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Farò un intervento breve per lasciare la parola all'autrice; solitamente nella presentazione dei libri si va per ascoltare l'autore del libro, io quindi farò poche note a partire da una constatazione che mi fa piacere fare.
Io e Marisa Fiumanò non ci frequentiamo, è la prima volta che ci troviamo a un tavolo insieme.
I lacaniani sono una razza, sono una razza litigiosa, diciamo così, è difficile che si parlino, che si trovino allo stesso tavolo, appartenendo a scuole, a comunità di lavoro differenti. Il fatto che io mi trovi qui mi fa molto piacere, è un trovarsi qui in controtendenza rispetto a questo sintomo collettivo del lacanismo che ha prodotto diaspore, scissioni, frammentazioni, che ha indebolito per certi versi il nostro movimento.
La seconda considerazione è che quando mi capita di presentare un libro, di leggere un libro di un autore o di un'autrice di cui conosco anche altri libri, mi viene naturale cercare di trovare un filo che collega la sua produzione. Non solo un filo interno a questo testo. Sono stato un lettore di Marisa Fiumanò. Lei non lo sa ma glielo dico ora: ricordo benissimo nella seconda metà degli anni '80, in questa sala, un convegno organizzato da te (1) molto importante sul tempo e il transfert, con la presenza anche di Silvia Vegetti, che fece una straordinaria e memorabile relazione finale; c'era anche Elvio Facchinelli, fra l'altro è stato il mio primo incontro con lui, e poi c'è stata la raccolta degli atti.
Fu una giornata molto importante per me, che ero un giovane studente di filosofia, diviso tra la passione filosofica e l'interesse per la psicoanalisi. Ma oltre a questa giornata, dove io ascoltai per la prima volta Marisa Fiumanò, mi pare giusto ricordare due testi, che sono in profonda continuità con questo, a costruire quasi una specie di trilogia.
Il primo testo è Un sentimento che non inganna, pubblicato da Cortina nel 1991, dedicato all'angoscia, e il secondo un piccolo testo pubblicato nel 2010 e intitolato con una frase di Lacan L'inconscio è il sociale, che è una riflessione sul concetto di desiderio e di godimento.
Perché cito questi due libri? Perché in questi due libri il tema del masochismo è centrale. E in che forma è centrale il tema del masochismo? Nel primo c'è un'intensa riflessione sull'angoscia; vi ricordo la data, 1991. Significa che il testo di Lacan che oggi leggiamo in italiano e in francese, Seminario X L'Angoisse, non è ancora uscito, quindi Marisa ha lavorato su sbobinature e stenografie. È un lavoro che ha anticipato tutta un'altra serie di testi sul tema dell'angoscia in Lacan.
Cosa c'entra la riflessione sull'angoscia col masochismo?
Voglio citare un passaggio di questo testo, dove Marisa commenta una formula molto nota del Seminario X, quando Lacan dice: "L'angoscia è la sensazione del desiderio dell'Altro." Questo è il cuore del masochismo, nel senso che essere angosciati significa sentirsi ridotti a oggetto del desiderio dell'Altro. Significa eclissi del desiderio," mancanza della mancanza", secondo una formula celebre di Lacan del Seminario X, significa essere consegnati a una passività fondamentale di fronte alla presenza invasiva del desiderio dell'Altro o, come dirà poi Lacan più precisamente, del godimento dell'Altro.
Questo è un punto fondamentale, un filo conduttore, il tema della passività.
Nel secondo volume, più piccolo, più sintetico, ma comunque importante, siamo nel 2010, e la coppia godimento-desiderio, anche nella letteratura lacaniana italiana, è diventata una coppia fondamentale. Mi piace in Marisa Fiumanò il fatto che non corra dietro alle sirene delle letture neo-lacaniane del testo di Lacan che liquidano brutalmente il concetto di desiderio, quasi attribuendogli un contenuto nostalgico, nel nome di una centralità assoluta dell'Uno del godimento.
Se andate in Francia oggi e parlate di desiderio, in alcune comunità di lavoro - magari non nella tua comunità di lavoro- se pronunciate la parola desiderio, siete guardati male, perché non si può più pronunciare la parola "desiderio" ma solo parlare dell'Uno, dell'Uno del godimento.
In questo testo, e in tutto il tuo lavoro, invece, lo sforzo, in cui io stesso mi riconosco, è quello di tenere insieme il polo del desiderio e il polo del godimento ( il polo della pulsione) senza optare a senso unico per l'uno o per l'altro. E in questo testo L'inconscio è il sociale, già il titolo pone il problema di come si articolino l'Uno del godimento - l'autismo uniano del godimento -, la dimensione acefala della pulsione che gode di se stessa, con il legame con l'Altro.
Questo è un punto molto importante. L'esergo di quel libretto, che sono andato a riguardare oggi, riporta una citazione di Lacan del Seminario XVII: "Niente brucia di più di quello che nel discorso si riferisce al godimento."
Qui allora abbiamo due termini, il godimento che brucia, l'autismo incandescente del godimento, la testardaggine maledetta del godimento che vuole se stesso e il "discorso", cioè la possibilità che questa dimensione uniana del godimento si articoli in una relazione. Niente brucia più del godimento nel discorso. Questo è il problema che tu poni in questo libro dal punto di vista clinico, cioè come possiamo "legare". "Legare", come tu ricordi giustamente, è innanzitutto un'espressione freudiana: legare la pulsione di morte per esempio, annodare la pulsione di morte alla pulsione di vita, evitare che le due si scindano, come accade nella dimensione della melanconia psicotica. Tu ricordi che in Lacan questo diventa l'annodamento, il nodo borromeo, ecc. Ma il problema è come si lega la spinta autodistruttiva, che anche Laura Pigozzi ricordava, costantemente in eccesso della dimensione acefala della pulsione: come possiamo legarla, come possiamo cioè renderla feconda, generativa e non distruttiva?
Questo mi pare un tema che tu poni qui e riconosci che in effetti questa possibilità di legare la pulsione, di legare l'anima masochistica della pulsione, se posso dire così, non avviene semplicemente attraverso la decifrazione, perché la decifrazione è insufficiente. L'interpretazione come arte semantica dello psicoanalista è insufficiente per"legare".
Questo è un punto del libro che andrebbe interrogato: cosa significa, com'è possibile legare la spinta mortifera, masochistica, radicale della pulsione se il nostro tempo è il tempo post interpretativo? Il tempo in cui l'interpretazione non è più così straordinariamente efficace come lo era ai tempi di Freud, in cui l'Edipo era appunto una scoperta.
Voglio sottolineare solo due punti del libro, a partire da una considerazione più generale. In effetti Marisa ha ragione di porre il masochismo come una delle grandi questioni della psicoanalisi. Si può anche dire, e adesso forse esagero un po', che la dimensione che tu metti in rilievo, trans-clinica, del masochismo -noi troviamo il masochismo in differenti strutture cliniche, quindi c'è una trans-clinicità del masochismo- non toglie il fatto che potremmo dire che la clinica della psicoanalisi tout court è una clinica del masochismo perché abbiamo sempre a che fare col masochismo, abbiamo sempre a che fare col fatto che la pulsione così gode di se stessa, gode della sua passività, o, come tu dici, del fatto che c'è sempre un "investimento attivo", cito, "della passività".
La clinica della psicoanalisi è una clinica tout court del masochismo. Ma direi ancora di più, e questo è un punto che tu non affronti nel libro, ma che pongo a noi, come analisti: non è anche la posizione dell'analista una posizione masochistica? Chi ce lo fa fare, ma chi ce lo fa fare di essere pattumiere, di raccogliere lo scarto tutti i giorni, mattina e sera, di farsi, di essere come diceva Lacan, il deposito della merda del soggetto, un deposito dello scarto?
Allora qui c'è un problema che riguarda gli psicoanalisti: come si diventa psicoanalisti significa che forma abbiamo dato al nostro masochismo. Essere psicoanalisti è un modo di avere dato una forma generativa, diciamo così, al nostro masochismo fondamentale ?
Ritorno al libro. La sua tesi cardine è una tesi semplice.
Voglio però dire un'altra cosa su Marisa come autrice che poi mi ha stimolato a continuare a leggerla, anche se non a frequentarla per le ragioni che ho detto prima: è la chiarezza. Mi riferisco ad un'epoca (alla fine degli anni '80) in cui il fenomeno Verdiglione era ancora, diciamo, tra noi, in cui prevaleva l'esoterismo, le incomprensibilità assolute dei lacaniani, che non capivano nemmeno chi parlava, soprattutto chi parlava non capiva cosa stava dicendo… In questo scenario mostruoso dove l'imitazione del maestro comportava delle dimensioni farsesche che contraddicevano le indicazioni di Lacan quanto diceva: "Fate come me ma non imitatemi" e però tutti lo imitavano ma nessuno riusciva a fare come lui, la voce di Marisa Fiumanò da subito si distingueva, come quella di Silvia Vegetti Finzi, per chiarezza, per rigore, per pensare le cose e non per mimare il gergo e il modo farsesco del maestro e dei suoi e : Questo mi pare un punto molto importante, insieme alla fedeltà. In tutti questi anni c'è una fedeltà di Fiumanò a Lacan che qui voglio omaggiare.
Dunque, la tesi centrale del libro: è la distinzione di due masochismi. Vi sarebbero, questa è l'ipotesi, due masochismi: un masochismo immaginario e un masochismo simbolico. Il masochismo immaginario ha una matrice, che è l'assoggettamento fondamentale primario del bambino alla madre. Questo è un punto che andrebbe molto approfondito però voglio solo citarvi una frase di Lacan. Si può pensare che questo masochismo immaginario, che ha la sua matrice fondamentale nell'assoggettamento del bambino alla madre, sia un commento di questa frase di Lacan negli Ecrits: "Il bambino è al servizio sessuale della madre".
Dunque questo assoggettamento, questa passivizzazione primaria comporta quello che Laura diceva prima, cioè un deposito di eccitamenti che hanno come caratteristica fondamentale il fatto che il soggetto, il bambino, si trovi innanzitutto nella posizione di oggetto del godimento della madre. È questo il punto cardine del masochismo immaginario.
Sul masochismo immaginario agisce un secondo masochismo che Marisa chiama simbolico, che è il masochismo "buono", che è il masochismo come effetto del simbolico. Per liberarsi dall'assoggettamento in cui il bambino si trova rispetto al godimento della madre è necessario un secondo assoggettamento, non più al godimento della madre, ma all'azione del linguaggio. È il linguaggio che percuote -uso un'espressione dell'ultimo Lacan che parla di "percussione" del significante- che percuote il corpo del soggetto, castra il corpo del soggetto, cioè svuota di godimento il corpo del soggetto, e in questo senso, percuotendolo, lo libera dall'assoggettamento al godimento materno. E quindi la percussione del linguaggio sul corpo è una forma di assoggettamento che implica una disalienazione. Questo è il punto che tu metti molto bene in evidenza. Quindi è un masochismo generativo, diciamo così, non il masochismo in cui noi siamo prigionieri identificati nella posizione dell'oggetto, ma il masochismo come effetto del linguaggio, che ci libera da questa posizione di imprigionamento.
Questo mi pare un punto molto importante, che apre a un secondo binario: il masochismo immaginario porta verso una concezione superegoica della legge. Il masochismo immaginario interpreta la legge, cioè il rapporto del soggetto con la legge, solo in termini di puro sacrificio, cioè interpreta, lo dico con una parola molto bella di Lacan, in modo "patibolare" la legge. Ma questa interpretazione patibolare della legge è un effetto del masochismo immaginario, cioè la legge è solo ciò che punisce. Diversamente il masochismo simbolico comporta una lettura della legge come liberazione, cioè la legge del Nome del Padre è la legge che libera il bambino del servizio sessuale della madre, e, in questo senso, è la legge della castrazione, non come oppressione della vita, ma come liberazione.
Qui secondo me c'è uno sfondo anti deleuziano di questo libro. Oggi in Francia il grande dibattito riguarda una lettura deleuziana di Lacan, la quale vorrebbe emanciparsi completamente da questo tipo di riflessione; dalla centralità della castrazione, dalla centralità dell'Edipo, dalla centralità del Nome del Padre, ecc.
Mentre tu resti fedele, secondo me, a questa idea, che non è un'idea edipista, ma è qualcosa di più, ovvero che la legge non è solo ciò che opprime la vita, ma è ciò che libera la vita. Quello che Deleuze non capisce, almeno dal mio punto di vista, é che la legge non comporta una territorializzazione, una chiusura degli spazi. Tu mostri bene che l'azione della legge apre gli spazi.
O si interpreta la legge in senso patibolare, che è un effetto del masochismo immaginario, o si interpreta la legge a partire dal masochismo simbolico, come possibilità di disalienazione, di liberazione. L'ultima osservazione che voglio fare è sulla trans clinicità del masochismo. Si potrebbe dire, leggendo il tuo testo, almeno io ho ricavato questo, che nella nevrosi il masochismo comporta fondamentalmente l'esperienza di sentirsi scarto, di sentirsi ridotti all'oggetto, svalutati, squalificati, defallicizzati. È la dimensione depressiva che accompagna sempre la nevrosi e che implica un fondo masochistico: essere scarto, essere reietto, essere non riconosciuto, essere escluso. Tutta questa fenomenologia che troviamo nella nevrosi ha a che fare con un fondo masochistico.
Ma questa non è la posizione perversa: nella posizione perversa non è in primo piano l'esperienza della derelizione masochistica che noi troviamo molto frequentemente nella clinica della nevrosi. Nella posizione perversa essere oggetto, diventare un oggetto, come accade appunto nel masochismo immaginario, essere un oggetto significa compattarsi, significa evitare la divisione, significa contestare la legge della castrazione, significa acquisire uno statuto di vita, paradossalmente piena. Questo è un punto molto importante nell'insegnamento di Lacan sul masochismo: masochismo e sadismo non sono due perversioni speculari. Il sadismo non sarebbe per Lacan il godimento dell'infliggere dolore; il masochismo non sarebbe il godimento di subire dolore. Sadismo e masochismo non sarebbero due facce della stessa medaglia, perché la perversione è masochistica; la tesi di Lacan dice che c'è un primato del masochismo.
Ma cosa vuol dire che c'è un primato del masochismo? Perché il masochista perverso mostra che essere oggetto, diventare oggetto, trasformare la nostra vita nella vita di un oggetto, diventare una mummia, è essenziale per poter angosciare l'Altro, per poter far cadere l'Altro, per poterlo scuotere, per poterlo piegare, per poter rigettare sull'Altro la castrazione. E questo tema dell'angoscia di Dio, che tu ricordi con un passaggio fondamentale del Seminario X, che è un passaggio che io detesto di Lacan. Penso che lì Lacan abbia preso proprio un abbaglio. Propone una lettura di Cristo, dove si sostiene fondamentalmente che Cristo è nella posizione del masochista perché offre la sua vita come vita martirizzata per angosciare il Padre. Dio,si troverebbe allora ad avere un'anima, perché messo di fronte allo spettacolo del figlio sottoposto alla tortura della croce.
Lacan non ha detto soltanto queste cose su Cristo. Nel Seminario XX dice delle cose molto più interessati. Questa lettura a me non convince per niente. Posso suggerirne un'altra, secondo me molto più precisa in questa formula di Lacan: il masochista vuole trasformare la sua vita di soggetto nella vita di un oggetto per angosciare l'Altro e rigettare sull'Altro la castrazione. Il perverso punta ad angosciare Dio non a salvarlo come invece accade a Gesù.
Un esempio che io faccio spesso è un caso clinico di Joel Dor, che è un grande allievo di Lacan, morto prematuramente, che ha scritto dei testi su Lacan molto importanti. Joel Dor riferisce una storia che girava a Parigi, una storia molto particolare, di un analista non parigino, ma di una città della provincia, molto noto, che si trova ad avere in cura un perverso. Non è un'analista di primo pelo, ma un analista di grande esperienza. Si trova ad avere in cura un perverso che gli mostra platealmente tutti i suoi scenari, tutto quello che fa, le sue acrobazie sessuali, i suoi traffici illeciti, il rapporto di trasgressione permanente con la legge, e orge dove la violenza si mescola al sesso, la pulsione di morte fino al rischio della morte fisica dei suoi partner.
L'analista ovviamente cerca di non essere coinvolto dentro lo schermo proiettato dal perverso. E poiché lo sguardo dell'analista si sottrae a questa cattura immaginaria, il perverso interrompe la cura. Salvo ritornare poco dopo chiedendo un ultimo appuntamento. In quest'ultimo appuntamento confida all'analista l'identità della sua partner più scabrosa e con la quale arrivava sempre al limite della morte: era la figlia dell'analista!
Questo vuol dire angosciare Dio. Vuole dire mettere la barra dell'angoscia sull'Altro. Il povero Gesù non c'entra molto con questo. Grazie.
note
(1) Qui come nel seguito dell'intervento Recalcati si rivolge spesso direttamente all'Autrice.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 03 MARZO 2017 |