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L’undicesima edizione di Città Bene Comune prosegue mercoledì 15 maggio, alle 18, con Elena Granata - professoressa di Urbanistica al Politecnico di Milano e vicepresidente della Scuola di Economia Civile - che sarà alla Casa della Cultura di Milano (via Borgogna 3 – MM San Babila) per discutere del suo Il senso delle donne per la città. Curiosità, ingegno, apertura, edito da Einaudi nel 2023. Ne parleranno con lei Antonio Longo - coordinatore del corso di laurea magistrale in Landscape Architecture | Land Landscape Heritage al Politecnico di Milano -, Antonella Ortelli - artista e copresidente della Casa delle Donne di Milano - e Sonia Stefanizzi - direttrice del Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Milano Bicocca - coordinati da Renzo Riboldazzi.
Il convegno sulla città, il territorio, l’ambiente, il paesaggio e le relative culture interpretative e progettuali è coprodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano e si svolge con il patrocinio dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU), della Società Italiana degli Urbanisti (SIU), di Accademia Urbana (AU) e della Società dei Territorialisti/e (SdT).
Le ragioni di un confronto
L’ultimo libro di Elena Granata, Il senso delle donne per la città. Curiosità, ingegno, apertura (Einaudi, 2023) è molte cose. Qui, come preannuncia il titolo, ci sono in primo luogo le donne, in particolare quelle che in forme diverse hanno provato, faticosamente, a occuparsi di città. “Architette, pedagogiste, filosofe, giornaliste, scrittrici, designer, docenti universitarie, o più di una di queste cose contemporaneamente” (p. X) che secondo l’autrice avrebbero un altro tratto in comune: sarebbero “capaci di un pensiero alternativo e inedito sulla città e negli spazi” (p. X). Un pensiero che - sostiene - di fatto è ancor oggi poco evidente nella società civile al punto che - a suo dire - è possibile considerarlo come “una parte silente della storia che non appare mai e che non ha lasciato traccia” (p. 168) nella cultura del progetto urbano e territoriale. Nell’ambito della pianificazione le rivoluzioni culturali degli anni Sessanta e Settanta che hanno restituito alle donne, e all’intera società, molto di quanto era loro dovuto sembrano distanti, incredibilmente mute. In generale - si interroga l’autrice - “per quale motivo l’economia [e la pianificazione] si [sono] dimenticat[e] del ruolo fondamentale di milioni di donne attive nel lavoro, nella vita privata, ed elemento determinate per la crescita economica” delle città? (p. 49). Perché - sottolinea - esse quotidianamente continuano a lavorare in questi campi “sulla piccola scala, come non potessero ambire a un pensiero utopico e rivoluzionario”? (p. 4).
La risposta è quella che tutti ci aspettiamo e non vorremmo più sentire. Quella che, a parte i drammatici femminicidi e i casi di discriminazione di cui leggiamo quotidianamente sui giornali, credevamo di aver lasciato sostanzialmente alle nostre spalle. Con questa dobbiamo invece continuare a fare i conti. Di fronte a loro, nel mondo dell’urbanistica, le donne hanno l’incombente universo maschile che, sostanzialmente, ha dettato e continua a dettare le regole per tutti. Mantiene saldo il suo ruolo guida nelle trasformazioni urbane e territoriali. Occupa l’universo dei riferimenti culturali a cui abitualmente guardiamo quando studiamo i fenomeni urbani. Il Modulor di Le Corbusier - per fare un esempio tra i più eclatanti che l’autrice riporta - è la testimonianza che la città è fatta a misura di maschio bianco e anche “oggi che molto è cambiato [rispetto alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso], quella struttura [architettonico]-sociologica somiglia più a una camicia di forza che a un campo di gioco comune” (p. 52). Ma - si chiede Granata - che cosa accadrebbe “nel campo del progetto pubblico quando alla pianificazione come controllo si sostituis[se] una pianificazione dell’ascolto, del coinvolgimento degli abitanti, di una razionalità incrementale che procede per luoghi e progetti?” (p. 99). Che cosa succederebbe - banalizzando e immaginando una realtà un po’ più povera di quello che in realtà a nostro giudizio è - se ad un progetto che banalmente riconosciamo come maschile si sostituisse un approccio tipicamente femminile?
Difficile rispondere, anche per l’autrice che pure è portatrice di un’idea chiara. Da un lato - sostiene - “se le donne potessero comandare, le città sarebbero automaticamente più umane” (p. 104). Dall’altro - riconosce lei stessa - molte donne “quando arrivano a rivestire posizioni di governo e di strategia […] si comportano in modo molto simile agli uomini, dovendosi adeguare a un ruolo predeterminato, che vince sul loro genere” (p. 105). Lo sforzo che Elena Granata compie con questo libro, tuttavia, è quello di “ridare nome e giusto onore alle donne [più o meno] importanti che - scrive - abbiamo dimenticato lungo le strade della storia” (p. 6). Prova a far emergere il capitale femminile ovvero “rivelare quella dimensione orizzontale, invisibile e relazionale, che fa si che una società funzioni, si organizzi, mantenga un equilibrio anche nei periodi di crisi” (p. 8). Secondo Granata non c’è dubbio. Anche “l’architettura richiede una combinazione unica di pragmatismo e di emozione, di problem solving e di capacità immaginativa, di attitudine alla sintesi degli opposti e alla quadrature del cerchio” (p. 15) che il pensiero femminile ha sempre dato, in forma sommersa (forse troppo sommersa), alla società. “Molte delle qualità che vengono richieste a un leader - aggiunge - sono state storicamente considerate attitudini femminili, come quella di risolvere i conflitti con il dialogo e non con l’ideologia, la pazienza, l’empatia, la capacità di mediazione e di ascolto per cambiare il punto di vista sulle cose” (p. 100). E da queste - suggerisce - dovremmo ripartire per guardare al futuro.
Così, Granata scrive di figure note (pochissime) e assai meno note. Narra di storie personali o di contributi scientifici riconosciuti o negati. Apre il nostro sguardo a un universo perlopiù sconosciuto. Ci parla di Harriet Harriss, preside della Pratt Institute School di Architecture di New York fino al 2022; di Denise Scott Brown, moglie di Robert Venturi con cui ha scritto Imparare da Las Vegas; di Selena Savić e dei suoi studi sul “design del fastidio”; di Cosima Buccoliero e della sua percezione degli spazi della carcerazione; narra la storia di Sharon Egretta Sutton, architetta e pedagogista; di Leslie Kern, saggista e professoressa associata di geografia e ambiente in Canada e della sua esperienza della maternità; ritorna sui ritratti della donna contemporanea di Lidia Ravera; rievoca il ruolo di Eva Kail “ingegnera, visionaria protagonista della cosiddetta urbanistica femminista viennese” (p. 64); scrive di Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro e della loro associazione di promozione sociale; di Anne Hidalgo e della sua celeberrima idea di riorganizzazione di Parigi in termini di prossimità; di Sarah Gainsforth e della trasformazione della città in merce determinata dalle piattaforme digitali; di Bianca Wylie che a Toronto lavora per il progetto di quartiere intelligente; di Lucile Peytavin, storica dell’economia, e dei suoi studi sui costi economici della virilità governativa; di Tania Sengupta della Bartlett School of Architetcure di Londra e della sua riflessione sugli spazi della casa; di Margarete Schütte-Lihotzky e della indimenticabile e modernissima cucina di Francoforte; di Joëlle Zask e dei luoghi dell’apprendimento infantile; di Leslie Kern e del suo raccontare la città a partire dalla sua esperienza personale; di Irene Ranaldi e dei suoi studi sulla gentrificazione; di Lucia Tozzi e degli intrecci tra città e comunicazione e - sappiamo meglio oggi - corruzione; di Ursula Le Guin e dei suoi studi sulla lingua madre; dell’architetta Christine Murray e della difficoltà di accesso ai mezzi pubblici; di Hélène Cixous e del suo desiderio di scrivere prima di tutto da madre; di Barbara Pizzo e della “pluralità dei profili femminili che si sono dedicati al campo della pianificazione” (p. 130); di Jane Jacobs e della sua straordinaria esperienza newyorkese che, almeno in termini culturali, ebbe una risonanza mondiale; di Toni Griffin, docente ad Harvard, e della sua ricerca di interazione con l’immaginazione collettiva; di Lina Bo Bardi “esperta di cultura della vita, architetta sociale” (p. 141); di Sasha Costanza-Chock e della sua idea di progettista come facilitatore (p. 146); di Majona Carter e del suo ritorno attivo sui luoghi del passato; e infine - ma non siamo certi di averle citate tutte - delle sindache di molte città del mondo che “hanno in comune il fatto di essere ‘nuove’ nell’impegno politico, condividono - osserva Granata - una grande sensibilità per la vita quotidiana delle persone, per la sicurezza e i diritti delle fasce più svantaggiate della popolazione, coltivata nel corso di impegni ed esperienze precedenti” (p. 135).
Su tutte queste esperienze Granata riflette. E ne trae una lezione, in molti campi della professione di architetto-urbanista e docente universitario così come, più in generale, nella vita.
Quello di Granata è in primo luogo un libro di urbanistica. Al di là delle rivendicazioni sulla contrapposizione femminile/maschile ripetutamente, e giustamente, sventolate dall’autrice potrebbe cioè essere letto anche, o solo, per il contributo che esso dà a un’idea di città. Da qui, infatti, emerge un approccio al progetto urbano che in parte potrebbe essere legato a quel mondo nascosto che l’autrice intende far emergere. In parte, forse quella più rilevante, a un’idea di città che ha una sua lunga tradizione di studi e che trova oggi, anche solo per ragioni di buonsenso (economico ed ecologico), qualche riscontro nel nostro modo di pensare e, più in generale, nella società civile. Secondo Granata è giunto il momento di “distogliere lo sguardo dai grandi progetti di trasformazione urbana (oggi tanto amati dagli architetti e dai politici locali), per poter tornare ad ascoltare la voce delle comunità insediate, la dimensione dei luoghi dove le persone vivono, interagiscono, lavorano, creano legami” (p. 147). L’autrice sembra ambire, in sostanza, a un’urbanistica “partecipata” dove gli architetti assumono il ruolo di facilitatori più che quello di progettisti distaccati dalle realtà. Dove i meccanismi della rendita immobiliare restano sullo sfondo invece che in primo piano nelle scelte trasformative. L’accoglienza dei luoghi è una delle sue parole chiave. Ritiene che “le donne che riflettono sulla città oggi dedic[hi]no un amplissimo spazio al tema dello spazio pubblico” (p. 116). La sua idea è che “lo spazio fa[ccia] il cittadino, come l’abito fa il monaco” (p. 107) perché - come la storia della città europea insegna - “le piazze erano [e restano] per la vita pubblica ciò che l’atrio era per la vita privata: un salotto a cielo aperto” (p. 152). Ed è da qui che - come diversi altri autori in questi anni - pensa si debba ripartire. “Prossimità e abitabilità degli spazi pubblici - scrive - sono tornati nel dibattitto circa il futuro della città, rimettendo al centro le strade, le piazze, la qualità minuta dei marciapiedi, la presenza di sedute che consentano alle persone non solo di camminare ma anche di riposare, i parchi e i giardini, gli spazi per i bambini e per gli animali, le piste ciclabili, le isole pedonali, le vie pedonali. È dalla qualità dello spazio intermedio - sostiene - che dipende il benessere e la salute delle persone” (p. 170).
L’urbanistica nel libro di Granata entra poi in molti altri campi del progetto. In generale, il suo obiettivo è quello di “creare o modificare norme, regole e regolamenti [ma anche approcci progettuali] a beneficio di uomini e donne allo stesso modo, per un accesso equo alle risorse cittadine” (p. 66). Nello specifico, le sue proposte si inquadrano nell’ambito di una ragionevolezza condivisa da più parti che, tuttavia, per molte ragioni, non ha ancora trovato il modo di realizzarsi davvero. Scrive, per esempio, del “diritto alla mobilità e di accessibilità come condizione di cittadinanza” (p. 62). Sottolinea, in particolare, la necessità di “lavorare sul senso, sui tempi di vita, sull’organizzazione di una mobilità più efficiente ma anche più sostenibile, sull’integrazione delle attività umane con quelle della natura, sull’agricoltura” (p. 17). Osserva, in fatto di servizi pubblici, che “accessibilità, presenza di mezzi pubblici, prossimità con altri servizi complementari sembrano non essere più temi sul tavolo della discussione” (p. 134). Ambisce a “luoghi pubblici [che] consentono di dispiegare una democrazia più partecipativa” (p. 154). Sostiene la necessità di andare nella direzione della giustizia urbana, “un’espressione - scrive - che nasce dalla consapevolezza che le città sono il luogo privilegiato in cui osservare bisogni, richieste, nuove espressioni di giustizia legate al nostro vivere collettivo nei centri abitati” (p. 145). Suggerisce, infine, di contrastare una “pianificazione territoriale […] cieca a quello che si potrebbe chiamare il ‘sentimento della bellezza’” (p. 156). Cose che i cittadini in molti casi potrebbero conquistare direttamente, come in effetti talvolta accade. Con un’attività plurale e distribuita nel tempo e nello spazio. Consapevole del fatto che abitare la città richiede anche partecipazione diretta. “La conquista di alcuni spazi pubblici degradati della città, la cura di un giardino abbandonato, l’apertura di locali un tempo chiusi al commercio e all’attività di vicinato - scrive Granata - sono tutte modalità minute di intervento con cui questi abitanti urbani dimostrano di poter ‘politicizzare’ lo spazio, proprio a partire dalle loro pratiche d’uso” (p. 145).
Il volume di Granata parla poi di cura, salute, benessere, anche in senso ecologico, che - afferma - “è da sempre il campo di gioco delle donne” (p. 19). “Oggi - sostiene - ci misuriamo con una profonda domanda di ricomposizione di corpo e mente, ma anche di salute del pianeta, salute delle persone e salute degli animali” (p. 36). Una domanda che, nonostante la retorica, aspetta ancora molte risposte. Secondo Granata “l’ecologia non è solo il contenuto del nostro lavoro [di architetti e docenti]: è il modo in cui guardiamo al mondo, è il metodo, e la forma stessa del nostro pensiero” (p. 156). L’ecologia - scrive - pretende “un sentimento profondo di empatia e compassione per il nostro mondo e il nostro tempo, per il destino del pianeta e la felicità dei nostri figli” (p. 157). È qualcosa che riguarda il presente e soprattutto il futuro. Tutti noi, oggi, dobbiamo “passare da una visione del mondo (solo) eco-nomica a una visione eco-logica, capace cioè di tenere insieme in modo nuovo le complesse dimensioni della vita quotidiana, con particolare attenzione ai beni comuni dal cui destino dipendiamo tutti” (pp. 11-12).
Anche l’approccio ecologico condiziona il progetto urbano. Granata ci parla, per esempio, di città come Bogotà, o come Tokio “che scoraggia il mezzo privato, che ha investito sul miglior sistema di trasporto pubblico al mondo, che ha favorito una cultura della bicicletta con piste ciclabili, parcheggi dedicati e varie società di bike sharing” (p. 75). Sostiene, come si sta facendo in Cina, che oggi “la sfida urbanistica più importante [consista] nel rendere le città più “spugnose” (sponge cities in inglese), porose, capaci di reagire agli eventi climatici estremi e di utilizzare con lungimiranza le risorse idriche a disposizione” (p. 162). Ed elogia il ruolo delle piante. “La vegetazione - sostiene - non può essere solo concentrata in parchi e giardini, ma deve coinvolgere sempre di più le corti interne, i filari delle strade, le coperture degli edifici e il verde verticale: tutte soluzioni che oggi dovrebbero far parte del bagaglio di lavoro di architetti e urbanisti” (p. 163) perché ci preparano ad affrontare gli effetti, pesantissimi, dell’inquinamento dell’aria e del cambiamento climatico.
La ricerca di un’economia urbana equilibrata è un altro nodo affrontato nel libro. Granata sottolinea il “potere energivoro della rete, il tema delle nuove forme di esclusione causate dalle nuove tecnologie e la dimensione del controllo sulla vita delle persone da parte delle grandi aziende del digitale” (p. 74). Gli acquisti online hanno impatti significativi sulla vita delle città, sul nostro stare nelle città. La rete promuove “un atto di acquisto che agisce sull’invisibilità, sulla rapidità e sull’immediatezza, sul consumo just-in-time senza un prima senza un dopo. Metodologicamente - sostiene Granata - è ciò che avviene nel mondo del porno” (p. 73). E gli impatti sulla qualità della vita nelle strade sono enormi. La “consegna di pacchi e cibo a ogni ora del giorno e della notte, ogni giorno della settimana, riempie di camioncini e rider le strade urbane impattando sulla sicurezza, il traffico, la circolazione di tutti” (p. 73). E al contempo rende le strade più deserte dal punto di vista delle attività commerciali minute, degli usi pedonali ed effettivamente meno sicure. È qualcosa che secondo l’autrice va ripensato a fondo. La gestione degli spazi di vendita va ridefinita anche considerando l’urbanità. Persino reintroducendo “quei silenziosi intervalli a cavallo di pranzo oppure della domenica - ormai ignorati dalle grandi città - in cui tacciono i cantieri e riposano le orecchie degli abitanti di un quartiere” (p. 74).
Con fondamento nel pensiero ecologico, Granata ci invita poi a guardare le città da altre prospettive. A comprenderle utilizzando tutti i nostri sensi. Certo “non è semplice - osserva - far comprendere che esistano anche altri modi di ‘vedere’ e ‘sentire’ l’architettura, nel tempo in cui gli occhi, la visione, l’immagine bi- o tridimensionale sono la forma più comune di comunicazione” (p. 85). Ma - sostiene - non è neppure impossibile. È una questione di educazione. “Assumere questa prospettiva sul corpo, sulla materia, sulle relazioni con l’architettura dovrebbe - a suo dire - portare a immaginare una definizione degli spazi profondamente differente, non-visuale ma sensoriale, che lavora sull’esperienza delle percezioni e non sul nitore della forma bidimensionale” (p. 86).
Lo si potrebbe fare - sostiene - ascoltando ciò che l’architettura saprebbe dirci. “Le case - scrive ad esempio - ricordano tutto. Trattengono i gesti, le parole, i silenzi, i segni del tempo, le nascite e le partenze, gli odori e persino i rumori. S’imbevono delle nostre vite e dei nostri pensieri. Ci precedono e sopravvivono al nostro passaggio. Ci trattengono e ci invitano a partire. Ci attendono senza metterci fretta. Le case raccontano storie” (p. 110). Storie che dicono della nostra quotidianità. Che rendono la nostra vita più ricca e preziosa di quanto non facciano gli operatori immobiliari. Che a furia di soffiare sui meccanismi della rendita snaturano la vita urbana. “L’esodo delle famiglie più giovani da Milano - osserva - sta consumando in modo invisibile quel reticolo di welfare di prossimità che è nella storia del modello urbano ambrosiano” (p. 80). Un processo che per l’autrice andrebbe contrastato. Anche ricorrendo a “pratiche, rituali, un’anima collettiva che consentono di trattenere il tempo, di riprodurre lo stupore per il trascorrere delle stagioni, per la pioggia, per la neve, per i ciliegi in fiore, le feste si intrecciano con i modi di dire, con gli eventi della natura, con i piccoli rituali legati al cibo e alla convivialità di vicinato” (p. 166).
La vita nelle città è fatta di passi. “Camminare aiuta a sentirsi a casa, a riordinare i pensieri, a percepire appartenenza e radicamento a un luogo. Camminare - sostiene Granata - consente di osservare le vite degli altri, sentirsi meno soli in una giornata complicata” (p. 60). “I piedi - osserva - ci istruiscono, comunicano a ogni passo qualcosa al nostro cervello, sono ricettori fondamentali per mantenere l’equilibrio e guidarci nei nostri movimenti: lo spazio progettato - sostiene - può prendersi cura di questa nostra facoltà” (p. 91). Il nostro errare nelle città, invece, non è veramente libero. L’aumento delle telecamere di sicurezza, per esempio, lo rende controllato. “In nome del controllo e di una presunta maggiore sicurezza degli spazi, si snatura uno dei caratteri più forti dell’identità delle nostre città: la capacità di accogliere, di mescolare le differenze, di integrare la varietà delle persone, persino di sostare nello spazio pubblico e di incontrarsi” (p. 31). Le donne sono anche qui le più penalizzate. “Le ragazze imparano presto, nelle città ma anche nei centri minori, che lo spazio pubblico non è il posto più ospitale per loro. [Esse] - sostiene Granata - interiorizzano appena muovono i primi passi verso l’autonomia dai genitori che la loro soglia di allerta è ben più alta di quella dei loro fratelli e dei loro compagni maschi” (p. 58). Non a caso “dopo i nove anni di età il numero di ragazze nei parchi pubblici diminuisce drasticamente, mentre il numero di ragazzi rimane stabile” (p. 67).
Quello di Granata è un libro che parla anche di giovani. Della nostra relazione sociale con le nuove generazioni. Che è viziata fin dalla formazione. “Cosa impedisce - si chiede per esempio - di immaginare modelli didattici rispettosi dei tempi di crescita degli adolescenti (tutti), evitando la competizione ragazzi-ragazze e valorizzando le rispettive attitudini?”. Perché - di fatto - non immaginiamo il loro futuro nella città? Gli studenti che hanno piantato le loro tende davanti al Politecnico di Milano e poi delle altre università ci hanno dato “la più alta lezione di educazione civile” (p. 81). La loro - sostiene Granata - “non è (solo) una domanda di casa. È - afferma - una domanda di città, di relazioni, di vita in comune che inizia nelle aule e prosegue alla fine delle lezioni” (p. 78). I progetti degli studenti e dei giovani professionisti spesso segnano una svolta. “Si riconoscono - scrive - in uno stile più libero e personale. Perché ancora una volta [il problema non è la] qualità di genere, ma di quell’ambizione a connettere dimensione personale, esperienza e cultura, vita e sapere che - sostiene - è molto forte nelle nuove generazioni” (p. 123).
Il libro di Granata esprime un’idea di pedagogia. L’idea dell’autrice è quella che l’apprendimento vada legato ai contesti. In primis - sostiene - “c’è una dimensione contestuale dell’apprendimento che fa sì che il luogo dove impariamo incida nel modo in cui il contenuto viene recepito dal nostro cervello” (p. 42). È nei luoghi - scrive - che “che la dimensione esperienziale ed emotiva si coniuga con la dimensione cognitiva” (p. 42). Formazione ed autoformazione - scrive - non avvengono “mai ‘da nessuna parte’, ma sempre ‘da qualche parte’, in un luogo che diventa per noi memorabile” (p. 114). La seconda cosa riguarda la curiosità che - a suo dire - non saremmo più in grado di suscitare nei ragazzi e nelle ragazze. “Ripensare radicalmente i nostri modelli educativi, che oggi mortificano la curiosità e allevano tanti piccoli incuriosi, è - secondo Granata - la sfida più importante per chi abbia a cuore le virtù civili” (p. 21). La terza riguarda le relazioni. Quelle con gli altri che incidono fortemente sul nostro modo di apprendere. Ogni lingua - scrive per esempio - è “appresa non per via cognitiva ma per via relazionale e affettiva, le parole - sostiene - sono legate al volto e al calore che le ha pronunciate, legate alle cose e ai luoghi nei quali le prime esperienze di vita hanno preso forma” (p. 121).
Tutto ciò, naturalmente, ha a che fare con l’insegnamento dell’architettura. Continuare a considerarla “come un oggetto significa - per Granata - continuare a non considerare le possibili infinite relazioni tra noi e il mondo” (p. 85). E questo - secondo l’autrice - limita fortemente la nostra visione dello spazio urbano. “Ho sempre pensato - afferma - che se sai solo di architettura non sai nulla di architettura” (p. 10). Che è qualcosa di più complesso e articolato. La sua idea è che l’architettura debba essere “promossa come una laurea generalista (nel senso più prezioso del termine), un modo di pensare il mondo, piuttosto che un passaggio obbligato verso l’accreditamento tecnico e l’albo professionale” (p. 16). In generale, anche in questa visione pedagogica c’è qualcosa che ha a che fare con la femminilità. “Un’educazione più rispettosa degli altri, più tollerante, più sensibile, più empatica - tutto quello che fa parte dell’educazione femminile - avrebbe - sostiene Granata - impatti positivi su tutta la società” (p. 107).
Nel libro c’è poi la vita di Elena Granata. Che non è tenuta nascosta, come una buona pubblicazione scientifica vorrebbe ma è fortemente intrecciata ai temi trattati. Nel mondo universitario - spiega - “ancora suscita un certo disappunto mescolare vita e sapere, esperienza e senso comune, letture colte e quotidianità” (p. 117). Il suo approccio, invece, è differente. Granata ci racconta tranquillamente del suo essere madre di tre figli (e delle difficoltà anche pratiche che questo ha comportato). Della sua idea che la maternità non riguardi “solo la biologia, l’atto del mettere al mondo un figlio [ma sia] una tensione e un sentire dell’anima” (p. 129). Ci parla della sua malattia e della frequente disumanità degli ambienti ospedialieri. Scrive dell’esperienza dell’accoglienza - con le sorelle, gli amici, i vicini - di oltre quaranta ragazzi venuti da soli in Italia dall’altra parte del mondo. Qualcosa che ha fatto sì che cominciasse “a vedere in modo diverso le città, dove [questi ragazzi] spesso approdano soli, senza reti, e dove in molti casi restano invisibili agli occhi di tanti” (p. 129).
Insomma, il libro di Elena Granata è tante cose. È prima di tutto “un atto di protesta, di disubbidienza, di indisciplina a qualche regola ingiusta” (p. 81): quella della condizione della donna nella nostra società. Ma è anche un’idea di mondo, un modo di stare nella società. Muove dal desiderio di “cambiare il gioco” (p. 28), modificare regole vetuste che rendono la vita meno bella. “La parità e la reciprocità - scrive - sono un terreno ancora nuovo, da praticare con coraggio e lealtà” (p. 50). Ma il suo invito è a non dimenticare se stesse. Specie se donne. Specie se, in tutte le forme possibili, si è madri. La nostra società “nel perdere le madri [ci fa perdere] un sacco di cose” (p. 127), scrive. Nello stare insieme, nell’apprendere, nel coltivare umanamente la vita. E l’altro suggerimento è di non dimenticare i luoghi perché “quello che è successo, è successo, dice Paul Ricœur, ed è successo in un luogo” (p. 113). In generale, l’auspicio è quello di prestare attenzione a ciò che facciamo singolarmente e come società: la “base di ogni comportamento etico” (p. 24): un invito al progresso che “può e deve nutrirsi ancora di sentimenti positivi e edonistici, legati al piacere, al senso, alle motivazioni intrinseche, alla soddisfazione di bisogni fondamentali della nostra vita, a una promessa - afferma - di miglioramento e di felicità” (p. 13).
Renzo Riboldazzi
© RIPRODUZIONE RISERVATA 10 MAGGIO 2024 |