Aldo Bonomi  
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QUALI POLITICHE PER LA CITTÀ DI OGGI?


Commento al libro di Cristina Tajani



Aldo Bonomi


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Quello di Cristina Tajani – Città prossime. Dal quartiere al mondo: Milano e le metropoli globali (Guerini 2021) – è un libro utile. Lo è soprattutto per me perché da tempo vado cercando libri, pensieri, esperienze che possano aiutarmi nel cambio della cassetta degli attrezzi necessari all’interpretazione delle città e della società: cosa ancor più necessaria dopo la pandemia. Prima, nel mio lavoro di sociologo era abbastanza facile. Banalizzando, il percorso seguito era: “dimmi che lavoro fai e ti dirò chi sei”. Anzi, a ben guardare, “ti dirò anche dove abiti, come viene avanti la città infinita” e persino “ti dirò che cosa voti”. Questa cassetta degli attrezzi, però, da tempo non funziona più.

Un mio maestro, che aveva intuito e praticato la questione del “sistema mondo”, Giovanni Arrighi – e che quindi aveva capito prima di altri quella dimensione che nel primo capitolo del libro, anche dal punto di vista della letteratura, è ricostruita perfettamente, cioè l'importanza crescente delle città dentro la globalizzazione – mi suggerì di pormi almeno altre tre domande. Questo perché, appunto, l’asserzione “dimmi che lavoro fai e ti dirò chi sei” era ormai logora. Oggi, come fa l’autrice, è prima di tutto necessario chiedere “di che genere sei?”; ma anche “di che etnia sei, da dove vieni?” (la seconda domanda); e infine (la terza) “qual è la tua Weltanschauung?”, ovvero qual è la tua concezione del mondo.

Il libro di Cristina Tajani offre alcune risposte interessanti a questi interrogativi ineludibili nel salto d’epoca che stiamo vivendo e si spinge anche oltre. Essendo stato scritto durante la pandemia, introduce altri due concetti su cui anch’io ho lavorato e che trovo utili per interpretare la realtà odierna. Il primo è che la pandemia, che è un flusso, ha colpito nel pieno della moltitudine e della logistica: ma – vien da chiedersi – che cos’è la città se non questo? Non è forse una rappresentazione della moltitudine delle classi frammentate e della logistica, del capitalismo delle reti o anche delle città dei grandi eventi e della loro capacità attrattiva? Su questo fronte la pandemia ha fatto emergere un vuoto. Un vuoto che non è solo spaziale ma riguarda molte altre dimensioni della società che l’autrice ha avuto il coraggio di affrontare. In particolare, ha cominciato a dire che dobbiamo riacquisire uno sguardo orizzontale, partendo da Milano e dal suo territorio, che comprenda e coinvolga i piccoli comuni, le città distretto, le città medie e il divenire delle aree metropolitane, quelle che Alessandro Balducci chiama post-metropoli. Ha capito e proposto questo, uscendo da quel delirio di verticalizzazione spinta che negli ultimi anni aveva prodotto una retorica, un racconto del capoluogo lombardo che era peggiore di quello della “Milano da bere”. Smascherare una narrazione che non funzionava più: questo è il secondo merito del libro di Cristina Tajani. Un aspetto che pone alcune grandi questioni di lunga lena, perché a mio giudizio il libro sta dentro un grande interrogativo: quello delle derive della civilizzazione perché pone, in questo particolare frangente, la questione del ridisegnare il rapporto tra città e territorio o, se si vuole dirla in termini contemporanei, tra la smart city e la smart land; tra la Brianza e il Salone del Mobile, per intenderci.

Milano è sempre stata una città che attrae e che ridà. Non è mai stata una città fordista classica, pur avendo avuto l’Alfa Romeo, la Falck e altre industrie. Piuttosto è stata una città fondata su un intreccio di relazioni economiche, una città di commerci, di reti corte e reti lunghe variamente intrecciate. Il libro coglie tale carattere di lungo periodo e in questo trovo anche un inizio di riflessione utile a offrire delle risposte sull’ultima delle domande che ci siamo posti: “dimmi qual è la tua Weltanschauung”. Perché Tajani scava in quella condizione in cui molti oggi si trovano: quella di essere innovatori per disperazione, cioè costretti ad innovare per campare nell’ambito del commercio, del terziario, delle molteplici forme dei nuovi lavori, compresi quelli dell’affitto delle stanze, delle case o dei nuovi modi di coabitare, convivere, più per disperazione che per libera scelta.

Ma non solo. L’autrice sottolinea la necessità di tenere insieme e guardare con attenzione a questi innovatori. Perché è da questi che viene la speranza di un nuovo ceto medio dentro la terziarizzazione della città. La prospettiva un nuovo ceto medio ovviamente non è più quella fordista – “dimmi che lavoro fai e ti dirò chi sei” – perché oggi le professioni del Novecento non ‘pesano’ più mentre hanno acquisito spazio e importanza una varietà di situazioni e condizioni lavorative (che decliniamo in inglese: start up, coworking, faberlab, digital innovation, ecc.) con cui appare imprescindibile misurarsi.

Tajani prova a disvelare e interpretare questa situazione perché il rapporto tra innovatori per disperazione e innovatori per inclusione, per processo vero, è un problema concreto e di conflitto in questa come in altre città. Nelle città come Milano c’è un’incredibile quantità di soggetti che opera in solitudine interpretando l’innovazione: alcuni con successo, altri arrancando, altri ancora senza farcela. Le innovazioni sociali, dunque, vanno comprese e guidate tant’è che – come afferma l’autrice – “particolarmente interessanti per gli scopi di questo volume sono i casi in cui l’innovazione sociale è realizzata per mezzo di politiche pubbliche”. Ed era ora che il pubblico – e in questo caso si può ben dire perché Cristina Tajani è stata assessora del Comune di Milano con deleghe allo sviluppo economico, attività produttive, commercio e risorse umane, design e moda dal 2011 fino alle ultime elezioni – si occupasse seriamente degli innovatori per disperazione e degli innovatori per necessità, smettendola con questa retorica per cui basta fare un po’ di start up e il mercato ti include. Questo non è mai stato vero. La realtà è un’altra, è più dura e complessa e va guidata con corrette politiche pubbliche.

L’autrice, poi, si è ‘messa in mezzo’ – chiedo venia per l’espressione così diretta ma mi pare quella più adatta per farmi capire – anche ad un’altra cosa importante: quella della crisi della rappresentanza. Costretta dal suo ruolo pubblico in questo tipo di condizione/processo che la città sta attraversando, ha dovuto e voluto comprendere a che punto sono Confcommercio, la CNA (Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa), Confartigianato. Ovvero, a che punto sono oggi le rappresentanze di un tempo, quali sono i residui del fordismo che – magari ponendosi quelle domande che Giovanni Arrighi mi suggeriva – è ancora possibile immettere nel ciclo della vita urbana.

Anche su questo aspetto il libro è interessante. Perché sta dentro la crisi delle rappresentanze e c’è voluto coraggio da parte dell’autrice perché solitamente a sinistra non si guarda molto a ciò. Invece bisogna scavare dentro queste cose perché quelle nuove forme di lavoro – il lavoro di quella moltitudine di persone che ha successo, arranca o non ce la fa con i lavori che giocoforza si è inventata – rimandano a un nuovo tipo di manifattura urbana. Che non è quella delle fabbriche e delle officine dentro i quartieri, ma un’altra cosa che ha risvolti differenti. L’aveva intuito un eretico come Romano Alquati, quando, partendo dall’analisi della Fiat, il massimo del fordismo in Italia, aveva detto: “guardiamo oltre le mura dell’impresa perché l’industrializzazione si sta mangiando la città”. Il problema dei servizi, quindi anche quello dei nuovi tipi di manifattura, va colto anche in questa prospettiva. Non si tratta cioè solo di riportare le botteghe artigiane in centro come da alcune parti viene semplicisticamente proposto. Si tratta semmai di capire che quello che sta venendo avanti è un processo con attori, pratiche ed esiti differenti che sta cambiando profondamente la città.

Nella parte propositiva, avendo indagato questi territori da assessora militante – solo chi fa l’assessora militante (ovvero, che ascolta, riflette, capisce, fa, ecc. ) ti può restituire questo – Tajani arriva alla conclusione che il problema è anche quello della prossimità e quello della simultaneità, condizioni che - per inciso - nel Pnrr sono in contraddizione perché nel promuovere il digitale e allo stesso tempo interventi volti alla soluzione della crisi ecologica questo strumento tralascia completamente la coesione sociale. In ogni caso, se questo è il tema, a giudizio di chi scrive nella città contemporanea è necessario ricostruire, prima ancora che le forme dell’abitare e quelle del del lavoro, quella che io chiamo la comunità larga. Perché se in qualche modo abbiamo superato la vicenda del Covid è proprio per quella dimensione relazionale che ha visto farsi avanti i lavoratori dell’ultimo miglio, quelli in bicicletta, in motorino, sui camioncini. Ma non solo. Per il welfare o la medicina, visto la grande assenza di quella territoriale, abbiamo potuto contare per esempio sulle reti della Caritas che sapeva dov’erano i problemi ed i bisogni. Abbiamo inoltre scoperto gli “angeli del digitale” perché c’erano quelli che insegnavano agli anziani a utilizzare i telefoni per mantenere i rapporti sociali e familiari, anche quelli tra nonni e bambini. La discontinuità con il passato che si è verficata durante la pandemia è stata anche questa ed è da qui che possiamo ripartire.

In altre parole, ciò che il Covid ci ha insegnato è che non basta la comunità di cura come l’abbiamo intesa sin qui. Fortunatamente, c’è n’è stata un’altra che, in forme spontanee ed estemporanee e attraverso il coinvolgimento di quelle professioni di cui dicevamo prima, ha preso corpo. Il problema, dunque, è che bisogna costruirne una stabile e allargata – di cui certamente fanno parte medici, infermieri, la medicina di territorio, ecc. – ma in cui dovrebbero entrare a pieno titolo le nuove professioni, il sindacato, la Confcommercio, la CNA, e così via. Bisogna cioè costruire la comunità di cura larga perché se non si imbocca questa strada, la cosiddetta città “dei 15 minuti” – che come altri Tajani auspica – non regge. Dunque, accanto ai negozi di prossimità, ai servizi etc., dovrebbe essere pazientemente ricostruito il tessuto sociale e relazionale, quartiere per quartiere, innovando e coinvolgendo in forme diverse quanti finora sono stati esclusi.

Anche questo, tuttavia, non basta. La comunità di cura larga dovrebbe infatti interrogare la comunità operosa, ovvero dovrebbe chiedersi quale modello di sviluppo persegue perché non c’è dubbio che ci sia un problema anche su questo fronte. Le domande a cui come intellettuali, amministratori pubblici o come società civile dovremmo rispondere, sono: comunità di cura larga e quale sviluppo? Quale modello? Quali forme del produrre?

È un dibattito apertissimo, non c’è dubbio. Io penso alla comunità di cura larga dove Tajani pensa al lavoro ibrido. In questo c’è un’intuizione importante. Ma anche su questo fronte le differenze e le disparità sociali sono evidenti. C’è chi ha l’opportunità – noi compresi – di lavorare facendo una volta alla settimana riunioni in presenza e ci sono quelli che dal telelavoro a domicilio non si staccano mai. Giustamente l’autrice sostiene la necessità di ridisegnare i coworking in modo che siano un luogo in cui si intreccia l’innovazione delle forme di lavoro con la prossimità. Questo anche attraverso il recupero degli edifici pubblici dismessi a questo scopo al fine di evitare che nella società contemporanea si ricrei quel fenomeno otto-novecentesco del lavoro a domicilio, sommerso, sottopagato, prossimo allo sfruttamento per la mancanza di diritti e garanzie, oltre che desocializzante.

Per concludere, Cristina Tajani ha accumulato un patrimonio di conoscenza, di esperienza e anche un capitale reputazionale non partendo dalla politica in giù, ma esattamente all’opposto, direttamente sul campo. Non a caso mi sono permesso di definirla assessora militante. Il mio auspicio è che questo patrimonio, utile per provare a comprendere la società e i suoi cambiamenti, sia il più possibile messo a frutto perché c’è bisogno di una cultura politica rinnovata e adeguata a questi tempi.

Aldo Bonomi

 

 

 

N.d.C. - Sociologo, dal 1986 Aldo Bonomi dirige il consorzio AASTER di cui è fondatore. Insegna Società, territorio e globalizzazione allo IULM nell’ambito del progetto “Ateneo per la città”. Scrive su diverse testate nazionali (“Vita”, “il manifesto”, “Corriere della Sera” e “Il Sole 24 Ore”, dove cura la rubrica microcosmi). È responsabile della collana “Comunità concrete” per la casa editrice DeriveApprodi e ha fondato e diretto il periodico “Communitas”.

Mantenendo al centro del suo interesse le dinamiche sociali, antropologiche ed economiche dello sviluppo territoriale e delle trasformazioni del mondo delle associazioni di rappresentanza degli interessi imprenditoriali, del lavoro e delle professioni, negli anni Novanta ha promosso, con Carlo Borgomeo, le “Missioni di sviluppo” nell’ambito della Legge 44 per l’imprenditorialità giovanile e i “Patti territoriali per lo sviluppo” nell’ambito dell’esperienza al CNEL, presieduta da Giuseppe De Rita (1989-2000).

Appassionato dalle trasformazioni della composizione sociale nei contesti urbani ed extraurbani, con particolare riferimento al mutamento del rapporto tra smart city e smart land, ai processi migratori, ai fenomeni di vulnerabilità e marginalità sociale, alle forme di convivenza nelle comunità locali e nei quartieri metropolitani, ha ideato e curato mostre alla Triennale di Milano dedicate alle trasformazioni dell’abitare, del convivere e del produrre nei territori investiti dalla modernità, nonché sulle nuove fragilità urbane.

Tra i suoi libri: con Pierfrancesco Majorino, Nel labirinto delle paure (Bollati Boringhieri, 2018); con Francesco Pugliese, Tessiture sociali (Egea Bocconi, 2018); con Federico Della Puppa e Roberto Masiero, La società circolare (DeriveApprodi, 2016); con marco Revelli e Alberto Magnaghi, Il vento di Adriano (DeriveApprodi, 2015); con Roberto Masiero, Dalla smart city alla smart land (Marsilio, 2014); con Giuseppe De Rita, Dialogo sull’Italia (Vita-Feltrinelli, 2014); Il capitalismo in-finito (Einaudi, 2013); Territorio e politica (Einaudi, 2013); Milano. Le tre città che stanno in una (Bruno Mondadori, 2012); La Malaombra (Codice Edizioni, 2011); con Eugenio Borgna, Elogio della depressione (Einaudi 2011); La città che sente e pensa (La Triennale-Electa, 2010); Sotto la pelle dello Stato (Feltrinelli, 2010); Milano ai tempi delle moltitudini (Bruno Mondadori, 2008); Il rancore (Feltrinelli, 2008); con Enzo Rullani, Il capitalismo personale (Einaudi, 2005); Il passaparola dell’invisibile (Laterza, 2005); con Giuseppe De Rita e Massimo Cacciari, Che fine ha fatto la borghesia (Einaudi, 2004); Per un credito globale e locale (Baldini Castoldi & Dalai, 2003); La comunità maledetta (Edizioni di Comunità, 2002); con Enrico Borghi, La montagna disincantata (CDA Vivalda, 2002); Il distretto del piacere (Bollati Boringhieri, 2000); con Giuseppe De Rita, Manifesto per lo sviluppo locale (Bollati Boringhieri, 1998); Il capitalismo molecolare (Einaudi, 1997); Il trionfo della moltitudine (Bollati Boringhieri, 1996).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri

R.R.

 

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

22 OTTOBRE 2021

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti
Filippo Maria Giordano
Federica Pieri

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
2021: programma/1,2,3,4
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021:

L. Marescotti, L'Urbanistica innanzitutto, commento a: C. Sambricio, P. Ramos (a cura di), El urbanismo de la transición (Ayuntamiento de Madrid, 2019)

M. Ruzzenenti, Il territorio dopo il Covid (e prima del PNRR), commento a: A. Marson, A. Tarpino (a cura di), Abitare il territorio al tempo del Covid, “Scienze del territorio”, numero speciale 2020

R. Pavia, Le città di fronte alle sfide ambientali, commento a: Livio Sacchi, Il futuro delle città (La nave di Teseo, 2019)

C.Salone, Oltre i distretti, dentro l'urbano, commento a: C. Mattioli, Mutamenti nei distretti (FrancoAngeli, 2020)

O. Marzocca, L'ambiente dell'uomo e l'indifferenza di Gaia, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

G. Consonni, Il passato come risorsa del progetto, commento a: A. Lanzani, Cultura e progetto del territorio e della città (FrancoAngeli 2020)

F. Indovina, Urbanistica? Bologna docet, commento a: R. Scannavini, Al centro di Bologna, 1965-2015 (Costa Editore, 2020)

S. Brenna, È questa l’urbanistica che vogliamo?, Commento a: P. Berdini, Lo stadio degli inganni (DeriveApprodi, 2020)

S. Moroni, Oltre la retorica dell’attivismo civico, commento a: C. Pacchi, Iniziative dal basso e trasformazioni urbane (Bruno Mondadori, 2020)

P. Pardi, Dal territorio una nuova democrazia, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

L. Carbonara, Riappropriarsi delle origini (di Mogadiscio), commento al catalogo della mostra curata da K. M. Abdulkadir, G. Restaino, M. Spina

C. Diamantini, La città nella tela del ragno, commento a: R. Keeton, M. Provost, To Built a City in Africa (nai010 publishers, 2019)

C. Petrognani e A. P. Oro, Paesaggi della pluralità, commento a: E. Trusiani et al. (a cura di), Paisagem cultural do Rio Grande do Sul, supplemento al n. 24/2021 di “Visioni LatinoAmericane”

E. Scandurra, Roma, e se non capitasse niente?, Commento a: W. Tocci, Roma come se (Donzelli, 2020)

G. Demuro, Custodire la bellezza insieme, commento a: G. Arena, I custodi della bellezza (Touring Club Italiano, 2020)

A. Casaglia, L'invenzione (e l'illusione) dei confini, commento a: L. Gaeta e A. Buoli (a cura di), Transdisciplinary Views on Boundaries (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2020)

R. Pugliese, Comporre nuove urbanità, commento a: A. De Rossi (a cura di), Riabitare l'Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste (Donzelli, 2018)

L. Bonesio, Dall'uso-consumo all'uso-cura del mondo, commento a: O. Marzocca, Il mondo comune (Manifestolibri, 2019)

G. Amendola, La città è fatta di domande, commento a: A. Mazzette e S. Mugnano (a cura di), Il ruolo della cultura nel governo del territorio (FrancoAngeli 2020)

C. Bianchetti, Incoraggiare rotture e nuovi germogli, commento a: Camillo Boano, Progetto Minore (LetteraVentidue, 2020)

M. Balbo, La città pensante, commento a: A. Amin, N. Thrift, Vedere come una città (Mimesis, 2020)

G. Pasqui, La ricerca è l'uso che se ne fa, commento a: P. L. Crosta, C. Bianchetti, Conversazioni sulla ricerca (Donzelli)

R.R., L'Urbanistica italiana si racconta, introduzione al video: E. Bertani (a cura di), Autoritratto di Alberto Magnaghi (Casa della Cultura 2020)

S.Saccomani, La casa: vecchie questioni, nuove domande, commento a: M. Filandri, M. Olagnero, G. Semi, Casa dolce casa? (il Mulino, 2020)

G. Semi, Coraggio e follia per il dopo covid, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei Sociologi e delle Sociologhe dell’Ambiente e del Territorio sulle Città e le Aree Naturali del dopo Covid-19, (Ledizioni, 2020)

R. Riboldazzi, Per una critica urbanistica, introduzione a: Città Bene Comune 2019 (Ed. Casa della Cultura, 2020)

M. Venturi Ferriolo, Contemplare l'antico per scorgere il futuro, commento a: R. Milani, Albe di un nuovo sentire (il Mulino, 2020)

S. Tagliagambe, L'urbanistica come questione del sapere, commento a: C. Sini, G. Pasqui, Perché gli alberi non rispondono (Jaca Book, 2020)

G. Consonni, La coscienza di luogo necessaria per abitare, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

E. Scandurra, Nel passato c'è il futuro di borghi e comunità, commento a: G. Attili – Civita. Senza aggettivi e senza altre specificazioni (Quodlibet, 2020)

R. Pavia, Roma, Flaminio: ripensare i progetti strategici, commento a: P. O. Ostili (a cura di), Flaminio Distretto Culturale di Roma (Quodlibet, 2020)

C. Olmo, La diversità come statuto di una società, commento a: G. Scavuzzo, Il parco della guarigione infinita (LetteraVentidue, 2020)

F. Indovina, Post-pandemia? Il futuro è ancora nelle città, commento a: G. Amendola (a cura di), L’immaginario e le epidemie (Mario Adda Ed., 2020)

G. Dematteis, Il territorio tra coscienza di luogo e di classe, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

M. Ruzzenenti, Una nuova cultura per il bene comune, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei sociologi e delle sociologhe dell’ambiente e del territorio sulle città e le aree naturali del dopo Covid-19 (Ledizioni, 2020)

F. Forte, Una legge per la (ri)costruzione dell'Italia, commento a: M. Zoppi, C. Carbone, La lunga vita della legge urbanistica del '42 (didapress, 2018)

F. Erbani, Casa e urbanità, elementi del diritto alla città, commento a: G. Consonni, Carta dell’habitat (La Vita Felice, 2019)

P. Pileri, Il consumo critico salva territori e paesaggi, commento a, A. di Gennaro, Ultime notizie dalla terra (Ediesse, 2018)