DIECI NUMERI SUL VOTO DEL 4 MARZO 2018

Fonti:

*Itanes, Vox populi. Il voto ad alta voce del 2018, il Mulino, Bologna 2018.

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*Bordignon F., Ceccarini L., Diamanti I., Le divergenze parallele. L’Italia: dal voto devoto al voto liquido, Laterza, Bari-Roma, 2018.

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26,7% volatilità elettorale (cambiamento scelta di voto). Un dato, quello del 2018, che segue un’elezione già molto movimentata, quella del 2013, con volatilità del 36,7% (nella storia repubblicana, solo le elezioni del 1994 (39,3%) hanno segnato un tasso superiore a quelli del 2013 e del 2018).

 

5% fiducia nei partiti (valore stabile tra il 2013 e il 2018).

 

23% salienza immigrazione (cittadini che indicano il tema come primo o secondo problema da affrontare, nel 2013 erano solo il 4%).

 

72% elettori fedeli al M5S (che hanno confermato il voto del 2013).

 

57% disoccupati votanti M5S (per Itanes: 37,9% tra disoccupati o in cerca di occupazione, percentuale comunque molto più alta rispetto a quelle ottenute dagli altri partiti nello stesso segmento).

 

104 su 111 i collegi in cui la Lega ha il primato rispetto a Forza Italia sul numero totale di collegi vinti dal centro-destra (111 appunto).

 

16 su 40 i collegi vinti dal centro-sinistra nell’ex Zona Rossa (sarebbero stati 36 su 40 con i risultati del 2013).

 

10% operai votanti PD (41% quelli votanti M5S, per Itanes: 34,8%). Il 58% degli operai è favorevole al reddito di cittadinanza e il 57% alla flat tax.

 

34,1% indica la Rete come principale fonte di informazione politica (rispetto al 44,1% che indica la Tv). Nel 2013 la Rete era indicata dal 7,8%.

 

20% coloro che dichiarano di interagire con opinioni simili alle proprie sui social media (isolamento ideologico o bolla). Nelle cerchie sociali (discussioni offline) il 42% dichiara di interagire con opinioni simili alle proprie (per Itanes addirittura l’80%).

 

 

L’ULTIMO PARTITO

Uno, nessuno o una pluralità di partiti? Cosa ha rappresentato il Partito Democratico nei suoi dieci anni di storia avviata dalle primarie del 14 ottobre 2007 e forse finita con le elezioni del 4 marzo 2018? Nato dalla fusione tra, soprattutto, Democratici di sinistra e Margherita, il PD è stato un partito riuscito o un partito mancato? Con quali criteri valutare la più recente e, forse, ultima testimonianza di una razza in via di estinzione, quella dei partiti? Su questi interrogativi è costruito il volume “L’ultimo partito” dei politologi milanesi Paolo Natale e Luciano Fasano (Giappicchelli, 2017, pp. 163, euro 17), che raccoglie e mette in ordine una grande quantità di dati riguardanti il consenso elettorale (tanto nazionale quanto locale), le primarie, gli organismi centrali (assemblea, direzione, segreteria) e i gruppi parlamentari che hanno segnato la storia decennale del PD, prima del tracollo nelle recenti politiche.

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Gli autori dichiarano che si può “vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto” e concludono l’analisi con un punto di domanda “un partito mancato?”. Non si può non riconoscere come il PD abbia rappresentato la forza centrale dell’ultimo decennio della politica italiana: ha espresso i presidenti della repubblica, ben quattro presidenti del consiglio sui sei succedutisi, è stato al governo nazionale per quasi sette anni degli ultimi dieci, ha governato quasi tutte le regioni e un numero incredibilmente alto di città, ha varato riforme importanti e ne proposto altre assai ambiziose, ha continuato a rappresentare una comunità di forte mobilitazione con migliaia di iscritti e milioni di  partecipanti alle primarie.

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Nonostante tutto questo, Natale e Fasano spingono a “guardare prevalentemente ai limiti del PD, invece che ai risultati positivi che ha ottenuto, [in quanto ciò] può essere utile, quanto meno provocatoriamente, a interrogarsi in maniera più profonda sui problemi che questo partito ancora incontra” e che le ultime elezioni hanno impietosamente evidenziato. Il termine politologico chiave di questa interrogazione profonda ci pare essere “istituzionalizzazione”, quel tipico processo che porta un’organizzazione a consolidarsi, a diventare progressivamente un soggetto dotato di vita propria, un soggetto i cui scopi e valori di riferimento risultano riconoscibili tanto da rappresentare un’identità stabile e solide barriere all’uscita. Il livello di istituzionalizzazione del PD è stato scarso, si è trattato di “un partito vittima di una continua incompiutezza”. Avvicendamenti nella leadership (ben cinque segretari in dieci anni, sei con il reggente Martina), scissioni o almeno continue defezioni, cambiamenti repentini di linea politica, eccessiva litigiosità tra le varie correnti – hanno messo in evidenza come il PD non sia stato affatto un partito ma semmai una pluralità di partiti. E ciò non ha riguardato solo l’eredità delle tradizioni post-comunista e post-democristiana (anzi l’aumento del numero di nativi democratici negli organismi dirigenti è parso permettere il superamento di questa anomale origine) ma la presenza di anime diverse la cui conflittualità si è intensificata piuttosto che raffreddata con il passare degli anni. Nel PD hanno sempre convissuto, secondo la terminologia proposta da Henry Drucker, un’anima etico-egualitaria, un’anima socialdemocratico-laburista e un’anima democratico-riformista che solo a tratti hanno trovato equilibrio e coesione. Differenti poi, se non inconciliabili, sono stati gli orientamenti su questioni economico-sociali (pro-labour o pro-market) e questioni etico-valoriali (pro-life o pro-choice). Tradizioni, anime e orientamenti diversi che hanno disegnato almeno tre partiti diversi: il partito amalgama di Veltroni, leggero e parlamentarizzato, riformista e a vocazione maggioritaria; il partito old-style di Bersani, strutturato e centralizzato, socialdemocratico e a vocazione identitaria; il partito pragmatico di Renzi, incentrato sul leader e capace di utilizzare tutte le risorse disponibili (finanche l’alleanza con Verdini) per conseguire i risultati desiderati. E ad ogni cambio di segreteria sono cambiati i valori guida, l’impianto organizzativo e persino l’elettorato di riferimento.

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Gli esiti dell’incompiuto processo di istituzionalizzazione sono stati perciò, da un lato, una scarsa capacità di prendere decisioni e, dall’altro, una sostanziale disorganicità tra i suoi diversi livelli organizzativi e territoriali. Da un lato, il partito si è riprodotto come partito delle primarie, che hanno mobilitato milioni di elettori e che sono riconosciute dagli stessi iscritti come costitutive e irrinunciabili, ma che hanno finito con l’essere percepite come un fine piuttosto che un mezzo: cosa che tra l’altro ha indotto calo di partcipanti e accentuazione degli sbilanciamenti territoriali (meridionalizzazione). Dall’altro lato, si è sempre riscontrata una mancata sintonia tra i vertici centrali (party in central office) e organizzazioni periferiche (party on the ground), che ha impedito alle scelte dei segretari succedutisi di improntare tutta l’organizzazione, come nel caso della rottamazione proposta da Renzi che non ha attecchito sui territori.
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Natale e Fasano si sono fermati all’analisi di una storia, prima dell’esito elettorale del 4 marzo. Non si sono sbilanciati a indicare quelle che potevano essere linee di sviluppo, a dichiarare se il progetto aveva ancora possibilità di consolidarsi o invece poteva dirsi esaurito. Hanno però segnalato la criticità della fase attuale (“i prossimi mesi saranno probabilmente decisivi”) in cui una leadership, rafforzata dall’ultimo congresso ma isolata dagli elettori, e un’organizzazione indebolita da spinte centrifughe e quasi “senz’anima”, incapace cioè di selezionare classe dirigente riconosciuta ed elaborare cultura politica, hanno affrontato la sfida delle elezioni politiche in un contesto in cui l’aggregazione di centro-destra è stata di nuovo competitiva e i consensi del Movimento 5 Stelle sono cresciuti considerevolmente. Il risultato, in percentuale e in assoluto, è stato il più basso di sempre: il Pd ha racimolato meno del 19%, ossia poco più di sei milioni di elettori (la metà di quelli raccolti dieci anni fa da Veltroni). Insomma, le elezioni politiche del 4 marzo potrebbero aver intonato il de profundis dell’ultimo partito e con esso l’estinzione di una razza. E ciò avrebbe naturalmente delle conseguenze per la nostra democrazia rappresentativa.

VOTARE È ANCORA UTILE?

In un recente volume, David Van Reybrouck sostiene che “votare non è più democratico”. Ossia che il vero problema delle democrazie rappresentative attuali è il “fondamentalismo elettorale”, la centralità asserita ma non più funzionante della partecipazione politica tramite il suffragio elettorale.

La crescita dell’astensionismo in alcuni paesi democratici (tra cui l’Italia), le contaminazioni mediatiche delle campagne elettorali (postdemocratiche), la maggiore disponibilità di forme alternative di partecipazione legate ai nuovi media, paiono tutti elementi che rafforzano la provocatoria tesi di Van Reybrouck.

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Rispetto a questo quadro di analisi, alcuni fatti accaduti negli ultimi giorni sono pertinenti e interessanti. La vittoria nelle elezioni parlamentari dell’opposizione in Venezuela, un paese considerato autoritario dopo l’ascesa al potere di Chavez. Una vittoria che ha permesso un cambio di fase (di regime?) abbastanza pacifico. Il diritto di elettorato attivo e passivo delle donne nella monarchica Arabia Saudita (il suffragio universale non è ancora un diritto ovunque, sebbene lo sia dia ormai per scontato). L’aumento della partecipazione elettorale tra primo e secondo turno nelle elezioni regionali in Francia, che ha impedito al Front national di conquistare un qualche governo locale. Insomma, trattasi di fatti che paiono ribadire che votare serve ancora e che il diritto al voto non è un’anticaglia del passato: a volte, anzi, trattasi di qualcosa che va ancora conquistato.

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Fatti che smentiscono la tesi di Van Reybrouck e relativizzano quegli elementi che la rafforzano? Forse non si tratta di questo. E bisogna davvero riconoscere che la democrazia rappresentativa basata sulle elezioni presenta al momento dei problemi di tenuta. Riconosciuto questo, però, non bisognerebbe semplificare il quadro di analisi e limitarsi a dichiarare una sorta di “morte del voto”. Semmai arricchirlo e considerare la complessità delle vicende che stanno trasformando le nostre democrazie.

twitter @antonio_tursi