabili, di dare luogo ad iniziative comunque significative, dignitose in relazione alle finalità dell'indirizzo di studio scelto. Ma questi buoni propositi -dei docenti ma non sembra dell'esecutivo- si scontrano con il numero troppo alto di studenti coinvolti, con un monte ore previsto esagerato, che mette gli istituti di fronte alle più gravi difficoltà. Una "lettera firmata" pubblicata dal Sole 24Ore ha avuto finalmente il coraggio di esprimere tutto il disagio degli insegnanti: "Le ore che la legge ci impone sono un'enormità, le scuole si devono inventare soluzioni disparate e disperate da far figurare come alternanza scuola-lavoro, e quindi vanno bene corsi teorici (basta che ci sia la parola "lavoro") tenuti in classe da qualche esperto, il riordino della biblioteca scolastica, una traduzione, un articoletto da mandare a un giornale, l'orientamento ai ragazzi delle medie e chi più ne ha più ne metta. Un delirio. Ci stiamo rendendo complici di una colossale mistificazione, di più, una farsa immorale che coinvolge, purtroppo, anche gli studenti". Interessante è anche la risposta di Fabrizio Galimberti (a titolo personale, ma che comunque coinvolge un quotidiano non certo irrilevante in relazione al tema in oggetto) nella quale si ammette come l'"alternanza scuola-lavoro" non ha particolare senso negli istituti liceali. 

Se valutiamo però l'iniziativa da un altro punto di vista, un risultato rispetto agli obiettivi inizialmente prefissati dalla Legge 107, questo progetto lo ha ottenuto: l'alternanza scuola-lavoro si introduce con una priorità assoluta nel lavoro didattico, scompiglia all'improvviso programmazioni, riduce le ore di lezione. In coerenza con un messaggio chiaro inviato dall'ultimo esecutivo: i contenuti disciplinari sono, alla luce delle nuove condizioni storico-economiche, meno rilevanti, e quindi possono essere sacrificati in vista di altri obiettivi. Da questo punto di vista, prioritaria risultava innanzitutto la disarticolazione dell'organizzazione precedente fondata sulle discipline.

Un'ulteriore iniziativa destinata a realizzare tale obiettivo è costituita dal nuovo documento, pubblicato a ottobre, intitolato "Piano per la formazione obbligatoria dei docenti" (cfr. per una valutazione più accurata Un lucido attacco alla libertà d’insegnamento: sul piano di formazione obbligatoria dei docenti italiani ): vi sono elencati i diversi ambiti sui cui d'ora in poi i docenti saranno obbligati ad aggiornarsi. Nessuno di essi coinvolge le discipline d'insegnamento; la preparazione maggiore o minore del docenti rispetto al sapere cui hanno dedicato anni di studio non sembra dunque rivestire particolare rilevanza per le autorità ministeriali. Le discipline sono solo un pretesto per altre finalità, ben più urgenti, rispetto alle quali gli insegnanti non risultano preparati. In questo senso si spiegano le brutali affermazioni dell'ex ministra Giannini, sul fatto che i docenti devono tornare sui banchi per imparare (Formazione obbligatoria, Giannini: i docenti tornino a scuola, basta col modello io spiego voi ascoltate). Persino quando gli ambiti previsti per la formazione sembrano finalizzati a sviluppare ulteriori conoscenze, in vista di una più agevole comunicazione del sapere disciplinare, -p.es. quelli dedicati all'informatica o alle lingue straniere-, essi vengono valorizzati esclusivamente quali paradigmi di una nuova strategia didattica, basata sulla semplificazione dei contenuti, sulla schematizzazione comunicativa, sulla formalizzazione della valutazione. Nel caso dell'informatica, in ragione dell'importanza acquisita dalla cultura digitale, essa diventa modello cognitivo per accostarsi a qualsiasi sapere, nell'indifferenza dei numerosi studi che hanno prefigurato i possibili effetti deleteri di una tale impostazione proprio dal punto di vista cognitivo (p. es. Spitzer o Maffei). Non si tratta infatti di insegnare meglio le proprie discipline, grazie all'ausilio della tecnologia informatica, bensì di insegnare l'informatica usando le discipline come pretesto (cfr. Formazione obbligatoria: tutti i docenti dovranno insegnare informatica. Il piano). Anche l'aggiornamento nelle lingue straniere non è finalizzato ad ampliare il possibile campo editoriale per l'aggiornamento disciplinare, ma all'acquisizione di una nuova metodologia didattica (il CLIL), che intende trasmettere i contenuti delle discipline non linguistiche in una lingua straniera (una lingua che gli studenti ancora non padroneggiano, in quanto la stanno apprendendo). Per forza di cose i contenuti disciplinari andranno semplificati, comunicati cioè attraverso slides (è possibile visionare alcuni esempi di tale didattica a questo link). La valutazione è dunque destinata a prescindere dalle capacità rielaborative, a favore di una semplice acquisizione mnemonica del lessico specialistico. Il fine formativo specifico della disciplina coinvolta viene così sacrificato, per acquisire abilità già previste nelle specifiche ore curricolari dedicate alle lingue straniere. Un modo per espellere dalla scuola la profondità, la pratica della riflessione e dell'interpretazione, della storiografia; quanto cioè risulta indispensabile per lo sviluppo del pensiero critico e di una adeguata preparazione culturale.

Risulta evidente come della professione docente, a partire da tali innovazioni, non rimanga quasi nulla: la preparazione pregressa degli insegnanti, nonché la metodologia di insegnamento da essi praticata sino a oggi, non servirebbe più nella nuova scuola e farebbe di essi dei professionisti inadeguati; da qui il carattere radicale del nuovo percorso di formazione. Questo discredito della professione docente, unendosi al nuovo meccanismo della "chiamata diretta", è destinato a condizionare la libertà d'insegnamento. Il dirigente scolastico, come è noto, ha la possibilità di scegliere -per ora ancora in modo graduale- l'organico del proprio istituto; i criteri di tale scelta devono fare soprattutto riferimento alla disponibilità del docente ad insegnare sulla base delle nuove discusse metodologie. La nuova titolarità su ambito territoriale molto ampio, e non più sulla scuola di appartenenza, fa sì che il Dirigente possa agire, per costringere ad adottare tali pratiche non necessariamente condivise, a una pressione oggettivamente indebita, condizionando in modo evidente le libere scelte dell'insegnante. Nelle prime dichiarazioni d'intenti, la nuova ministra Fedeli ha dichiarato che, rispetto al meccanismo della chiamata diretta, intende fissare dei parametri oggettivi di scelta cui i Dirigenti scolastici saranno vincolati. Ma è proprio questo il punto: se tali parametri saranno totalmente slegati dalle competenze disciplinari, e faranno riferimento unicamente a competenze esterne, i docenti più impegnati nel severo studio non solo delle loro discipline, ma della didattica disciplinare, finiranno con l'essere emarginati.

È chiaro quale sarebbe l'effetto di tale impostazione sulla preparazione culturale dei giovani e, in prospettiva, dell'intera società. Una scuola improntata soprattutto alla ricerca di un'efficienza produttivistica corre evidenti rischi: si illude di dare un aiuto pratico agli studenti in vista di una loro futura collocazione nel mercato del lavoro, ma in realtà non può che fornire conoscenze già obsolete a distanza di pochi anni. L'idea che le competenze metodologiche (l'"imparare ad imparare"), si possano trasmettere nell'indifferenza dei contenuti è un'illusione che già più di due decenni fa l'educatore e scrittore Hirsch jr., sulla base di un'esperienza vissuta negli Stati Uniti, aveva denunciato. Per perseguire obiettivi modesti e di dubbia utilità, la Buona Scuola rinuncia volutamente a formare personalità critiche, le sole in grado di dare un contributo effettivo alla crescita collettiva. Capaci, proprio per questo, di resistere ai ragionamenti semplificanti propri delle ideologie regressive, che si stanno sempre più diffondendo in Europa. Peraltro proprio in quei Paesi in cui da tempo questa sindrome produttivistica ha investito il mondo dell'istruzione; nonostante gli ottimi risultati raggiunti nei test internazionali -impostati però, come più volte contestato a livello internazionale, proprio per valorizzare un certo tipo di formalismo pedagogico- non sono riuscite a frenare il diffondersi, presso la popolazione giovanile, di sentimenti di intolleranza. Possibili da contrastare solo attraverso una scuola finalizzata alla valorizzazione della cultura, della problematica storiografica, della capacità interpretante.

 


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02 GENNAIO 2017