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In uno scambio di e-mail di qualche tempo fa a proposito de La civiltà architettonica in Italia dal 1945 a oggi (Longanesi, 2017) Cesare de Seta mi scriveva: "forse ti deluderà perché sfioro i temi dell'urbanistica per manifesta incompetenza, e non li affronto come sarebbe stato necessario". Naturalmente si trattava solo di una cortese diversione non corrispondente a verità perché anche in quest'ultimo convincente lavoro i temi dell'urbanistica non sono "sfiorati", ma trattati adeguatamente, almeno per i primi tre capitoli dei cinque totali, dato l'inscindibile legame, nel quale de Seta si riconosce pienamente, tra architettura e urbanistica, proprio della cultura architettonica italiana, dalla professione all'insegnamento universitario. In ognuno di questi capitoli, la storia della civiltà architettonica (non una storia dell'architettura), letta attraverso le figure e i progetti degli architetti più significativi, è accompagnata dalle parallele vicende che riguardano le trasformazioni delle città e del territorio e il parallelo percorso dell'urbanistica italiana, dagli anni della ricostruzione, alla mancata riforma del 1963, al tentativo di recuperare le carenze del nostro ordinamento legislativo fatto negli anni settanta, fino alla conclusione della lunga fase di espansione urbana alla fine di quel decennio. Perché lo stesso approccio non riguardi anche gli ultimi decenni, quelli trattati nei due capitoli finali, credo appaia chiaro a chiunque si occupi seriamente di urbanistica; ma questo punto, per me cruciale, lo tratterò alla fine di queste note. Quanto al vezzo dell' "incompetenza", de Seta, nei suoi lavori monografici sulle città e nei suoi libri da "viaggiatore", si è occupato, eccome, di urbanistica (l'urbanistica di quella città in particolare e l'urbanistica in generale) e lo ha fatto con la visione integrata che contraddistingue la sua ricerca soprattutto di storico della città: l'evoluzione della società urbana (la civitas), le trasformazioni fisiche della città (l'urbs), il paesaggio, le forme di governo che hanno influito in modo determinante sulle vicende urbane. Ma lo ha potuto fare anche in quanto architetto, parte quindi egli stesso della "civiltà architettonica italiana".
A questo proposito voglio ricordare anche il penultimo libro di de Seta La città, da Babilonia alla smart city (Rizzoli, 2017) uscito solo pochi mesi prima de La civiltà architettonica in Italia, un piccolo libro ma con un contenuto assai denso, che mi ha molto colpito proprio per la pertinenza con la vicenda urbanistica. Non solo perché nelle città oggi vive più della metà dell'intera popolazione mondiale, ma perché alla città è ancora affidata la speranza di una vita migliore per i suoi abitanti, la possibilità di trovare un lavoro e una condizione abitativa migliore di quella precedente, di vivere in una comunità. Insomma, le città, che oggettivamente sono i "motori dell'economia" mondiale, ritornano ancora una volta come speranza per il futuro, una condizione che nel racconto di de Seta appare ben presente.
Se i primi cinque capitoli di La città, da Babilonia alla smart city, dedicati all'evoluzione e alla trasformazione della città nella storia non riservano sorprese perché in essi sono condensate le conoscenze e le riflessioni che la ricerca dell'autore ha accumulato dall'inizio degli anni settanta secondo l'approccio che ho già ricordato in precedenza, non è così scontato che ciò si verifichi anche per l'ultimo capitolo, il sesto, dedicato alla smart city (Dalla città della storia alla città dei bit: evoluzione e metamorfosi urbana nel terzio millennio). Al contrario, anche sul tema dell'innovazione tecnologica della città, molto presente nel racconto quotidiano dei media, ma anche su quello più generale delle trasformazioni (evoluzione e metamorfosi) della città contemporanea, oggetto prevalente dell'attuale ricerca scientifica del settore, l'interpretazione e il giudizio di de Seta appaiono del tutto condivisibili e non relativi solo alle competenze dello storico. Sul primo tema, la smart city, pur avendo ben presente l'importanza delle nuove tecnologie informatiche e telematiche, de Seta ne sottolinea l'utilizzazione ancora parziale, limitata a casi sperimentali o a aree circoscritte, ben separate dalle altre (le "città dei ricchi"); in ogni caso, quasi sempre le soluzioni presentate sono "rendering già visti o modelli informatici, repliche attuali di città satelliti sperimentate nel passato, con forme di segregazione sociale anch'esse già sperimentate", che pongono interrogativi inquietanti sull'uso degli spazi urbani e delle relazioni sociali. Mentre per il secondo tema, cioè le metamorfosi della città contemporanea, de Seta affronta, con il piglio dell'urbanista, le problematiche della pianificazione spaziale, sapendo che non vi sono soluzioni o modelli ripetibili per una crescita urbana a livello planetario, ma che conosce anche tendenze di segno contrario, cioè di riduzione, come quelle che riguardano più della metà delle città europee. Uno scenario quindi, nel quale il controllo degli usi del suolo e il bilancio delle risorse naturali messe in gioco rappresentano ancora un passaggio ineludibile, sia per quanto riguarda la governance della sostenibilità, sia gli adattamenti ai cambiamenti climatici. Una critica che non risparmia, quindi, le tendenze del planning contemporaneo, dominato dagli analisti territoriali che utilizzano strumenti difficili da comprendere per gli urbanisti ancora legati alla dimensione progettuale delle trasformazioni territoriali. Insomma, La città, da Babilonia alla smart city è un libro utile, che offre un grande conforto a chi, come me, soffre la condizione di urbanista depresso da una disciplina che si è avvitata in una tragica dimensione burocratica senza progetto, che si è dimenticata le originarie motivazioni fondative (migliorare la vita delle persone) e che è diventata sempre di più ancella del regime immobiliare dominante. Mentre il racconto di de Seta ti aiuta a ritrovare nella storia la qualità di una città, ma anche un suo possibile futuro in una dimensione progettuale, quella che l'urbanistica oggi ha quasi completamente perso.
Tornando a La civiltà architettonica in Italia, il libro si fa leggere "in un fiato": un racconto che appassiona, ma che risulta anche molto utile perché assai documentato, grazie anche alle molte note che integrano il testo con ulteriori giudizi e commenti e che non si limitano, quindi, al normale apparato delle referenze. Un testo nel quale l'autore non esita a esprimere in ogni circostanza il proprio punto di vista con grande sicurezza. Leggendo il libro, ho riscontrato una mia generale condivisione sui molti temi trattati, con due sole eccezioni, che qui voglio evidenziare brevemente: la prima relativa al giudizio sul Piano INA - Casa e la seconda al concreto contributo dato da Adriano Olivetti nella costruzione di un'urbanistica italiana capace di affrontare le esigenze del momento. Mentre su due altre questioni di minore rilevanza, il ruolo delle legge 167 del 1962 e la genesi del piano del centro storico di Bologna del 1969, mi limito a due precisazioni.
Nel capitolo I (I Piani di ricostruzione e la nascita dell'INA-Casa) de Seta critica giustamente i Piani di Ricostruzione del 1946, che misero "a ferro e fuoco quel che restava delle città italiane: forse - scrive - furono minori i danni provocati dai bombardamenti bellici di quelli provocati dal furore della ricostruzione". Non condivido invece il giudizio complessivamente negativo sul Programma INA-Casa "ideologia della ricostruzione", attuato in 14 anni (1949-1963) e che rappresenta il massimo impegno mai prestato dallo Stato nell'edilizia sociale (25%). Le stesse modalità di gestione del programma non sono prive d'interesse, dalla direzione centrale di Arnaldo Foschini, un accademico governativo che tuttavia riuscì a selezionare 5.000 architetti e ingegneri inseriti in un apposito album che li rendeva idonei alla progettazione INA-Casa (una valutazione di merito non così frequente nel nostro Paese) e che riuscì a garantire una capacità produttiva (senza innovazione tecnologica) e un'efficienza realizzativa mai più conosciute in seguito. La maggior parte degli interventi riprende la soluzione del quartiere come da tradizione del Movimento Moderno (le Siedlungen), dai quartieri più grandi nelle città, alcuni dei quali sono ricordati anche nel testo (Tiburtino a Roma, Harar e Feltre a Milano, Falchera a Torino), ai più modesti insediamenti nei centri minori. A questo proposito ricordo un ampio servizio con una documentazione fotografica inconsueta per la rivista sulle realizzazioni INA-Casa, pubblicata su Urbanistica 17/1954 con i quali il direttore, allora Giovanni Astengo, esprime un'esplicita quanto evidente approvazione (Urbanistica aveva già presentato i principali quartieri INA-Casa nel n. 7/1951, come ricordato anche nelle note).
Forse perché milanese, tendo ad apprezzare il contributo di quella che de Seta definisce come l'area culturale "milanese - lombarda" che orientò l'urbanistica e l'architettura dell'INA-Casa (l'altra era quella "romana"): in quell'esperienza vedo, come ho già sottolineato, più la tradizione del Movimento Moderno nel campo dell'edilizia sociale che, come scrive invece l'autore, "il volano che mise a soqquadro le grandi aree urbane, innescando giganteschi meccanismi speculativi", che ci furono, certo, ma che sono imputabili a altre scelte di fondo, ben più strategiche anche per il futuro. Come: l'aver rinviato l'applicazione della legge urbanistica a dopo la ricostruzione e la sua sostituzione con i Piani di Ricostruzione, le modifiche riduttive a quella legge apportate in sede di prima applicazione relative alle possibilità espropriative nella regolazione dell'espansione urbana e, soprattutto, la bocciatura della riforma urbanistica nel decennio successivo. Del Programma INA-Casa rimangono ancora oggi alcuni interventi molto belli, nonostante l'arretratezza tecnologica e costruttiva (di cui, naturalmente, de Seta dà conto) e la povertà dei materiali utilizzati. Per restare a due soli esempi milanesi, cito il quartiere Feltre che resiste al tempo con la sua grande solidità costruttiva e che si è arricchito dello spettacolare parco interno alla corte delle case alte; ma voglio ricordare anche l'urbanistica del QT8, il quartiere sperimentale realizzato per l'ottava Triennale, i cui spazi verdi, Monte Stella compreso, non sono certo comuni nell'urbanistica italiana e riscattano la modestia della gran parte delle architetture. Una qualità dell'intervento urbanistico e architettonico che dura almeno fino alla sostituzione dell'INA-Casa con la Gescal, quando la stessa comincia a peggiorare irrimediabilmente e peggiorerà ulteriormente con i successivi Piani di Zona della 167 del 1962 e della 865 del 1971, salvo, naturalmente, le eccezioni che ci sono sempre.
Ancora a proposito del Programma INA-Casa, non condivido anche il giudizio critico sulle responsabilità del piano INA Casa (e forse anche della riforma agraria) nell'avviare il processo di dispersione urbana e di abbandono dei borghi che oggi si manifestano in tutta la loro drammatica consistenza (v. cap.1 Città e campagna); la responsabilità è tutta della legge urbanistica del 1942, per come tratta le zone extraurbane, considerate dai Piani Regolatori Generali "zone bianche", zone di riserva dove ogni trasformazione è possibile. Una situazione che cambierà, ma non in modo decisivo, solo con le prime leggi regionali, dopo il trasferimento delle competenze urbanistiche alle Regione nel 1972 e dopo la "legge Galasso" del 1985 che ha istituito il piani paesaggistici. Una condizione che oggi è ulteriormente peggiorata per il deleterio processo di metropolizzazione che ha investito il nostro territorio senza alcuna politica reale di contrasto (vedi le difficoltà della legge sul "consumo di suolo" non approvata in questa Legislatura e le ambiguità presenti nelle relative leggi regionali).
Quanto al contributo concreto dato da Adriano Olivetti all'urbanistica italiana, de Seta nel capitolo II (La nuova committenza: l'industria privata e io mecenatismo di Adriano Olivetti) dà il giusto risalto alla figura di Olivetti, che incarna "lo spirito migliore e più aperto e progressivo del capitalismo italiano negli anni della sua massima espressione". Un approccio che era già stato positivamente evidenziato nel capitolo I a proposito della contraddittoria esperienza dei "Sassi" di Matera, nella quale Olivetti aveva svolto un ruolo di coordinamento per l'attuazione della legge speciale, oltre a rendere la stessa attuazione più aggiornata e solida affiancando agli urbanisti i sociologi urbani; un contributo fino a quel momento assente dalla cultura urbanistica italiana, ma del tutto logico se si pensa alla fiducia di Olivetti verso la pianificazione. Di Olivetti de Seta evidenzia innanzitutto il pensiero politico e sociale, ma anche la fiducia nella pianificazione e il suo mecenatismo che tanto ha alimentato l'architettura italiana negli anni cinquanta e che è sopravvissuto a lui stesso come tradizione dell'azienda e la sua intuizione sulle potenzialità del design che tanto hanno influito sul successo della sua impresa. Tuttavia, a mio giudizio, non sottolinea, quanto dovrebbe, il contributo concreto che Olivetti ha dato alla costruzione di una moderna urbanistica italiana. Olivetti diventò Presidente dell'INU nel 1950 dopo che l'Istituto era stato completamente rinnovato dal nuovo Statuto previsto nel decreto emanato dal Presidente della Repubblica che gli conferiva la qualifica di "ente di alta cultura"; per un anno diresse anche Urbanistica prima di cedere la direzione a Giovanni Astengo che la mantenne per i successivi diciassette anni). Il suo obiettivo principale era quello della riforma urbanistica, ripristinando il modello pubblicistico esproprio - urbanizzazione - assegnazione, la cui possibilità era stata immediatamente cancellata dalla prima applicazione della legge del 1942. Non dimentichiamo che questa, pur essendo largamente sopravvalutata anche dalla cultura urbanistica contemporanea non era una pessima legge, ma era comunque ancora firmata dal re Vittorio Emanuele III e promulgata dal primo ministro Mussolini. Su questo obiettivo Olivetti, imprenditore moderno e lungimirante, che credeva nel profitto ma condannava la rendita e che, soprattutto credeva nella pianificazione, raccolse attorno a sé i migliori urbanisti italiani come Piccinato, Quaroni, Astengo, Zevi, Samonà, Detti, Bottoni, Belgioioso. Alcuni di essi, dopo la sua morte e precisamente Samonà, Piccinato e Astengo sono stati i rappresentanti INU che materialmente scrissero la riforma urbanistica ritirata nel 1963 che, se approvata, avrebbe cambiato radicalmente le modalità di sviluppo del nostro territorio e quindi la qualità della grande espansione urbana cominciata alla fine degli anni cinquanta. Insomma, ci avrebbe consegnato un Paese diverso da quello che conosciamo. Ma vi è anche un secondo lascito, assai concreto, di Olivetti oltre a quello relativo all'architettura italiana (e al design) ben documentato da de Seta, quello relativo all'urbanistica, rappresentato da Ivrea non solo per gli edifici industriali citati nel libro, ma anche per i "quartieri olivettiani" (progettati da Fiocchi, Nizzoli, Piccinato e Ridolfi), per le residenze temporanee di "talponia" (Gabetti e Isola) e per i vari servizi (asili, scuole, giardini), fino ai parcheggi dell'ultimo stabilimento progettati da Porcinai. Per questo nel 2001 la città istituì un "museo all'aperto", il MAM, la cui visita consiglio a tutti, che è oggi in competizione per ottenere la qualifica di patrimonio Unesco dell'umanità.
Quanto alle precisazioni, la prima è riferita a un passaggio presente nel capitolo III in un paragrafo quasi interamente dedicato all'urbanistica (L'alibi della nuova dimensione urbanistica e le velleità del neocapitalismo). Qui de Seta sopravvaluta un po' la portata della legge 167 del 1962 per l'edilizia economica popolare, una legge la cui approvazione è passata inosservata poco prima del disastro sulla riforma (e non, come qualcuno sostiene, come compensazione parziale), ma che era finalizzata semplicemente all'acquisizione a "basso prezzo" di aree per l'edilizia economica e popolare e non aveva quindi la pretesa di "calmierare il valore dei suoli" come sostiene de Seta. Questo significato, attribuibile alle politiche urbanistiche delle "giunte rosse" formatesi in gran numero dopo le elezioni del 1976, deve essere però riferito alla legge 865 del 1971 che della 167 del 1962 rappresentava un sostanziale miglioramento, dato che aveva introdotto le indennità d'esproprio a valore agricolo (mentre dalla prima legge urbanistica del 1865 erano a valore di mercato) e la possibilità di coprire con i Piani di Zona fino al 60% del fabbisogno di edilizia sociale (quota successivamente portata da un minimo del 40% a un massimo del 70%). Mentre a proposito della "legge ponte", un ponte verso una riforma che non è mai arrivata, va ricordato il ruolo determinante svolto da Andrea Martuscelli, direttore dell'urbanistica del Ministero dei Lavori Pubblici, al quale si deve anche l'elaborazione del decreto sugli standard del 1968. Quest'ultima legge ha comunque avuto anche altri meriti oltre a quelli citati da de Seta, come l'obbligo sostanziale per tutti i Comuni di dotarsi di PRG e nuovi limiti in riduzione delle densità edilizie nelle città.
La seconda precisazione è invece relativa alla genesi del piano del centro storico di Bologna del 1969 (trattato nello stesso paragrafo del libro): il piano fu avviato da Giuseppe Campos Venuti, allora assessore all'urbanistica della Giunta presieduta dal sindaco Dozza. Campos Venuti chiamò Benevolo e Quaroni come consulenti (Quaroni lasciò dopo poco tempo), mentre Cervellati era il responsabile dell'ufficio comunale. Nel 1966 cambiò l'Amministrazione, Campos Venuti venne a insegnare a Milano e il piano fu completato da Cervellati, passato da dipendente del Comune a Assessore, secondo l'impostazione originaria che Campos Venuti e Benevolo avevano dato al piano: non un Piano Particolareggiato, cioè la soluzione formale che Giovanni Astengo aveva dato al centro storico di Assisi nel 1958, ma una parte più dettagliata del PRG, con una normativa edificio per edificio e uno stretto rapporto tra tipologia edilizia e morfologia urbana secondo le indicazioni sviluppate a suo tempo dagli studi di Muratori e Caniggia, che ancora oggi rappresentano un contributo importante alla cultura urbanistica italiana.
Vengo quindi al punto finale relativo all'assenza, o quasi, di riferimenti all'urbanistica negli ultimi due capitoli del libro di de Seta La civiltà architettonica in Italia dal 1945 a oggi. È evidente che non si tratta di un cambiamento improvviso dell'approccio "integrato" che de Seta ha sempre avuto e che ho cercato di mettere in luce nelle note precedenti, ma della presa d'atto di una palese crisi dell'urbanistica italiana, iniziata con il passaggio dalla fase di espansione a quella di trasformazione della città, quando, insieme al nuovo scenario territoriale ed economico di riferimento, una serie di circostanze giuridiche (le sentenze della Corte Costituzionale su durata dei vincoli e sulle indennità espropriative) hanno contribuito a mettere completamente fuori gioco il PRG. Da quel momento lo strumento principale previsto dalla legge urbanistica nazionale e sostanzialmente ripreso dalla legislazione regionale, non è stato più in grado di guidare efficacemente i processi di trasformazione territoriale, di indicare strategie per i nuovi scenari e neppure di garantire una normale attività di regolazione. Tutto questo a fronte dell'incapacità della cultura urbanistica italiana di capire le necessità di cambiamento e di imporre adeguate soluzioni a una politica miope e ottusa. La separazione tra architettura e urbanistica si è fatta sempre più netta con la crescente inefficacia della seconda: tutta la fase della trasformazione urbana (anni ottanta e novanta) è avvenuta all'insegna di una sostanziale deregulation con PRG obsoleti e inutili, continuamente variati (qualche eccezione, ovviamente, c'è stata), mentre la fase attuale, la metropolizzazione (questi primi due decenni del secolo), si è sviluppata senza nessun controllo e senza nessuna strategia ed è stata rallentata solo dalla crisi globale. Milano, che rappresenta la situazione migliore, brilla grazie a una capacità di gestione minimamente efficiente, ma le architetture contemporanee che testimoniano la sua crescita in Europa sono tutte figlie della deregulation e per nessuna di esse de Seta ha, giustamente, sentito la necessità di una qualche citazione.
Insomma, l'urbanistica scompare nella parte finale del testo di de Seta, perché non esiste più nella società italiana e sopravvive solo nel dibattito interno agli urbanisti, oltre che nell'insegnamento universitario sempre più inutile e obsoleto. Le stesse Amministrazioni locali hanno smesso di fare urbanistica a fronte della crisi strutturale del mercato immobiliare: perché fare piani se le case non si vendono, dato che per la stragrande maggioranza dei politici italiani (ma anche per l'opinione pubblica) i piani urbanistici servono solo a quello? La riforma, attesa dal 1963, è stata ancora una volta respinta e sostituita dal pasticcio demenziale delle leggi regionali, una sorta di "federalismo urbanistico" che non ha uguali in Europa, tutto dedicato all'invenzione nominalistica, alla proposta di nuovi (in realtà vecchi) strumenti, alla continua complicazione procedurale.
Federico Oliva
N.d.C. - Federico Oliva, già professore ordinario di Urbanistica presso la Scuola di Architettura, Urbanistica e Ingegneria delle Costruzioni del Politecnico di Milano, è stato a lungo presidente del corso di Laurea specialistica in planning della stessa Scuola. Dal 2006 al 2014 ha presieduto l'Istituto Nazionale di Urbanistica e attualmente ne dirige il periodico più importante: "Urbanistica".
È autore di piani urbanistici - tra i quali quelli territoriali e di coordinamento delle province di Pesaro e Urbino, Perugia, Forlì-Cesena e Piacenza e quelli generali comunali di Pavia, Ancona, Reggio Emilia, Roma, Piacenza, La Spezia, Ivrea, Cuneo, Lodi e Potenza -, di diversi libri - tra i quali Cinquant'anni urbanistica in Italia 1942 - 1992 (Laterza, 1993); La riforma urbanistica in Italia (Pirola - Il Sole 24 ore, 1996), Progettazione urbanistica. Materiali e riferimenti per la costruzione del piano (Maggioli, 2002); L'urbanistica di Milano (Hoepli, 2002), Città senza cultura, intervista a Giuseppe Campos Venuti (Laterza, 2010) - e di numerosi articoli e saggi.
Per Città Bene Comune ha scritto: "Roma disfatta": può darsi, ma da prima del 2008 (17 marzo 2017).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 30 MARZO 2018 |