Renzo Riboldazzi  
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PER UN'ECONOMIA (E UN'URBANISTICA) CIVILE


Marco Ponti a Città Bene Comune



Renzo Riboldazzi


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Alla Casa della Cultura di Milano prosegue Città Bene Comune, convegno sulla città, il territorio, l’ambiente, il paesaggio e le relative culture interpretative e progettuali giunto all’undicesima edizione. Ideato e diretto da Renzo Riboldazzi, il convegno è coprodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano e si svolge con il patrocinio dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU), della Società Italiana degli Urbanisti (SIU), di Accademia Urbana (AU) e della Società dei Territorialisti/e (SdT).

Dopo Alessandro Balducci e Elena Granata, mercoledì 22 maggio, alle 18, sarà la volta di Marco Ponti - già professore ordinario di Economia al Politecnico di Milano, consulente della Banca Mondiale, della Commissione Europea e dell’Ocse – che discuterà del suo Per una politica dei trasporti. Idee per una governance, pubblicato da Gangemi nel 2023, con Matteo Colleoni - coordinatore del dottorato Urbeur - Studi Urbani all’Università degli Studi di Milano Bicocca -, Claudio Ferrari - presidente della Società Italiana di Economia dei Trasporti e della Logistica - e Paola Pucci - coordinatore della sezione Urbanistica del Dipartimento di Architettura e Studi urbani del Politecnico di Milano.

 

 

Le ragioni di un confronto

Qualcuno, forse, si è stupito che alla Casa della Cultura si sia scelto di discutere l’ultimo libro curato da Marco Ponti, Per una politica dei trasporti. Idee per una governance, edito da Gangemi nel 2023. Questa associazione, effettivamente, ha una storia di condivisione e difesa di temi e questioni da cui probabilmente questo autore risulta culturalmente lontano.

Qualcun altro, probabilmente, ha guardato con un po’ di sufficienza il fatto che questo libro sia dibattuto nell’ambito di Città Bene Comune, iniziativa coprodotta con il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano in cui, negli anni e con lo scopo di creare una cultura urbanistica diffusa - ovvero di rimettere al centro del dibattito pubblico i temi della città, del territorio, dell’ambiente e del paesaggio intesi, appunto, come un bene comune - si è guardato con curiosità intellettuale anche a mondi culturali non sempre condivisi o condivisibili (da chi scrive, dall’associazione, da quanti ci seguono): questo, tanto nella rubrica online (dove al momento sono pubblicati 460 commenti a libri sui temi della città e del territorio) quanto nelle precedenti edizioni di questi incontri (2013, 2014, 2015, 2016, 2017, 2018, 2019, 2021, 2022, 2023) dove approcci differenti sono stati oggetto di riflessione e dibattito.

La cosa, tuttavia, non deve suscitare sospetti. Né c’è un’inversione di tendenza politica della Casa della Cultura che - come dimostra il suo ricco e articolato programma - rimane fedele alle sue origini. Né Città Bene Comune ha virato dal suo democratico punto di vista fondato sul confronto tra autori e studiosi su alcuni temi cruciali per la pianificazione e, più in generale, per la vita delle città.

Se sorpresa dev’esserci, piuttosto, la ritroviamo in alcuni passaggi del libro in cui, oltre al contributo di Ponti (sono suoi i primi sette capitoli oltre alle conclusioni e le appendici), sono raccolti un testo di Pietro Spirito (L’urgenza della regolazione logistica) e uno di Paolo Beria (La governance del settore aereo) con la prefazione di Roberto Perotti. In sintesi: il tema del volume, in generale, è quello dei trasporti; lo scontro, senza troppe sorprese, è quello tra pubblico e privato; la tesi di fondo è quella di una governance, “cioè l’assetto proprietario e funzionale che è alla base di mercati efficienti”, come riporta anche la quarta di copertina, che assuma caratteristiche, appunto, di efficienza ed economicità. E da qui discendono alcune conclusioni da cui, in linea di principio, è difficile dissentire. Facciamo tre esempi.

Il primo. Per Ponti “le infrastrutture di trasporto [ferroviario] hanno bisogno soprattutto di buona manutenzione dell’esistente, spesso molto manchevole, e di investimenti circoscritti […la cui…] valutazione non sia affidata alle ferrovie stesse” (p. 178). In tempi di asfissiante retorica sul ponte sullo Stretto di Messina e, più in generale, di una generale tendenza a effettuare enormi investimenti per grandi infrastrutture anche in presenza di rilevantissimi contrasti sociali, una riflessione su questo aspetto andrebbe quanto meno considerata, da qualunque parte provenga. Di certo - osserva Ponti - è molto più critico promuovere politiche che garantiscano un miglior funzionamento dell’esistente, sia come manutenzione delle infrastrutture che come servizi” (p. 11). Nella prefazione, Perotti - che si autodefinisce “pendolare” – gli dà manforte. “Questi - si chiede a proposito delle ferrovie - non sanno fare funzionare decentemente delle linee dedicate che ogni giorno trasportano al lavoro - non alla spiaggia - centinaia di migliaia di persone, non sanno proteggere dei treni in deposito da pochi ragazzini vandali [che - precisa poche righe prima - [sono] ricoperti di graffiti, dalla motrice all’ultima carrozza, decine di metri ininterrotti di imbrattamenti che neanche si vede fuori dai finestrini], ma vogliono investire miliardi per altavelocizzare linee su cui - precisa Perotti - non viaggia quasi nessuno” (p. 7). Ammesso che quest'ultima affermazione sia vera, siamo sicuri che sia la strada giusta? Siamo sicuri che non sia il caso di riprendere a servire - nel senso più alto del termine - i territori, tutti i territori in cui passa una infrastruttura pubblica, a vantaggio dei loro abitanti e non di quanti passano da una metropoli all’altra senza averne il minimo contatto? Le relazioni ferroviarie veloci - non è un mistero - hanno portato numerosi vantaggi, non c’è dubbio. Ma, al tempo stesso, insieme all’abbandono dei servizi di trasporto locale hanno finito col generare territori di serie A (pochi e respingenti dal punto di vista dei costi di accesso alla casa) e molti territori di serie B (dove, ahimè, molti di noi vivono, anche in condizioni non sempre facili in termini di presenza di servizi). È questo l’equilibrio territoriale che stiamo cercando e perseguendo?

Il secondo. Per Ponti “non ha più alcun senso mantenere il regime concessionario per le autostrade a pedaggio, che ha dato pessima prova” (p. 179). Non occorre ricordare che l’ammortamento per la realizzazione delle infrastrutture è già stato ampiamente pagato nel tempo. E non serve ritornare sul crollo del ponte Morandi a Genova per sospettare che molta della manutenzione che avrebbe dovuto essere fatta in virtù dei balzelli che tutti paghiamo quando percorriamo un’autostrada è stata sostanzialmente tradita. La conseguente rinazionalizzazione della rete autostradale, tra l’altro, è poi avvenuta “a carissimo prezzo (si era prima minacciata la revoca delle concessione, poi in realtà - afferma Ponti - al concessionario è stata corrisposta una ricca buonuscita)” (p. 40). E ora? Da che parte stiamo andando? Stiamo tornando sulla vecchia strada incuranti dell’interesse collettivo?

Il terzo e ultimo esempio riguarda il pendolarismo. Per Ponti si tratta di “un fenomeno di ‘fuga dalla rendita urbana’” per il quale vanno immaginate “politiche insediative e di mobilità [che] dovranno tenerne debito conto […] favorendo soluzioni le più decentrate, consentite forse anche dal lavoro in remoto e utili alla rivitalizzazione dei centri minori” (p. 180). La fuga dalle grandi città oggi è spesso inevitabile. L’incredibile e incontenibile aumento dei prezzi della casa nelle metropoli contemporanee - Milano è un esempio lampante di questa situazione - espelle dalla città le fasce sociali più deboli e le famiglie che hanno l’oggettiva necessità di una casa più grande. I dati che quasi quotidianamente leggiamo sui giornali non lasciano dubbi. Abitare nei centri secondari oggi non è una scelta ma, per molti, un obbligo. Che ha i suoi vantaggi, soprattutto economici rispetto al costo della casa. Più in generale, anche questa terza osservazione andrebbe sicuramente considerata. Dovremmo cioè riflettere su chi e perché ha accesso alla città. E chi no.

L’analisi di Ponti, quella su cui fonda le sue osservazioni, ha due aspetti cruciali: ciò che abbiamo fatto finora (ovvero la storia delle nostre scelte politico-economiche) e ciò che potrebbe essere fatto (sulla base di valutazioni economiche, esperienze internazionali ed una innegabile competenza maturata sul campo).

Ciò che abbiamo fatto finora, ovvero una Breve storia delle politiche passate (cap. 2), è una rapida sequenza di cosa è avvenuto nel nostro Paese. Dalla ricostruzione delle ferrovie nel secondo dopoguerra alla diffusione dell’automobile. “L’aumento del reddito, l’innovazione tecnologica e le economie di scala [hanno fatto] esplodere in tutto il mondo - scrive Ponti - la motorizzazione privata, prima a due e poi a quattro ruote” (p. 29). Lo Stato italiano ha inseguito questa tendenza. E costruito strade, anzi chilometri e chilometri di autostrade. Facendole pagare agli utenti dei mezzi privati. Complice “una elevatissima ‘disponibilità a pagare’ per possedere e usare il bene ‘automobile’” (p. 32). E ha realizzato - in questo caso con una visione che l’autore considera antieconomica - ferrovie investendo moltissimo denaro in un processo dove Ponti - che, precisa nella quarta di copertina, "ha lavorato nel settore dei trasporti per 13 anni in 17 paesi" - ha anche ricoperto ruoli non secondari. Poi c’è l’era delle privatizzazioni. In particolare, delle autostrade che “decotte non erano, anzi, i traffici e i ritorni finanziari continuavano a crescere” (p. 35). Quella delle Grandi Opere volute da Berlusconi ma non disdegnate dai partiti di sinistra che “ne divennero promotori solo con minore fanfara” (p. 36). Accanto “tangentopoli” in cui, si stima, il “7% dei costi di investimento [era] la percentuale destinata ai partiti politici” (p. 34). E soprattutto ancora ingenti investimenti sulle infrastrutture ferroviarie: “10 miliardi all’anno in sussidi a vario titolo, circa 450 miliardi in Euro 2019 in trent’anni, pari a quasi il 20% del nostro debito pubblico” (p. 37). Così, con altre vicende intermedie che l'autore richiama, si arriva ad oggi dove - sostiene Ponti – “l’unica importante innovazione è […] logistica: la distribuzione appoggiata ad internet sta rapidamente riducendo le vendite al dettaglio tradizionali in molti settori merceologici, aumentando ancora la centralità della funzione abitativa” (p. 41).

Poi, dicevamo, nel libro c'è ciò che potrebbe essere fatto. Oltre a quanto abbiamo indicato in apertura del testo (ed elencati in ordine sparso): privatizzare i servizi ferroviari evitando ulteriori investimenti; limiti ferrei ai servizi intermodali, decisamente antieconomici e – sostiene Ponti – “avendo consapevolezza che si tratta di provvedimenti sostanzialmente irrilevanti sotto il profilo ambientale” (p. 52); sì all’uso dell’automobile (con relativo pagamento dei danni ambientali) e anche sfruttando i vantaggi ecologici determinati delle nuove tecnologie ma abbandonando il pagamento delle autostrade; taxi a guida autonoma (che dovrebbero essere decisamente più economici) e diverse altre diverse cose, anche sul trasporto navale e quello aereo, che, in una logica meramente economica - dobbiamo ammettere - potrebbero avere anche un loro senso.

 

Eppure qualcosa ci lascia perplessi. Questo approccio che di primo acchito appare ragionevole - anche perché supportato da una quantità di dati significativi - in realtà ha delle fragilità non secondarie.

A giudizio di chi scrive, di fondo non funziona l’indifferenza al rapporto tra spazio e società che, certo, ha un suo fondamento economico che è fondamentale considerare prima di ogni scelta trasportistica o relativa alla realizzazione di servizi. Ma non è l'unico. Questo si fonda su relazioni decisamente più complesse che il libro di Ponti trascura senza indugio. Si tratta, oltre tutto, di un rapporto che si insinua nel nostro privato e nelle nostre relazioni con i luoghi che chiunque abbia un minimo di sensibilità per i contesti non può evitare di considerare perché fanno parte della nostra civiltà.

Non possiamo - sempre a giudizio di chi scrive - evitare di considerare qualsiasi altro approccio politico alla pianificazione della città che vada nella direzione di una scelta consapevole del tipo di spazio in cui vogliamo vivere e su cui siamo disposti a investire. La qualità della vita non è solo economicità delle scelte: è un aspetto che indubbiamente va considerato, certo, ma non è l’unico. Dunque, possiamo considerare vero - anche se c’è una storia dell’urbanistica che tende a dirci il contrario - che l’Italia ha un paesaggio che è “tra i più belli del mondo” e che abbiamo “un patrimonio artistico e architettonico che tutto il mondo ci invidia” (p. 73). Ma non possiamo - come invece fa Ponti - immaginare che le città diventino quello che in realtà in molti casi sono diventate ovvero dei centri commerciali e turistici indifferenti alle relazioni sociali e soprattutto a quelle culturali e identitarie che sono espressione di una cultura maturata nei luoghi. Possiamo considerare vero che “la mobilità urbana di tipo pendolare esprime le diseguaglianze di reddito, imponendo costi e disagi ai lavoratori espulsi dal costo delle case (cioè la rendita urbana) dai luoghi in cui si concentrano i posti di lavoro” (p. 105). Ma facciamo molta più fatica ad accettare - almeno in linea di principio perché le cose nel quotidiano purtroppo vanno davvero così - che “le categorie di lavoratori a più alto reddito possono naturalmente abitare vicine ai posti di lavoro, e anche in aree con servizi migliori” (p. 105). Questa è una fotografia classista della società che - come urbanisti e prima ancora come cittadini ma anche come soci della Casa della Cultura - speriamo di poter cambiare. Così come speriamo di poter cambiare gli effetti della dispersione urbana sul territorio. Essa - è ampiamente dimostrato - genera traffico extraurbano e urbano; sottrae tempo e qualità della vita alle persone obbligate a spostamenti pendolari; obbliga a sostenere costi per i trasporti che, anche all’interno delle famiglie, sono difficilmente comprimibili per le differenti esigenze dei singoli membri. Certo che anche “il telelavoro, unito ai minori costi del risiedere fuori dalle aree centrali, potrebbe - secondo Ponti - davvero spingere a una riduzione stabile del pendolarismo” (p. 40). Ma è altrettanto certo che questa pratica ha effetti non secondari sulle relazioni interpersonali e sociali che non possiamo evitare di considerare.

Possiamo infine, per fare un ultimo esempio, considerare vero - perché anche in questo caso in diverse parti del mondo le cose vanno in questa direzione - che è possibile “cambiare residenza quando si trova un impiego migliore” (p. 107) ma non vorremmo essere obbligati a farlo. Dovremmo poter scegliere liberamente, cosa che le giovani generazioni faticano sempre più a fare. Recidere i nostri rapporti con i luoghi legati alla nostra storia e identità personale e sociale non può essere solo ed esclusivamente una scelta economica eventualmente supportata dalle politiche urbane. Questo approccio funziona in linea di principio ma rischia di riportarci a quei trasferimenti forzati dal mito del lavoro fisso nelle grandi fabbriche del nord Italia che nel secondo dopoguerra ha determinato il trasferimento (per molti forzato) da una parte all’altra del nostro Paese di migliaia di persone. E al contempo lo spopolamento di intere aree dell’Italia centrale e meridionale.

Anche questo - crediamo - sia antieconomico. Tutto dipende da cosa intendiamo per economia. Dipende da quali parametri consideriamo e dalla scala con cui li consideriamo. Dipende se oltre ai costi vivi siamo in grado, come società, di valutare gli effetti sul territorio nel suo insieme. Dipende soprattutto se vogliamo praticare un’economia arida e indifferente ai contesti o un’economia (e un'urbanistica) civile che sappia considerare i luoghi. Che non recida con indifferenza le nostre relazioni con lo spazio e la società.

Renzo Riboldazzi

 

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

17 MAGGIO 2024

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture interpretative e progettuali

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

ideazione e direzione scientifica (dal 2013):
Renzo Riboldazzi

direttore responsabile (dal 2024): Annamaria Abbate

comitato editoriale (dal 2013): Elena Bertani, Oriana Codispoti; (dal 2024): Gilda Berruti, Luca Bottini, Chiara Nifosì, Marco Peverini, Roberta Pitino

comitato scientifico (dal 2022): Giandomenico Amendola, Arnaldo Bagnasco, Alessandro Balducci, Angela Barbanente, Cristina Bianchetti, Donatella Calabi, Giancarlo Consonni, Maria Antonietta Crippa, Giuseppe De Luca, Giuseppe Dematteis, Francesco Indovina, Alfredo Mela, Raffaele Milani, Francesco Domenico Moccia, Giampaolo Nuvolati, Carlo Olmo, Pier Carlo Palermo, Gabriele Pasqui, Rosario Pavia, Laura Ricci, Enzo Scandurra, Silvano Tagliagambe, Michele Talia, Maurizio Tira, Massimo Venturi Ferriolo, Guido Zucconi

 

 

 

Conferenze & dialoghi

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
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2018: Cesare de Seta
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2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione
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2021: V. Magnago Lampugnani | G. Nuvolati
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Incontri-convegni

2021: programma/1,2,3,4
2022: programma/1,2,3,4
2023: programma/1,2,3,4
2024: programma/1,2,3,4
 
 

 

Autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi
2022: Pier Luigi Cervellati

 

 

Letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021: online/pubblicazione
2022: online/pubblicazione
2023: online/pubblicazione
2024:

G. M. Flick, La città dal diluvio universale all'arcobaleno, commento a: C. S. Bertuglia, F. Vaio (a cura di), La città dopo la pandemia (Aracne, 2023)

V. Prina, Esplorare e raccontare Varese, commento a: L. Crespi (a cura di), Atlante delle architetture e dei paesaggi dal 1945 a oggi in provincia di Varese (Silvana Editoriale, 2023)

C. Olmo, Le molteplici dimensioni del tempo, commento a: M. Bettini, Chi ha paura dei Greci e dei Romani? (Einaudi, 2023)

S. Tagliagambe, Al diavolo la complessità, commento a: J. Gregg, Se Nietzsche fosse un narvalo (Aboca, 2023)

A. Ziparo, Ecoterritorialismo: una strada tracciata, commento a: A. Magnaghi, O. Marzocca (a cura di), Ecoterritorialismo (Firenze University Press, 2023)

L. Gaeta, Ritorno al quotidiano (dopo l'evento), commento a: M. Mininni, Osservare Matera (Quodlibet, 2022)

C. Saraceno, Una casa di tutti, commento a: A. Agnoli, La casa di tutti (Laterza, 2023)

P. Salvadeo, Cosa può fare l'architetto?, commento a: A. Di Giovanni e J. Leveratto (a cura di), Un quartiere mondo (Quodlibet, 2022)

W. Tocci, Visibile-invisibile per il buongoverno urbano, commento a: A. Balducci(a cura di), La città invisibile (Feltrinelli, 2023)

I. Forino, Una casa (e un arredo) per tutti, commento a: G. Consonni, Il design prima del design (La Vita felice, 2023)

E. Ruspini, Intersezionalità e Teoria sociale critica, commento a: P. Hill Collins,Intersezionalità come teoria critica della società (UTET Università, 2022)

M. Caja, Il tempo fa l'architettura, commento a: A. Torricelli, Il momento presente del passato (FrancoAngeli, 2022)

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A. Bonaccorsi, La Storia dell'aerchitettura è la Storia, commento a: C. Olmi, Storia contro storie. Elogio del fatto architettonico, (Donzelli, 2023)

M. Venturi Ferriolo, La città vivente, commento a: S. Mancuso, Fitopolis, la città vivente (Laterza 2023)

G. Pasqui, Città: fare le cose assieme, commento a: B. Niessen, Abitare il vortice (Utet, 2023)