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Le tre parti che compongono l'ultimo libro di Giancarlo Consonni - Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà (Solfanelli, 2017) - pongono sul tavolo, in modo sintetico ed efficace, alcune questioni che riguardano le diverse componenti storiche culturali e, talvolta, progettuali che hanno segnato in diversa misura il vivere in una dimensione urbana, affrontando aspetti legati agli esiti giuridici, alle scelte politiche, alle pratiche della trasformazione spontanea e indotta dalle esigenze della contemporaneità. L'oggetto dell'analisi è sempre l'urbanità che tiene insieme sia una dimensione spaziale di gestione - del costruito, del non costruito e delle infrastrutture -, sia una dimensione sociale. Non c'è città senza società e l'essere e la forma della città determinano e/o condizionano la società.
L'obiettivo del libro è efficacemente sintetizzato dall'autore: "Proporre temi alti con una tensione ideale che rasenta l'utopia, ma stando coi piedi per terra". Utopia che è negli ingredienti dell'urbanità: la magnificenza civile e la misura, il disegno urbano e la funzione sociale dello spazio pubblico e privato senza trascurare gli elementi monumentali. La composizione armonica di tutto ciò realizza la bellezza. Questi temi sono specificamente e chiaramente enunciati in particolare nel secondo saggio, ampliamente dedicato alla tesi sostenuta da Paolo Maddalena nel suo Il territorio bene comune degli italiani (Donzelli, 2014) sapientemente confrontata con la lettura del libro di Carl Schmitt in Il nomos della terra (Adelphi, 1991). Tra i molti spunti di riflessione stimolati da questo capitolo, fondamentale risulta la necessità di considerare città e paesaggi come beni comuni per vincolare un patto per una urbanità condivisa e ben concepita.
Non mi soffermo sulle considerazioni riguardanti assetto giuridico e politiche urbanistiche delle città, mentre vorrei proporre qualche breve spunto di riflessione riguardante il contributo della cultura alla bellezza dei luoghi urbani, filtrata attraverso quella che è la mia lente di osservazione. Giancarlo Consonni ritrova negli elementi di bruttezza dilagante l'indice della profonda crisi di valori e di civiltà di questi tempi e individua responsabilità a diversi livelli. Tra queste, quella che certamente condivido riguarda la suddivisione settoriale delle competenze del sapere che ha fatto perdere la necessaria visione dell'insieme e, in particolare, nel campo preso in considerazione, dello spazio fisico e della società. La seconda, conseguenza della prima, è la teorizzazione dell'architettura come disciplina autonoma, con poche relazioni con l'urbanistica e le scienze sociali. Non vi è dubbio che queste due tendenze hanno dominato tutta la seconda parte del XX secolo e ne abbiamo nefaste testimonianze nei profondi segni che hanno stravolto il vivere delle nostre città. Tra i tanti esempi che tutti ben conosciamo, il degrado profondo delle periferie è senza dubbio l'elemento di maggiore evidenza. Tutti abbiamo nel nostro immaginario un caso concreto di tale situazione; a me risuonano come unghie accanite su una lavagna gli insediamenti popolari nei quartieri di CEP e Begato a Genova, testimonianza di incapacità di conciliare le esigenze abitative delle classi popolari con la necessità di non creare quartieri ghetto, brutti e inospitali. Molte medie e grandi città italiane portano evidenti i segni di un degrado civile dove le responsabilità di distorte visioni del costruito per l'abitare tra gli anni sessanta e novanta del novecento sono più che evidenti.
Oggi tuttavia possiamo cogliere una tendenza verso un'altra direzione che auspico possa incidere positivamente sulla città del prossimo futuro. Nel mondo accademico e della ricerca scientifica l'interdisciplinarietà, stimolata dalle condizioni di molti finanziamenti, è ormai una parola d'ordine che favorisce una visione olistica degli oggetti di studio. Questo avviene in molti settori come testimonia il diffondersi in vari atenei di unità di ricerca interdisciplinari, che focalizzano le loro attività su un obiettivo condiviso fondadole su confronto, scambio e integrazione delle informazioni e dei risultati e, sempre più, su comuni azioni di progettazione. Nel mio settore, per esempio, è significativa la diffusione di centri per la conservazione e valorizzazione dei beni culturali che si muovono in sinergia con grande vantaggio anche sul fronte applicativo.
Anche sul fronte delle trasformazioni urbane le cose sembrano cambiare. Infatti, sebbene emerga frequentemente il problema del forte impatto visivo degli interventi delle cosiddette "archistar" - spesso percepiti come astronavi aliene nei contesti urbani -, le tendenze più recenti del costruire contemporaneo sembrano dare segnali che vanno anche in altre direzioni. Dopo anni dedicati al mantra della sostenibilità, oggi la parola chiave è paesaggio, segnalando in ambito progettuale il lievitare di un'attenzione speciale a contesti e scenari. Vorrei quindi procedere in questo mio ragionamento cercando di evidenziare altri notevoli elementi che contraddistinguono il nostro presente, non tanto per negare le criticità ben evidenziate nel libro di Giancarlo Consonni, quanto per rilevare, dove possibile, spunti che consentono di prefigurare possibili scenari positivi per la città contemporanea. E per fare questo desidero riagganciarmi a quanto efficacemente enunciato dallo stesso Consonni a conclusione del suo libro quando afferma che "nei grandi e piccoli progetti urbani è necessario puntare su una armatura di spazi pubblici vitali, sorretta da attività e presenze umane che la nutrano, così da farne l'elemento ordinatore dei luoghi e insieme ridare vita alla città come sistema di luoghi. La città - prosegue Consonni - deve [cioè] tornare a essere un motore dell'immaginario, capace di essere ospitale, di generare narrazioni, di mettere in moto emozioni e sorprese. E di educare alla vita e alla bellezza civile".
La mutazione della vita nella città contemporanea
Negli ultimi anni si stanno diffondendo pratiche caratterizzanti nuove dimensioni del vivere urbano; in particolare, differenti condizioni di interazione e co-partecipazione stanno modificando non solo gli stili di vita ma anche la forma delle città. Un esempio significativo è dato dai nuovi luoghi del lavoro: aumentano gli ambienti per il co-working, lo spazio è condiviso con colleghi e spesso con persone che lavorano in altri settori; specialmente nei luoghi dedicati alle start-up, giovani imprenditori si trovano a condividere una vicinanza fisica che diventa spesso condivisione di esperienze con altri imprenditori. Ma anche in contesti di lavoro più tradizionali, come gli uffici di aziende di servizi o banche, spesso nelle riorganizzazioni si ottimizzano gli spazi del lavoro che, in molti casi, accolgono esigenze di benessere e di socialità (dall'attivazione di zone dedicate al relax alla creazione di nidi aziendali, ecc.). A Milano un esempio come BASE, in zona Tortona, dimostra come lavoro, tempo dello svago e della cultura possano convivere in una stessa struttura che è terreno di sperimentazione d'innovazione e contaminazione culturale. Arte, creatività, impresa, tecnologia e welfare si intrecciano in dinamica connessione: infatti BASE è spazio di co-working, di ristorazione, di foresteria, di laboratori, di esposizioni, di spettacoli, di workshop e di seminari. Si tratta di uno scenario fondato sulla cultura della condivisione che non riguarda solo il mondo del lavoro e che trova la sua declinazione più formidabile nella grande diffusione della mobilità con car e bike sharing. Anche nella dimensione dell'abitare la città presenta novità interessanti quanto positivamente contagiose. Lo sviluppo dell'housing sociale e condiviso porta alla riqualificazione di spazi urbani e alla creazione di condizioni di relazioni sociali che creano comunità. Esperienze nate in quel contesto sono poi riproposte anche in quartieri storici specialmente in ambito condominiale: seppur non eclatanti, sono molte le esperienze di socialità condominiale significative per connotare l'abitare urbano: racconti di biblioteche di condominio, cene e aperitivi condominiali, condivisione di responsabilità e partecipazione per il decoro delle parti comuni sono sempre più frequenti. Sulla base di questa premessa, possiamo chiederci come la cultura può contribuire al processo di cambiamento delle città. Proverò a rispondere semplicemente presentando alcuni esempi virtuosi che vanno in tale direzione.
Fuorisalone, Bookcity, Pianocity, Museocity a Milano
La città mostra in maniera crescente la sua realtà di organismo poliedrico e al tempo stesso unitario in occasione di eventi culturali che pervadono l'intero spazio urbano o sue parti significative. Milano, per esempio, nel periodo del cosiddetto Fuorisalone che si tiene nella settimana del Salone del Mobile, non è semplicemente una vetrina per le aziende produttici di arredi ma una città che si autorappresenta fieramente come capitale del design. In quei giorni il design diventa protagonista di negozi, spazi di esposizione, ma entra anche in ristoranti, librerie, musei. Contamina luoghi, attiva creatività e desiderio di partecipazione. Un evento che ha corrispondenti a più evidente missione culturale in manifestazioni come Pianocity, Museocity o Bookcity che testimoniano del ruolo che può giocare la cultura nel determinare la vitalità degli spazi urbani.
Idea Store a Londra
La cultura è un potente motore per favorire la socialità anche in situazioni di degrado. Un esempio emblematico può essere il progetto condotto da Sergio Dogliani a partire dal 2002 a Londra, intitolato Idea Store. Il progetto nasce nel quartiere londinese di Tower Hamlets ed è fondato su un attento studio sulle esigenze della comunità residente. In un quartiere popolare, con presenze di comunità provenienti da diversi paesi, emergeva l'esigenza di un luogo di aggregazione dove poter leggere, imparare, praticare esperienze di educazione permanente in orari diversi. Nacque così il primo Idea Store (oggi sono 5, l'ultimo creato nel 2013) aperto con orario prolungato, realizzato come ambiente accogliente e in prossimità di luoghi di abituale frequentazione della comunità di quartiere. In una recente intervista di Maria Chiara Ciaccheri pubblicata da "cheFare", Dogliani racconta: "Rispetto alla mia esperienza è importantissimo non considerare solo gli utenti già interessati al servizio ma pensare chi sono gli utenti in generale. Quelli che mi interessano di più, infatti, sono proprio coloro che in biblioteca non verrebbero a meno che tu non scelga di facilitare loro l'ingresso". E Ciaccheri efficacemente sintetizza: "Facilitare, dunque: le considerazioni raccolte durante la prima consultazione hanno permesso così di comprendere che le persone desideravano orari di apertura più lunghi, più libri, maggior accesso libero. Un altro elemento chiave è l'esigenza diffusa di aggiornamento formativo e professionale e sui temi della salute che si trasforma, all'interno degli Idea Store, in una traccia riconoscibile, mutuata anche dall'esperienza diffusa dei centri di formazione. La qualità dell'approccio umano a partire dalla formazione dei dipendenti (la loro diversità e provenienza, spesso rappresentativa dell'utenza che si vuole raggiungere) rappresenta un ulteriore elemento chiave di uno spazio culturale che supporta il coinvolgimento e l'empowerment".
Il Centre Pompidou a Parigi, la Tate Modern a Londra, la Fondazione Prada a Milano
Il museo contemporaneo ha sicuramente un ruolo privilegiato per "educare alla vita e alla bellezza civile" (Consonni). Il concetto è cambiato radicalmente da quando nel 1897 l'idea di crearne uno nel quartiere di Brooklyn a New York - un'area anche allora complessa e degradata - per promuoverne lo sviluppo e la rigenerazione si rivelò fallimentare. Il grande museo con entrata evocativa del frontone di un tempio, ricco di arte e buoni propositi, non catalizzò la vita del quartiere, anzi la cittadinanza accolse la sua presenza con distanza reverenziale: il tempio che conservava la grande arte non era certamente sentito come qualcosa che potesse appartenere alla vita quotidiana della popolazione. Le buone intenzioni dei committenti non avevano adeguatamente considerato quella che era la percezione popolare del museo. Le cose da quel momento sono cambiate e molto. Apripista di una nuova strada è stata la creazione del Centre Pompidou a Parigi nel 1977: museo stravolto nel nome, nella forma e nella libertà di visita. All'ingresso monumentale è subentrato un ingresso agevolato dal digradare della piazza. I visitatori, accolti al suo interno possono liberamente fare esperienza della visita a opere d'arte ma anche di molte altre iniziative performative e altro. Questo progetto, che stravolse l'idea del museo, fu il primo che realizzò una contaminazione virtuosa con la città che portò a un immediato miglioramento dell'area del Beaubourg e alla gemmazione di numerosi segnali di vitalità culturale in tutto il quartiere.
Più vicina nel tempo è l'esperienza della Tate Modern a Londra inaugurata nel 2000, una vera e propria scommessa in termini di valorizzazione di un'area urbana che prevedeva ingentissime spese quando la città avrebbe offerto altre soluzioni meno rischiose (come l'area del parcheggio Hungerfold di Waterloo e il sito di King's Cross). In quell'occasione il direttore Nicholas Serota (uomo assai determinato come dimostra la sua candidatura a direttore della Tate Britain del 1988 intitolata "Grasping the Nettle") fu in grado di presentare ai trustees l'area desolata di Millbank in un'ottica di sviluppo urbanistico. Oggi la lunga passeggiata che costeggia il Tamigi da Tower Bridge alla Tate Modern è tra i luoghi più vivaci della città e il museo è un luogo di aggregazione, cultura e divertimento.
Anche a Milano alcune esperienze museali condotte per iniziativa di privati stanno animando quartieri fino a oggi caratterizzati da un diverso grado di desolazione. Tra i più significativi la Fondazione Prada e Hangar Bicocca. Aspetto non trascurabile riguarda il sempre più sentito desiderio di attuare attraverso il museo una funzione sociale (uno degli elementi fondamentali come enunciato anche nella definizione di museo data dall'ICOM). I musei sono sempre più protagonisti di azioni volte a favorire l'inclusione sociale e a dare concrete risposte alle esigenze della società contemporanea. I musei milanesi sono attivissimi in questo senso sia con iniziative che hanno avuto anche forte eco mediatica - come l'accoglienza presso il Memoriale della Shoah, Binario 21, di profughi di passaggio nella città di Milano - sia con altre magari meno conosciute ma altrettanto significative, come il progetto condotto dal Museo dei Cappucini di Milano per favorire l'accesso al museo a persone in situazione di disagio.
Il progetto Chiese aperte a Genova
Il progetto nacque nel 2004 quando a Genova, nella stanca cronaca estiva dei giornali locali, deflagrò un'aspra polemica dedicata alla città: la Capitale europea della cultura di quell'anno accoglieva i visitatori con un'area del porto antico tirata a lucido e un centro denso di mostre e musei rinnovati, ma tra il porto antico e il centro moderno, il centro storico era una barriera destabilizzante per i visitatori che, se deviavano dalla via maestra si addentravano nel dedalo del più grande centro storico d'Europa, incontravano vicoli sporchi dov'era facile perdersi e dove, soprattutto, quando si incontrava una chiesa - ovvero la tipica architettura che avrebbe potuto e dovuto rappresentare storia e bellezza della città - questa era immancabilmente chiusa. Perché, ci si chiedeva, le chiese non partecipavano all'accoglienza dei turisti della città? La situazione non era dettata da altro se non dalla mancanza di sacerdoti o sacrestani che potessero garantirne l'apertura ai fedeli e ai turisti. Si cercò quindi di trovare una soluzione per questo che era un problema vero e che doveva avere una risposta adeguata al di fuori della situazione di emergenza della vetrina del 2004. L'Ufficio Beni Culturali della Curia di Genova, in collaborazione con il Museo Diocesano, rifletté sul fatto che l'apertura delle chiese sarebbe stata un incentivo alla visita del centro storico della città per i turisti ma avrebbe anche favorito una riduzione del suo diffuso degrado. Da ciò ha preso vita un progetto chiamato "Chiese Aperte" che da un lato ha promosso il restauro e la messa in sicurezza degli edifici in situazione di decadimento, dall'altro ha attivato un servizio di formazione permanente di volontari capaci di garantire l'apertura di queste chiese per molte ore al giorno. Il progetto ha consentito l'apertura di oltre dieci chiese e il prolungamento dell'orario di visita anche nella cattedrale. Attorno a questi edifici religiosi il processo di degrado urbano sembra almeno rallentato e il flusso di visitatori nel centro storico si è esteso oltre le consuete poche vie principali.
Rita Capurro
N.d.A. - L'occasione per questa breve riflessione mi è stata offerta dal seminario organizzato da ULTRA (Urban Life and Territorial Research Agency) sul tema La questione bellezza (e altre questioni) per la città di oggi, tenutosi all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano il 15 dicembre 2017, a partire dal libro di Giancarlo Consonni: Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà (Solfanelli, 2017). Il mio contributo al seminario non è stato quello di una specialista di temi urbanistici, quanto di una storica dell'arte che si occupa prevalentemente di musei, quindi con un'unica competenza sul tema dibattuto in quella sede fondata sulla quotidiana relazione con le dimensioni della bellezza.
R.C.
N.d.C. - Rita Capurro si occupa di storia dell'arte moderna e museologia, con particolare attenzione ad arte, museologia e turismo religiosi. Ha preso parte a diversi progetti di ricerca nazionali e internazionali tra i quali progetto europeo MeLa* - European Museums in an age of migrations - e collabora ad attività didattiche presso l'Università Milano-Bicocca, l'Università Cattolica di Milano e il Politecnico di Milano. È nel consiglio di direzione del periodico "Arte Cristiana".
Tra le sue pubblicazioni: Musei e oggetti religiosi (Vita & Pensiero, 2013), San Carlo Borromeo, arte e fede a Genova (EAI, 2014), con E. Lupo (a cura di), Designing multivocal museums. Intercultural practices at Museo Diocesano, Milano (MeLa* Books, 2016).
Sul libro oggetto di questo commento, v. anche i contributi di: Pierluigi Panza, Se etica ed estetica non si incontrano più (16 dicembre 2016); Paolo Pileri, Se la bellezza delle città ci interpella (10 febbraio 2017); Vezio De Lucia, Crisi dell'urbanistica, crisi di civiltà (18 maggio 2017); Andrea Villani, L'ardua speranza di una magnificenza civile (15 dicembre 2017).
Del libro di Giancarlo Consonni si è anche discusso alla Casa della Cultura - nell'ambito della V edizione di Città Bene Comune - martedì 23 maggio 2017, alla presenza dell'autore, con Elio Franzini, Gabriele Pasqui, Enzo Scandurra.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
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