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Carlo Donolo, autore e persona che ho molto amato, ci ha lasciato visioni e riflessioni di grande interesse: sensibili, perspicaci, lungimiranti. In alcuni fra gli scritti più recenti (per esempio, 2011 e 2014), mi ha colpito un motivo ricorrente: le conclusioni prendono sempre, letteralmente, la forma del congedo (il titolo del capitolo finale). La scelta poteva alludere, forse, al senso del naturale compimento di un percorso individuale. Nello stesso tempo, però, diventa il segno di un'apertura generosa e attiva verso il futuro. Donolo indica una via, con la fiducia che - prima o poi - il cammino potrà essere condiviso da altri, per procedere oltre (con le parole di Kafka: "le vie nascono dal percorrerle", 2014). Perché questa è la terra che abitiamo e continueremo ad abitare: prenderne cura è necessario. Così scriveva a proposito del Meridione nel commiato del 1999. Sono certo che la considerazione vale, per l'autore, per tutto il paese o meglio per il nostro mondo.
Come insegna la tradizione ermeneutica, ci può essere vita nelle opere grazie al dialogo fra le generazioni e alle esperienze di modificazione che ogni re-interpretazione emergente può creare nel lettore come per il testo. Provare a rispondere all'appello che risuona da un testo è stata una delle mie grandi passioni. Per questa ragione - non solo per rendere onore all'autore e alla persona - ho suggerito a Casa della Cultura di rimettere mano a qualche contributo di Carlo. Quale? Sono passati molti anni, ma l'attualità di temi e riflessioni mi sembra indiscutibile. Purtroppo, perché si tratta di diagnosi, critiche, speranze e proposte che riguardano alcuni grandi problemi del paese, rispetto ai quali poco o nulla sembra essere cambiato. Alcune difficoltà sono endemiche in Italia: molto diffuse, profondamente radicate, ormai croniche. I progressi, invece, continuano a essere troppo lenti e marginali. Le delusioni sempre incombenti e all'apparenza insanabili. Ecco perché ho scelto Italia sperduta (2011). Probabilmente non è l'opera migliore per originalità e forza delle argomentazioni (rispetto ad altri testi che ho trovato convincenti e spesso ineccepibili: ad esempio, 1977, 1981 e 1988, 1992, 1997, 1999 e 2001, 2007). Ma è una delle più dolenti, dove la consueta lucidità e la pacata fermezza dell'analisi diventa, in alcuni passi, quasi un'invettiva civile: passaggio forse inevitabile per una ripresa collettiva di consapevolezza e di speranza. Perché la gravità e la persistenza dello stato di crisi sono un dato peculiare, largamente percepito nel paese, ma cause e responsabilità sono spesso attribuite a qualche fattore esogeno o contingente: la globalizzazione, l'Europa, la crisi generale del 2008, i limiti della capacità di governo di questa o quella parte politica. Carlo Donolo ci aiuta a capire che dovremmo guardare più lontano nel tempo e più a fondo dentro a noi stessi. I problemi sono diventati cronici perché hanno radici profonde nella formazione del nostro paese e della sua società civile. Qualunque ripresa o speranza non può che dipendere da condizioni e possibilità di un rinnovamento sostanziale della società stessa. Un messaggio forte, se pur complicato, e inconsueto rispetto alle scorciatoie del senso comune, le ideologie più influenti, le tattiche della politica corrente. Per queste ragioni potrebbe indicare una via: se qualcuno vorrà e saprà riprendere e sviluppare le tracce che queste opere propongono all'attenzione collettiva.
Sperduti
Italia 2010: "un paese che gira a vuoto, entro una spirale negativa" (Donolo, 2011, p. 6). Ha perso l'orientamento, non sa come riprendere un cammino condiviso, dotato di senso e di una meta, positiva e possibile. Soffre per una crisi pervasiva, al tempo stesso di capacità cognitiva (sotto il peso di rappresentazioni distorte, semplificatorie o ingannevoli) e di disordine normativo (per ignoranza, sfiducia ed elusione delle regole). Uno stato di cose che è diventato consuetudine per l'incapacità di cambiare, e sembra destinato a consolidarsi per effetto di circoli viziosi. Infatti, queste condizioni richiamano lamentele e critiche formali, ma molteplici e consistenti sono le componenti della società che ne traggono vantaggi particolari. Si cercano capri espiatori, ma nessuno è responsabile di nulla. Insieme alle responsabilità viene a declinare anche l'autonomia dei soggetti. L'immagine di un paese alla deriva - sotto l'effetto di forze ed eventi ampiamente fuori controllo - appare sempre più pertinente. Che cosa è accaduto nel sociale e nelle istituzioni per determinare tale situazione? (ibidem, pp. XIV-XV).
Ritengo che Donolo abbia profondamente ragione nell'orientare lo sguardo in questa direzione e nel lungo periodo, invece di limitarsi a evocare le cronache contingenti e il senso comune. Infatti, quanto siano profonde le radici delle difficoltà attuali è un dato che desta impressione. "L'Italia è un paese di bassi salari, dove le tasse sono più alte che in qualsiasi altra parte del mondo. Le imposte, nel complesso, hanno raggiunto un livello insostenibile, e colpiscono più gravemente i poveri dei ricchi. Siamo il paese che ha il debito pubblico più alto in proporzione alle sue ricchezze. La giustizia è lenta, costosissima e senza sufficienti garanzie. L'istruzione elementare è insufficiente, quella superiore crea fabbriche di spostati. Abbiamo un primato vergognoso nella delinquenza comune. Il prestigio nazionale all'estero è in declino intollerabile…" Parole tratte dalle cronache dei giorni nostri? In verità sono state pronunciate da Giovanni Giolitti nell'ottobre 1899 (Bedeschi, 2002, p.7). Più di un secolo è passato, ma i sintomi più gravi sono ancora attuali, in forme quasi immutate - nonostante gli sforzi enormi che il paese ha compiuto (e sarebbe ingiusto sottovalutare) per diventare un'economia industriale d'élite, pur muovendo in ritardo, arretrato e diviso, in condizioni di grave precarietà (Castronovo, 1976; Graziano e Tarrow, 1979).
Certo la congiuntura non ci ha aiutato, almeno dagli anni '70 (senza riconsiderare qui presupposti ancora più lontani). Un paese la cui modernizzazione è stata tardiva, compressa e incompiuta, si è trovato esposto, senza protezioni, ai processi competitivi e alle sfide impietose della globalizzazione. Sono rapidamente venuti meno i fattori chiave della crescita cospicua del secondo dopoguerra: esportazioni, disponibilità e capacità di lavoro, salari contenuti, industrializzazione accelerata, innovazione di prodotto e specializzazione tecnica… Il disagio sociale che si è manifestato nelle società occidentali più mature, nel corso degli anni '60, ha avuto in Italia un impatto prolungato e profondo, per fragilità di sistema, ma anche fattori culturali peculiari. Trovando espressioni evidenti nelle tendenze dell'economia (con l'esplosione dell'inflazione e del debito pubblico, innanzi tutto), ma anche in un groviglio di tensioni sociali, intense e debolmente governate per più di un decennio. Nel periodo, la politica si è dimostrata largamente incapace di esercitare un ruolo-guida (invece di inseguire o assecondare gli umori popolari) e quindi di rendere produttive le sue funzioni di rappresentanza, garantire la governabilità, assumere la responsabilità di decisioni difficili, costruendo il consenso necessario anche in condizioni di contesto poco favorevoli (Cavazza e Graubaud, 1974; Ginsborg, 1998; Castronovo, 2000; Bedeschi, 2002). Nello stesso tempo, la società italiana ha confermato i suoi limiti di coesione, autonomia e responsabilità (Lanaro, 1988; Rusconi, 1993), che hanno radici lontane. Tullio Altan (1989) ha illustrato bene l'impatto profondo degli archetipi del Trono e dell'Altare (che risalgono all'età feudale), e poi dello spirito mercantile delle società comunali, terre di fazioni e di comportamenti à la Guicciardini piuttosto che modelli irenici di comunità! In ogni caso, la realtà attuale non nasconde l'evidenza: un paese incapace di fare sistema; cronicamente debole per deficit di infrastrutture e di governance; con un ordinamento giuridico "barocco e post-moderno al tempo stesso" (obsoleto, farraginoso, facilmente sottomesso agli interessi più forti); un sistema produttivo duale, in larga parte poco propenso al rischio e all'innovazione, e quindi alla ricerca di protezione pubblica, ma destinato a un ruolo meramente interstiziale sulla scena internazionale; una società civile ancora largamente influenzata da tradizioni ormai inattuali, che fatica a reggere i processi inesorabili di "individualizzazione" che investono le società contemporanee (le reazioni non sono solo difensive, ma spesso anti-storiche e perciò senza futuro). Se questo è il quadro (se pur a grandi tratti) come cercare una visione condivisa del futuro possibile? Una situazione non solo difficile, ma all'apparenza senza prospettive (Donolo, 2011, pp. 8-9).
Tra élites e popolo
Riconosco a Carlo Donolo un merito non comune: la sua riflessione critica non elude i problemi della società civile italiana; anzi non teme di assumere forme sferzanti, che possono sembrare politicamente non corrette anche a coloro che non aderiscono alle derive populiste ora dilaganti. La nostra è una società "gracile, frammentata, largamente incolta", che "si è persa in un mondo più complesso e rischioso". Per superare le sue difficoltà, si affida ancora ampiamente a meccanismi tradizionali di regolazione - "familismo, clientelismo, corporativismo, individualismo possessivo, appropriazione privata di beni collettivi" - che generalmente producono effetti perversi. La dimensione pubblica rischia di ridursi all'appello opportunistico e subalterno al ruolo assistenziale dello Stato e della politica. Le condizioni obiettive di precarietà non migliorano - fra "nuove povertà, crisi ambientale e dei servizi, degrado intellettuale e morale"; tuttavia non si intravvede la possibilità di una svolta riformista perché manca la consapevolezza civile della natura e delle cause dei problemi; manca il potenziale critico e riflessivo per un reale rinnovamento, la capacità di mobilitare risorse, modificare preferenze, valorizzare spazi di libertà positiva… Anzi, la tendenza più plausibile sembra essere il dilagare di "una sindrome populista e neo-plebea": chiudendo gli occhi sui problemi reali, accettando idola fori, rendite e favori, la società sceglie di restare "ignorante, semi-analfabeta, rissosa, volgare, asociale", mentre prospera un'area vastissima di illegalità diffusa, condivisa e quotidiana (Donolo, 2011, pp. VII-XI). Una plebe che peraltro avrebbe ormai perduto quell'identità originaria che poteva costituire un valore culturale e un fattore di coesione nei tempi passati. Una visione durissima e priva di mediazioni, che esige più di un commento.
Christopher Lasch avrebbe potuto osservare: ecco un altro caso di incomprensione del mondo da parte delle élites. Cresce la distanza dal popolo reale e la riflessione intellettuale si mostra incapace di interpretare valori e interessi, ragioni e comportamenti popolari. Per l'intellettuale, l'individuo-massa è figura "tecnologicamente arretrata, politicamente reazionaria, repressiva nella morale sessuale, retriva nei gusti culturali, banale e ottusa - incapace di argomentare e deliberare come la democrazia vorrebbe" (1995, p. 13). Paradossalmente, Lasch si sente di riversare sugli intellettuali le critiche radicali che Ortega y Gasset negli anni '30 aveva rivolto proprio al popolo, come "figlio viziato della storia umana": perché tendeva a dare per scontati i benefici ereditati (anzi, li considerava dovuti come diritti naturali); non riconosceva i debiti verso il passato e, in fondo, nessuna vera autorità al di fuori di sé; credeva che le possibilità di crescita della condizione presente potessero essere reiterate senza limiti. Ebbene, Lasch ritiene che anche i ceti professionali e manageriali, che dovrebbero costituire l'élite del paese, assumano atteggiamenti non dissimili: "auto-referenziali, privi di rispetto per chi non condivide i loro valori e stili di vita, indifferenti alla tradizione che hanno ereditato, poco disponibili ad accettare obblighi e responsabilità verso le comunità che pur dovrebbero guidare; più legati a contesti internazionali che ai loro territori". Si sentono cittadini del mondo, ma tendono a eludere le responsabilità che la cittadinanza comporta. E guardano alle masse con disprezzo e apprensione, come forze che si oppongono al progresso (ibidem, pp.29-32). In queste condizioni, la coesione sociale diventa un mito inverosimile.
Gli argomenti non sono privi di fondamento, anche se faccio fatica ad attribuire questi sentimenti a Carlo Donolo e la visione di Lasch è palesemente viziata da alcuni presupposti ideologici che possono apparire oggi nostalgici e senza prospettive: la celebrazione delle comunità locali e delle loro capacità di auto-governo come voce autentica della democrazia, l'elogio del senso comune popolare e di alcuni valori tradizionali come la guida più legittima della cognizione e dell'azione (Il paradiso in terra, 1991). Ma il populismo non dipende strettamente da questo sistema di valori. Le medesime critiche potrebbero essere rivolte a Donolo senza sottoscrivere una visione comunitarista così tradizionale. Il punto è che - agli occhi di alcuni osservatori - l'autore mostra (o mostrerebbe) di non saper comprendere lo spirito popolare. Perché il suo sguardo non solo è elitario, ma probabilmente fazioso. Infatti, non sembra immune da qualche pregiudizio ideologico sulle scelte politiche del popolo. Se il voto, allora, non avesse premiato Berlusconi e il centro-destra, le valutazioni dell'autore sarebbero state, almeno in parte, differenti? In effetti, è interessante riflettere sul libro a distanza di quasi un decennio assai travagliato, che ha visto all'opera prove diverse di governo e una varietà di comportamenti di massa. Gli orientamenti politici hanno mostrato oscillazioni notevoli, sempre più frequenti e spesso rapidamente divergenti. Questi elementi sono sufficienti per confutare o almeno mettere in dubbio i duri giudizi che Donoloha espresso sulla società civile italiana?
Ciò che emerge, a me pare, è che la deriva populista assume ora forme sempre più essenziali (o riduttive). Intendo dire: il populismo esprime una critica di massa verso le autorità esistenti, che può essere fondata su qualche ipotesi sostantiva, come opposizione motivata, sulla base di temi e proposte specifici, se pur di massima. Queste tracce di contenuti sono diventate fattori elementari di identità per ogni movimento emergente. Così Forza Italia ha preso l'immagine di "popolo delle libertà", in qualche modo associata alla promessa di una "rivoluzione liberale". E la Lega delle origini si è candidata a interpretare gli interessi di alcuni territori in relazione a uno Stato lontano e patrigno. In questa fase, invece, il populismo si è fatto ologramma (per usare un'immagine della società dei simulacri: Perniola, 1980): diventa quasi una forma senza contenuti o predisposta per qualsiasi contenuto (quali differenze, per esempio, tra i populismi di Lasch e di Laclau, 2005!). Ciò che vale è il presupposto di alterità rispetto al sistema di potere esistente, con lo scopo dichiarato di restituire voce alla (presunta) integrità e saggezza del popolo, senza troppe mediazioni. In Italia, ora sembra che i principi distintivi possano essere ridotti all'onestà conclamata e all'impegno di ridurre i costi della politica. Per il resto, tutto può essere vago e variamente modulato secondo le opportunità: regole e programmi, come mostra il caso del M5S.
Sono sufficienti queste promesse? Così pare (almeno per una parte consistente del paese), e probabilmente a questo esito ha contribuito un'offerta politica da tempo obiettivamente scadente. Vi è chi ancora promette la rivoluzione liberale, mancata per un quarto di secolo. Anche se la sua coalizione comprende forze evidentemente non liberali. Altri agitano bandiere insostenibili, anzi contro-producenti: come il sovranismo che neppure una grande potenza mondiale potrebbe permettersi (figuriamoci un paese fragile e in declino); l'Europa criminale e l'uscita dall'Euro (anche se questi temi sembrano scivolare al margine dopo i primi moniti di alcuni eventi internazionali, in Gran Bretagna come in Spagna); la flat tax, ricetta economica che non ha mai mantenuto le sue promesse (tanto meno in un contesto afflitto dai problemi economici e sociali dell'Italia); oppure la facile tentazione di fare leva sulle paure del diverso, che rischia però di alimentare le tensioni sociali in forme dannose per tutti. Anche chi ha governato in questi anni ha contribuito a fomentare disillusioni e populismi. I conservatori di sinistra guardano al passato, senza esprimere, a me pare, alcuna idea di futuro. Si capisce che ora prendono le distanze dalle posizioni che per qualche tempo hanno sottoscritto, non che cosa intendano proporre per affrontare i problemi incombenti. E mi indigna il tono sprezzante con il quale è trattato il tema della "buona scuola": perché questo è un settore chiave che non esige solo investimenti e assunzioni in ruolo, ma grandi dosi di innovazione, merito e responsabilità, mentre vi è ancora una sinistra che difende l'esistente (dove qualcuno equipara la funzione di docente a un "lavoro socialmente utile", da svolgere sotto-casa, non importa in quale disciplina; come se l'insegnamento da offrire fosse una variabile indipendente rispetto al contesto: come il salario negli anni'70?). D'altra parte, ciò che resta del PD - e non è poco - deve interrogarsi sui suoi insuccessi: ai quali possono aver contribuito il logorio del governare e il protagonismo individualistico del leader (atteggiamento che in Italia paga solo quando la congiuntura è positiva); ha pesato, probabilmente, la lunga attesa della ripresa economica, che è giunta in ritardo e più debole rispetto alle previsioni; non ha giovato una rappresentazione del paese volta a evidenziare i potenziali punti di forza, senza un'attenzione adeguata per le condizioni diffuse di disagio (errore commesso anche dalle élites politiche di altri paesi); ritengo invece che sia un falso problema, anzi un titolo di merito, l'impegno (purtroppo inusuale, ma fortemente criticato) su diversi temi di riforma, per quanto discutibili possano essere state alcune scelte (peraltro conseguenti a compromessi politici inevitabili, data la distribuzione delle forze). Ma il nodo fondamentale, io credo, sta proprio in alcune difficoltà oggettive: come accompagnare un paese in grave ritardo lungo un percorso indispensabile di riforme, cercando di conciliare l'uso efficace di risorse scarse con la difficile conquista del consenso popolare necessario.
Ritorniamo così al punto sollevato da Donolo: la società civile è al centro dei problemi (e la politica, in fondo, ne è solo un epifenomeno). La società italiana soffre per criticità di lunga data - si è detto - che l'autore ha indagato in modo esemplare a proposito del Mezzogiorno (Questioni meridionali, 1999). Già allora Donolo ci ammoniva, però: non si tratta soltanto di problemi regionali; criticità affini valgono per tutto il paese, è solo questione di grado! (Disordine, 2001 - a mio avviso, una delle sue opere migliori - pp. 72-79). Di conseguenza, mi lasciano perplesso le rappresentazioni dualistiche che celebrano il buon governo o addirittura il rinascimento di città e regioni del Nord. Nessuno nega alcune differenze di qualità relativa, ma quando sento esaltare il modello lombardo non posso dimenticare la politica ambientale inefficace, gravi fallimenti infrastrutturali come Malpensa o Pedemontana, le occasioni perdute dalle grandi trasformazioni urbane, il degrado della sanità pubblica (che è oggettivo e pesante nell'ultimo decennio: la crisi dei servizi ambulatoriali dipende solo dai trasferimenti insufficienti per una domanda che cresce insieme all'età media della popolazione? Oppure qualche responsabilità spetta anche alla gestione regionale?). In realtà, ci troviamo di fronte a un grumo intricato e persistente di problemi, non solo economici e politici, ma innanzi tutto sociali e culturali: come affrontare gravi carenze e difficoltà storiche con il coinvolgimento consapevole della società civile. Seguendo le tracce suggerite da Donolo, a me pare di poter individuare una priorità: tra favole e mistificazioni, semplificazioni e auto-inganni, grande è il bisogno di verità pubblica - alla quale ogni attore può contribuire, con umiltà e secondo responsabilità, svelando al potere e alla collettività la sua verità (da tempo sostengo la funzione cruciale, ma disattesa, della parresia: Palermo e Ponzini, 2015, pp.91-97). Un impegno che presuppone una franca denuncia delle radici sociali dei problemi (che il populismo elude) e poi una tematizzazione rigorosa e realistica del senso, degli obiettivi e dei modi del cambiamento.
Cambiamento
Mutamento o transizione? La riflessione sul tema da parte di Donolo (1977) è parsa subito non conformista e innovativa. In una fase nella quale la cultura di sinistra dava credito al piano del capitale, l'autonomia del politico, l'attualità della transizione al socialismo, il determinismo delle leggi storiche di movimento (ad esempio, Quaderni Rossi, 1970; Colletti, 1972; Tronti, 1977; Bedeschi, 1983), il discorso pacato, non polemico, eppure fermo e responsabile di Carlo Donolo indicava una via diversa: non solo inconsueta, ma forse neppure ben compresa nel tempo e nel contesto perché espressione di una cultura poco familiare. Il mutamento è un processo di co-evoluzione nel corso del quale si intrecciano interessi, strategie ed azioni di diverse componenti della società (l'iniziativa politica è una di queste). Il processo è graduale e assume caratteri emergenti - generalmente irriducibili alle volontà e alle aspettative di singole parti, per quanto influenti esse possano essere. Gli effetti composti derivano dall'intreccio, non strettamente prevedibile, fra intenzioni strategiche, giochi di interazione e fattori di contesto. Perciò non è possibile concepire il processo come la realizzazione di uno stato finale predeterminato. Questo non significa negare il valore e il peso potenziale di intenzionalità specifiche, ma provare a situarle in un campo aperto di condizioni e interazioni, dove gli esiti non sono garantiti: potranno essere forse perfezionati grazie e processi di sperimentazione e apprendimento, via prove ed errori. La transizione è una forma di mutamento più radicale, che mette in gioco principi e modi essenziali di un'organizzazione sociale e politica, fino a configurare un cambio di regime. Questo non significa che la sua logica possa essere diversa, per esempio come compimento inesorabile di qualche legge predeterminata. Anche in quel caso il cambiamento sarà sempre graduale e si svilupperà per co-evoluzione ed effetti composti (ibidem, p.27). Tra mutamento e transizione Donolo riconosce dunque solo una differenza di grado. Una vera alternativa, in fondo, non è data - anche se, all'epoca, il fascino della transizione accelerata sembrava prevalere sulle fatiche pazienti del riformismo.
Questa visione appartiene alla tradizione del "pragmatismo critico" che era sostanzialmente estranea in Italia, in quella fase, e ha fatto fatica a trovare spazio anche in tempi più recenti (Palermo, 2009). Donolo ha sempre mantenuto quella rotta, nel corso delle sue ricerche, arricchendo il quadro con una varietà di sviluppi di notevole interesse. È l'originalità dell'imprinting che gli ha consentito di prendere le distanze dalle tendenze (allora) più accreditate: il marxismo scolastico ancora influente (solo anni dopo, e non per tutti, sarebbe stato chiaro il tramonto di quella ideologia: Colletti, 1980; Bedeschi 1983 e 2002, Castronovo 2000); le dottrine un po' eclettiche (o confuse), ma rumorose e asseverative dei movimenti sociali (tanto intellettualmente aggressivi quanto poco disponibili ad applicare a se stessi lo spirito critico: per esempio, Balestrini e Moroni, 1997); ma anche la riemergente cultura neo-liberista, che si limitava a concepire il cambiamento sociale come effetto quasi-automatico dell'aggregazione di mere utilità individuali (Ruffolo, 1985). Per Donolo non vi sono dubbi: l'individuo si costituisce socialmente, tramite interazioni, ma (prima ancora) grazie a norme e cognizioni condivise, e alla possibilità di fruire di beni collettivi, ereditati o creati o rigenerati dal processo stesso di sviluppo, grazie alle cure della funzione pubblica e della mobilitazione sociale. Questo complesso di risorse e opportunità diventa la chiave decisiva per la qualità del cambiamento.
In questo senso, le tesi di Donolo entrano in dialogo con una serie di posizioni emergenti - in Italia a lungo marginali, purtroppo - che hanno profondamente modificato le concezioni dialettiche, idealistiche o utilitaristiche del cambiamento, offrendo un grande contributo al rinnovamento della cultura civile del mondo occidentale. Penso, per esempio, alla concezione "contestuale" della razionalità individuale e collettiva secondo Raymond Boudon (1977, 1984), così come dell'agire strategico e dei giochi di interazione secondo Michel Crozier (1977): da queste premesse discende un'idea del social change fondata sulle relazioni co-evolutive fra attori e sistema invece che su presunte leggi generali di funzionamento della società. Penso all'interpretazione del cambiamento come evoluzione del potenziale inscritto in una situazione, che è stata approfondita in ogni modo da Francois Jullien (per esempio, 1996, 2015) come modello alternativo ai canoni della razionalità occidentale (curiosamente, l'autore ha dedicato grandi attenzioni alla distinzione fra i due paradigmi, ma poco si è curato dell'impatto latente, ormai in atto da tempo, del primo modello sullo stesso mondo occidentale). Penso all'approdo della riflessione di Ulrick Beck (2016), che assume la metamorfosi, non la trasformazione come chiave del mutamento. L'opera, postuma, è per certi aspetti incompiuta, ma lo slittamento di paradigma è inequivocabile. Non reggono le logiche della trasformazione che pure hanno a lungo ispirato la cultura di sinistra. L'idea di metamorfosi potrebbe sembrare fuorviante, se intesa come modificazione subitanea di forma e struttura, la cui genesi potrebbe rimanere oscura (come nel caso della tradizione mitologica). Ma l'errore consiste nel volgere l'attenzione solo al passaggio finale, invece di prendere cura del processo evolutivo che alla metamorfosi porta come graduale sviluppo di un potenziale insito nella struttura preesistente. Un processo nel corso del quale - questo è un motivo particolare di interesse della riflessione di Beck - anche dei mali contingenti possono evolvere in nuove opportunità positive (così una condizione di disagio può favorire le spinte verso l'emancipazione: finalmente una nota di speranza nel tempo inesauribile della crisi!). Contributi come questi (e altri ancora) sono in grado di corroborare la proposta di Donolo. Non si tratta soltanto di una semplificazione pragmatica dei problemi, alla quale aderire per semplicismo o rassegnazione, dopo aver esperito il fallimento di altri progetti, ben più ambiziosi. Entra in gioco, invece, una forma di razionalità più sofisticata, che rappresenta una sfida intellettuale oltre che pratica. In Italia non sono state numerose le voci che hanno voluto esplicitamente scegliere ed esplorare questa via: penso, per esempio, a Ota de Leonardis (1997, 2001), Gian Battista Lanzara (1993) e anche una pattuglia di urbanisti come Pierluigi Crosta (1998, 2010), Alberto Clementi (2012, 2016) e chi scrive (2009, 2015); i rifermenti qui segnalati si trovano nelle bibliografie di Donolo, ma contributi degli stessi autori di orientamento affine risalgono fino agli anni '80. Sono convinto che molti risultati interessanti della ricerca e riflessione di Donolo siano debitori di questa scelta paradigmatica, che svolge una funzione fondativa e merita ulteriori approfondimenti. Anche se la cultura europea non è stata sempre sensibile a queste ipotesi.
Infatti, il pragmatismo, se pur critico, è stato spesso considerato un esercizio di pensiero relativamente elementare, troppo poco problematico; mentre i limiti consapevoli dell'agire pragmatico non hanno soddisfatto i fautori di una politica più ambiziosa e determinante. Per esempio, l'idea del "governo debole" (1981) e dell'innovazione sociale come "effetto emergente" (1988) sono due conseguenze logiche della concezione del cambiamento che Donolo ha voluto adottare. Tuttavia, un riformatore come Giorgio Ruffolo (1985, p.144) ha mostrato insofferenza verso questi limiti, giudicando il governo debole come "una risposta rassegnata alla complessità dei problemi", da collocare sulla scia del neo-funzionalismo di Niklas Luhmann (che mi pare francamente lontano dalla visione di Donolo: Luhmann e De Giorgi, 1992). Credo invece che il riformismo avrà maggiori possibilità di successo, anche in Italia, solo quando (e se) sarà più matura la consapevolezza della natura reale dei problemi sociali e politici in discussione. Le analisi di Donolo hanno prodotto molti risultati interessanti: sulle forme e i limiti della razionalità politica (1981, 1988, 1992), i modelli di regolazione e sregolazione sociale (1997, 1999, 2001), il ruolo e il funzionamento delle istituzioni (1992, 1997), i potenziali locali e la sostenibilità dello sviluppo (2003, 2005, 2007), le relazioni fra cultura, identità e coesione territoriale (2003, 2004, 2012), la funzione cruciale della dotazione, cura e risarcimento di beni collettivi (2003, 2006, 2011, 2017), il nesso insolubile fra diritti civili e virtù repubblicane (2001, 2017). Sono convinto che una delle ragioni di fondo di questo bilancio lusinghiero sia stato il coraggio di adottare e sviluppare degnamente una visione d'insieme - su società e politica, governance e cambiamento - non conformista rispetto agli orientamenti culturali prevalenti nel suo tempo e nei suoi ambienti.
Sviluppo
La nozione di cambiamento è però solo uno strumento, che assume senso e valore in relazione a un'idea sostantiva di sviluppo: come meta e ragion d'essere del processo di social change. Credo che uno degli esiti più importanti del lavoro di Donolo sia stato il disegno di una concezione possibile dello sviluppo - sostenibile nel senso più ampio del termine: economico, sociale, ambientale, ma anche etico - che oggi può rappresentare una sfida di frontiera. Sarà solo il discorso di una "minoranza attiva", ma forse è la sola prospettiva promettente, per quanto impervia. Una prima precisazione dovrebbe essere ovvia dopo quanto è stato detto. La crescita non è sviluppo, ma soltanto uno strumento da orientare verso finalità degne di attenzione. Sappiamo tutti che i discorsi politici attuali, sopraffatti dall'ansia della crisi e della prestazione, non si prendono cura di queste distinzioni, quasi fossero solo sottigliezze formali e superflue. Crescita, crescita, crescita: è diventata un'ossessione, ma non sarà la soluzione dei problemi. Perché su questi temi è ormai disponibile una vasta documentazione storica e riflessione critica, che non dovrebbe consentire illusioni (per citare una sola conclusione, solo apparentemente paradossale: "la crescita limita lo sviluppo", Ruffolo, 1985, p. 66). Questo implica anche la presa di distanza da qualunque illusione tecnocratica. Le esperienze politiche e amministrative dell'Unione Europea dovrebbero avere chiarito i limiti non contingenti di un approccio tecnocratico, che da decenni ha provato a trattare i temi dello sviluppo, della sostenibilità, della coesione e così via, con esiti obbiettivamente deludenti e comunque incompiuti (Palermo e Ponzini, 2015, pp. 86-91). Qualche punto fermo sembra ormai consolidato anche sul fronte opposto. L'insoddisfazione per i modelli canonici non può giustificare divagazioni discorsive forse cariche di buone intenzioni, ma troppo generiche o improvvisate e inconcludenti: come le narrazioni sul "modo nuovo di fare sviluppo" che si sono moltiplicate in vari campi di esperienze nel corso degli anni '70. Non sembra offrire risposte soddisfacenti neppure il più attuale movimento per la "decrescita felice" (Latouche, 2009). Si può apprezzare il giusto richiamo ai limiti naturali e sociali dell'agire individuale e collettivo; non si può eludere però il rapporto problematico fra esigenze basilari di crescita (comunque indispensabile) e qualità possibile dello sviluppo. Nella visione di Carlo Donolo ritrovo invece una rappresentazione più completa e convincente di nodi critici e opportunità, speranze e sfide. Un manifesto essenziale e coerente che potrebbe richiamare società civile e politica a un insieme di responsabilità non derogabili.
L'ipotesi di fondo è che alcuni presupposti sociali e culturali sono fondamentali affinché lo sviluppo sia possibile e qualitativamente rilevante. Come insegna Amartya Sen (1999) e la sua scuola, diventano decisivi alcuni requisiti soggettivi della cittadinanza attiva - autonomia, responsabilità e capability - insieme ad alcuni standard del contesto, fra i quali spicca la dotazione di diritti e di beni pubblici e comuni. Non vi è politica di sviluppo che possa sottovalutare queste risorse e questi fattori, che incidono sensibilmente sull'entità della crescita possibile e, ancor più, sui suoi modi d'uso, per una valorizzazione fertile e sostenibile. Perciò politiche mirate dovrebbero prendersi cura della generazione o riproduzione di questi presupposti: diritti, capacità e potenziali, coesione e beni collettivi. La crescita economica, di per sé, non offre garanzie immediate in questo senso. È compito della società e della politica consentire "alla crescita di diventare sviluppo", civico e sociale. Donolo ha saputo dare contributi interessanti a questa prospettiva, volgendo l'attenzione, mi pare, verso quattro famiglie di questioni decisive (un efficace quadro d'insieme si trova in Donolo, 2017).
La dotazione di beni collettivi. La qualità della vita e dello sviluppo è profondamente condizionata dalla disponibilità di beni pubblici (qualità ambientali vitali, sicurezza, civismo, diritti) e beni comuni (heritage culturale, commons naturali, istituzioni, reti, potenziali). Come è noto, la differenza fra le due categorie dipende dall'eventuale rivalità nell'uso e quindi dal rischio di degrado del bene in comune in situazioni di fruizione non regolata. Peraltro, la possibilità di accesso e fruizione a tali beni è uno standard di valore e rappresenta un'alta conquista civile. Ecco perché una società democratica matura deve preoccuparsi di garantire beni pubblici e tutelare (rigenerare, se necessario) i suoi beni comuni. Attenzione sociale e impegno politico devono essere destinati a questo scopo. Tanto più se si è convinti che la dotazione di capitale sociale e territoriale sia una componente determinante del potenziale di sviluppo materiale e civile di una situazione, Carlo Donolo attribuisce grande rilievo a questi temi, e li sviluppa forse più di altri autori che pur condividono gli stessi principi. Il trattamento dei beni collettivi diventa un presupposto determinantedella sua teoria dello sviluppo (2003, 2005, 2007, 2017).
La sfera pubblica. Tecnicamente, la nozione allude allo spazio e alle forme dell'argomentazione e deliberazione collettiva, tema classico che ha assunto un nuovo rilievo per gli sviluppi contemporanei dell'idea e delle pratiche della democrazia. Donolo non è certo disposto ad accettare alcune semplificazioni di moda, che privilegiano la funzione di alcune tecnologie della comunicazione o l'appello a qualche algoritmo decisionale (come accade non raramente ai neofiti della democrazia diretta o agli attivisti compulsivi dei social media). La sua concezione della sfera pubblica è invece più densa, fino al punto di mettere a rischio confini e specificità dell'idea stessa. La convinzione è che qualità, legittimazione e potenziali dei processi che si svolgono nella sfera pubblica dipendano strettamente dalle dotazioni del contesto. Questo significa chiamare in causa memorie e valori condivisi (ma non identità inventate: Tullio-Altan 1995), istituzioni e risorse normative, capitale sociale e capacità soggettive. Significa dunque adottare una nozione di sfera pubblica non meramente formale-procedurale. E quindi riconoscerne le fragilità potenziali: perché se alcuni presupposti si rigenerano con l'uso (è il caso di certe componenti del capitale sociale, come fiducia, reputazione e propensione alla cooperazione), altri sono tanto più a rischio quanto più aperto e democratico è il processo (i classici commons indagati da Ostrom, 1990). Perciò la sfera pubblica non è la soluzione (agognata) di tutti i problemi, ma parte dolente della situazione critica. E richiede cure e politiche mirate.
La funzione pubblica. Alcune responsabilità di tutela, cura e rigenerazione spettano propriamente alla pubblica autorità. Al riguardo, la società umana non ha saputo ancora inventare alternative credibili. È vero, ci sono movimenti come il cosiddetto beni-comunismo che aspirano (non è la prima volta) a forme di auto-organizzazione sociale più determinanti e diffuse (Mattei, 2011). Esortazioni semplificatorie e inconcludenti, a mio avviso. Donolo non ha dubbi sulla necessità di un ruolo pubblico in questo campo. Non diverse sono le conclusioni sul tema da parte di Salvatore Settis (2012, 2017). Noto però una differenza: Settis non dà grande rilievo all'esigenza di riqualificazione, rigenerazione della funzione pubblica nel nostro paese. Per Donolo, invece, questo è un prerequisito ineludibile: l'intervento pubblico è necessario, ma rischia di risultare vano se non è in grado di rispettare certi standard (2007, 2012, 2017). Deve essere impegno pubblico e collettivo a ricostruirli, ovunque sia necessario (scuola e pubblica amministrazione diventano ambiti prioritari). Condivido queste esigenze. Trovo gravemente insufficiente, in certi ambienti della sinistra, l'appello a un ruolo pubblico più pervasivo e vincolante, in mancanza però di qualunque verifica sulla qualità della funzione. Ancora una volta: questi appelli non sono la soluzione, ma una parte del problema.
Diritti e doveri. Dopo una lunga stagione di grandi conquiste nel campo dei diritti civili, vi sono forze che si preoccupano di tutelare i risultati conseguiti di fronte a possibili tendenze regressive. Le rispetto, ma penso che altre sfide non dovrebbero essere eluse. Per garantire diritti fondamentali a una domanda in espansione mentre le risorse diventano sempre meno adeguate, sarebbe necessario riconsiderare e probabilmente riformulare alcune questioni fondamentali. Penso per esempio all'equilibrio precario fra soggetti tutelati e nuove leve prive di tutela. Oppure alla difficile conciliazione fra aspirazioni locali (di conservazione, tutela o chiusura) e valori che possono essere reputati universali (diventare cittadini del mondo). Questioni eticamente e socialmente difficili, che tuttavia sarebbe vano eludere. A me pare che Donolo abbia il merito di introdurre alcuni problemi in modo non convenzionale. Uno dei temi emergenti è un'interpretazione più rigorosa dell'idea di cittadinanza. Non può essere pensata soltanto come un catalogo di diritti. Implica anche una compartecipazione alle responsabilità e agli impegni concreti della civile convivenza. Perciò sembra necessario un richiamo alle "virtù repubblicane", senza le quali la qualità della democrazia è a rischio (Pettit, 1997; Viroli, 1999; ma già Donolo, 1992). Il punto è interessante perché indica una via d'uscita rispetto ai limiti di alcune ideologie correnti. Certo, l'idea di individuo e di società del neo-liberalismo difficilmente può essere considerata convincente e tanto meno fertile. Ma molte ideologie "di sinistra" non hanno offerto un'alternativa sostenibile. Se si guarda invece ai più importanti tentativi riformisti del '900 (che Ruffolo, 1985, individua negli sviluppi del pensiero socialista e liberale; la fonte magistrale è Norberto Bobbio, per esempio, 1984 e 1999), si può intravvedere qualche prospettiva: emerge un profilo di soggetto più complesso (cioè denso e plurale), autonomo e responsabile, che può consistere con un'idea di società più giusta e solidale. Tra le virtù repubblicane e la concezione classica del soggetto liberale la distanza non è incolmabile. Alcuni caratteri in comune sembrano più idonei, rispetto ad altri profili, a reggere le fatiche della convivenza sociale. Da questa visione discende un impegno civile e politico. Sentimenti e comportamenti della società civile non possono essere considerati una variabile indipendente, che richiederebbe solo di essere assecondata ai fini del consenso. Un paese a democrazia matura deve essere in grado di creare gli anti-corpi necessari per contrastare le spinte verso l'insocievolezza e l'assistenzialismo, quando eccedono una ragionevole misura. L'intuizione di Italia sperduta - la società civile è parte determinante del problema - ha trovato chiare conferme negli anni successivi (come documentano i lavori più recenti: 2012, 2014, 2017). Donolo ha compiuto passi importanti in questa direzione, purtroppo poco frequentata. Come?
Agire
Questi principi fondativi ispirano un programma d'azione. Che dovrà essere articolato: perché a lato delle politiche correnti, in larga parte rimediali o anti-cicliche, sarà necessario concepire una strategia a medio-lungo termine, tesa a incidere sulle grandi criticità fin qui delineate (con uno sforzo equilibrato e paziente, consapevole che i tempi necessari per ottenere risultati non saranno brevi, ma occorre continuità e tenacia, e un saggio trade-off fra esigenze immediate e investimenti per il futuro). Grazie a quali strumenti? Donolo non elude la questione, ma evidenzia con forza alcune priorità. Non basta la gestione corrente, ma politica e amministrazione devono assumere il rischio dell'agire orientato allo scopo: che punta a un obiettivo, è disposto ad accettarne misure e valutazioni, si prende la responsabilità degli esiti in relazione alle promesse (questo non significa accontentarsi della retorica superficiale e dei tecnicismi del "management by objectives", che diventano spesso un'illusione o un diversivo; la sfida è introdurre e rispettare standard effettivamente rigorosi, secondo le migliori tradizioni del realismo e pragmatismo critico). Un secondo nodo è la funzione cruciale di politiche e strategie indirette. Perché l'idea del cambiamento e dello sviluppo che è stata delineata evidenzia la centralità degli effetti collaterali: bisogna imparare a governare non solo per comando e decreto, ma grazie alla capacità di indurre attori autonomi e responsabili a compiere scelte collettivamente propizie. Il terzo nodo è l'impulso a politiche attive: se la società è costituita da soggetti autonomi e responsabili, come non pensare che il loro coinvolgimento diretto nei processi decisionali non possa migliorare la qualità degli esiti? Questi tre orientamenti rappresentano a mio avviso il nucleo essenziale della proposta "operante" di Carlo Donolo. Indicano una via complicata e ancora poco esplorata, ma forse (finalmente) promettente.
Questo significa assegnare un ruolo preminente alle politiche pubbliche (come osserva Trigilia, 2017)? Non ne sono convinto. È vero che Donolo ha dedicato un'attenzione non marginale alla narrazione delle "nuove politiche" (analizzando con cura le voci canoniche: complessità, integrazione, valutazione, partecipazione e così via). Questa però è la parte della sua riflessione che mi pare meno originale e rischia di confluire in alcune retoriche di moda. In verità, la cultura delle politiche pubbliche si è rivelata poco innovativa nel lungo periodo (come documenta Dente, 2011). I nodi e i dilemmi fondamentali erano già definiti alcune decine di anni fa (Palermo e Ponzini, 2015, pp. 41-52). Il rilancio retorico delle stagioni più recenti (con il ruolo eminente dell'UE) non ha aggiunto quasi nulla di nuovo. Contano i principi costituenti (che Donolo ha saputo scegliere e declinare in modi a mio avviso ineccepibili) e poi la qualità dei progetti effettivi (come le esperienze urbanistiche dovrebbero avere insegnato: Palermo, 2017). Perciò preferisco il nucleo paradigmatico di Affari pubblici (2017) rispetto alla presentazione di concetti e metodi del policy-making(ibidem, parte seconda). Credo che le scelte di principio e alcuni indirizzi di pensiero e d'azione che ho cercato di evidenziare siano il motivo di maggior interesse dell'opera di Carlo Donolo. Lo scenario che si apre è complicato, ma almeno lascia intravvedere una via oltre la deriva. Spero che sia riconosciuta, amata e praticata - non solo da minoranze attive - perché, come dice il poeta, "al andar se hace camino" (Machado, 1912). Con le parole, già citate, di Donolo (e Kafka): "le vie nascono dal percorrerle" (2014).
Pier Carlo Palermo
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N.d.C. - Pier Carlo Palermo è professore emerito di Urbanistica al Politecnico di Milano dove ha fondato e diretto il Dipartimento di Architettura e Pianificazione ed è stato preside della Facoltà di Architettura e Società.
Tra i suoi libri: Trasformazioni e governo del territorio (Franco Angeli, 2004); Innovation in Planning: Italian Experiences (Actar, 2006); con G. Pasqui, Ripensando sviluppo e governo del territorio (Maggioli, 2008); I limiti del possibile. Governo del territorio e qualità dello sviluppo (Donzelli, 2009); con D. Ponzini, Spatial planning and urban development (Springer, 2010); con D. Ponzini, Place-making and urbandevelopment (Routledge, 2015).
Per Città Bene Comune ha scritto: Per un'urbanistica che non sia un simulacro (5 febbraio 2016); Non è solo questione di principi, ma di pratiche (18 gennaio 2017); Vanishing. Alla ricerca del progetto perduto (30 giugno 2017).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
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