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Dopo Alessandro Balducci (8 maggio), Elena Granata (15 maggio) e Marco Ponti (22 maggio), l’undicesima edizione di Città Bene Comune si chiude con Paola Viganò, professore ordinario di Urban Design and Urban Theory all’École Polytechnique di Losanna e allo Iuav di Venezia. Mercoledì 29 maggio alle 18 la incontreremo alla Casa della Cultura per discutere del suo Il giardino biopolitico. Spazi, vite e transizione, edito da Donzelli nel 2023, con Cristina Bianchetti - professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Torino -, Andrea Campioli - preside della Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle Costruzioni del Politecnico di Milano - e Gabriele Pasqui - professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica al Politecnico di Milano.
Il convegno sulla città, il territorio, l’ambiente, il paesaggio e le relative culture interpretative e progettuali è coprodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano e si svolge con il patrocinio dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU), della Società Italiana degli Urbanisti (SIU), di Accademia Urbana (AU) e della Società dei Territorialisti/e (SdT).
Le ragioni di un confronto
L’ultimo libro di Paola Viganò - Il giardino biopolitico. Spazi, vite e transizione (Donzelli, 2023) - ruota sul concetto di spazio pubblico. E - come afferma l’Autrice - “tornare a parlare dello spazio in relazione alla crisi profonda dell’urbano e dell’urbanizzazione è già una presa di posizione sul ruolo che questo potrebbe svolgere nel costruire nuove relazioni con vita e potere” (p. 110). Anche vita e potere sono due concetti ricorrenti di questo lavoro comparso nella serie “Critica del progetto” diretta da Cristina Bianchetti. Lo spazio - infatti - da un lato è considerato “nel processo di miglioramento della qualità della vita e la costruzione di un mondo migliore”; dall’altro segna la “distanza che intercorre tra noi e il progetto biopolitico moderno e postmoderno” (p. 117) su cui l’autrice ritiene utile tornare a riflettere. Per comprenderlo più a fondo di quanto non si sia fatto finora e dare senso al proprio agire progettuale. Più in generale, per radicare il progetto urbanistico contemporaneo in un ambito credibile. Per l’architettura e l’urbanistica, certo. Ma soprattutto per la società civile. Questo, sostanzialmente, inseguendo tre linee di pensiero che, per ragioni diverse, si intersecano e divaricano continuamente. Quella del bio-potere descritto da Foucault, ovvero “un potere l’intenzione del quale, tipicamente moderna, è il mantenere e rendere produttiva la vita” (p. 117). Quella dell’ecologia profonda, cioè che “riconosce come soggetti i corpi viventi e non viventi e considera le interazioni come interazioni tra pari” (p. 118). Quella dell’emancipazione, ovvero introducendo “nuove possibilità di espressione per il soggetto” (p. 118) e dunque nuovi gradi di libertà che la modernità in pratica aveva negato. Lo spazio pubblico non è solo sfondo a tutto ciò che in esso effettivamente succede o potrebbe succedere. Ma, più concretamente, fa parte di questo progetto:
- biopolitico, "perché esplicitamente inteso a mantenere in vita un capitale umano e produttivo” (p. 118);
- ecologico, perché “rarefazione delle risorse e cambiamento climatico, crescita e invecchiamento della popolazione, obsolescenza delle infrastrutture moderne… diventano temi biopolitici da trattare cooperando con il sistema naturale, alleandosi con e non contro di esso” (p. 121);
- emancipatore, perché il soggetto “cresce e sviluppa forme di resistenza nei confronti dei dispositivi disciplinari e di sicurezza” (p. 124) che lasciano intravedere una società più libera.
Soprattutto lo spazio c’entra perché indagato nella sua genesi moderna e postmoderna (la prima parte del libro). Perché praticato nell’esperienza progettuale diretta (la terza parte). Perché, infine, contribuisce a imbastire “frammenti di un nuovo discorso su spazio [appunto], vita e progetto” (p. 239).
Partiamo da quest’ultimo, dal nuovo discorso su spazio, vita e progetto che precede le conclusioni del volume e che, in pratica, ne riassume il senso.
Il territorio - per l’Autrice - è prima di tutto un soggetto. Non una merce. Non solo una risorsa, come abitualmente tendiamo a pensarlo. Come tale va riconsiderato criticamente perché “un ritorno di attenzione, dopo alcune stagioni quasi senza memoria spaziale, alla costruzione materiale del territorio [è] necessaria a decriptare le logiche che lo formano e trasformano, gli adattamenti, gli abbandoni e le riprese” (p. 241). Il progetto urbanistico contemporaneo o progetto di transizione - come lo definisce Viganò - “implica la revisione estesa e pervasiva dei modelli agricoli, idraulici e produttivi, la circolarità della produzione, una diversa mobilità…: un diverso modello ecologico e socio-economico” (p. 242). Le strutture deboli che insistono sul territorio, poi, sono una risorsa per il progetto, in primis il suolo. Per Viganò sarebbe necessario “attribuire valore al territorio-soggetto per ciò che è e non solo per le riserve/risorse o capitale che contiene, conferendo valore, dunque, anche ai suoi aspetti meno utili o eclatanti, banali” (p. 243). Ciò che all’Autrice interessa sottolineare è “l’abilità del soggetto debole nel porre questioni e incrinare l’equilibrio delle tradizionali relazioni di potere” (p. 243) che possono aprire inaspettati scenari progettuali.
Poi c’è il rapporto tra spazio ed economia. È evidente - sostiene - che su questo fronte “il progetto di sviluppo territoriale e urbano deve riposizionarsi e ridefinire il proprio ruolo all’interno di percorsi diversi e alternativi” (p. 243). Ce lo dice la storia. Il fallimento di molta urbanistica moderna passa da quella crisi, se di crisi possiamo parlare. È anche da lì che - ritiene - si debba ripartire “dando rilievo alle pratiche oscurate dalle forme economiche tradizionali e contribuendo ad allargare ‘l’immaginario economico’” (p. 244) che ogni progetto può suscitare.
Questo anche riconsiderando i prototipi biopolitici (eco-socio-spaziali). Qui manca ancora “un consenso allargato, poiché - scrive l’Autrice - si tratta di adattare e di modificare il nostro stile di vita e la nostra relazione con il mondo” (p. 245) ancor prima di ridisegnarne lo spazio. Soprattutto vanno rimesse “in discussione le retoriche semplificate bottom-up come quelle, già ampiamente criticate, top-down” (p. 245). Entrambe, cariche di una retorica talvolta insopportabile, probabilmente non sono più la soluzione ai problemi della società contemporanea.
Infine, a completare il lessico di questo nuovo discorso sull’urbanistica ci sono la produzione dello spazio urbano e quella di nuove ecologie. “Oggi - afferma Viganò - suolo naturale e suolo urbano sono, entrambi, un corpo tridimensionale che evolve nel tempo, un ‘suolo vivente’ con funzioni vitali” (p. 246) che - a suo dire - va considerato e ripensato nel suo insieme. Inutile esasperare le differenze. Piuttosto, sarebbe necessario, e anche più utile, “rigenerare città e natura entro una prospettiva comune” (p. 246). Secondo l’Autrice - infatti - “la produzione dello spazio abitato è possibilità di nuove ecologie, nuovi microecosistemi e rafforzamento di quelli esistenti” (p. 246). Ma soprattutto - afferma - “la costruzione della città non è più sinonimo di distruzione di ecosistemi, ma ripensamento delle condizioni che consentono la vita in un milieu che si definisce insieme alla sua trasformazione” (p. 246). Tutti questi “sono frammenti di un nuovo progetto: un passaggio epistemologico, ontologico, etico, e, naturalmente, (bio)politico” che Viganò apre alle nostre riflessioni. Lei lo fa partendo da alcuni progetti moderni e postmoderni. Sfociando in esperienze di concreto confronto con la realtà attraverso il progetto, che è considerato strumento di meditazione. Sempre ambendo a “una nuova riflessione sull’esistere, sulla vita che abbiamo in comune, sulle forme di vita e i loro spazi agenti. È - in sostanza - un nuovo progetto di spazio, ineludibilmente biopolitico” (p. 253).
Nuovo progetto di spazio che è indagato da differenti prospettive. Nella modernità e postmodernità - secondo Viganò - sono esistiti tre tipi di spazio:
- funzionale, cioè “lo spazio che segna una rottura con la città ottocentesca e che si realizza tra gli anni venti e settanta del Novecento passando attraverso la ricostruzione dopo la guerra” (p. 18); esso - scrive - “è dominato dall’idea di macchina, di funzionamento e di efficienza produttiva” (p. 23) e si esplica attraverso la dilatazione dell’isolato; la sua apertura, la ricerca di nuove spazialità dove convergono il loisir, l’aria, il verde;
- natura[le], che è considerato “parte integrante della costruzione della modernità occidentale e del suo sentimento della natura” (p. 19); nei lavori di Le Corbusier - per fare un esempio tra quelli citati dall’Autrice - “si rappresenta una ‘natura’ genericamente interpretata, nella quale la nuova città (e in particolare la funzione pura dell’abitare) è immersa” (p. 37); natura che è considerata una “estensione dello spazio sociale dell’alloggio, spazio utile e funzionale a molte pratiche individuali e collettive” (p. 45) che struttura lo spazio urbano;
- sociale, che “si dispiega tra la fine degli anni cinquanta e gli anni settanta del Novecento, poi sembra scomparire per riemergere con forza nel dibattito attuale” (p. 19); in generale, durante la modernità “il programma sociale del parco è importante tanto quello naturale e - scrive l’Autrice - riflette la convinzione che la città sia un’istituzione profondamente democratica” (p. 46).
La produzione dello spazio moderno secondo questi tre filoni è contrassegnata “da grandi continuità che riguardano il nostro essere nello spazio, la nostra posizione, o […] un’inerzia che tocca le idee riguardo i rapporti tra spazio e vita” (p. 101). Il progetto di spazio, infatti, è - per l’Autrice - ancora un progetto legato a statuti deboli. E, per molti versi, “oggi ancora largamente il deposito di idee e teorie formate da e a partire dall’architettura e dall’urbanistica moderne” (p. 13). Senza un vero ripensamento che lo renda attuale, adatto alla società contemporanea. Una sorta di continua riproposizione che va avanti per inerzia. Ovvero: “un progetto implicito [che] funziona senza che le responsabilità siano più chiaramente riconoscibili, o le procedure arrestabili, come quello - afferma - di una macchina” (p. 13).
In questa scia e con queste premesse sono analizzate dall’Autrice alcune esperienze, le loro radici culturali, gli intrecci sociali più o meno espliciti, la loro trasformazione contemporanea. Questo, per quanto possibile, “al di fuori e al di là dell’ideologia [sottesa alla loro generazione], delle speranze che [li] hanno originat[i]” (p. 105). È il caso di Tapiola a Helsinki, di quello immaginario di New Babylon, di Toulouse le Mirail a Tolosa. Qui - secondo Viganò - emergono molte cose. Anche “elementi di forte critica non solo alla città del Movimento Moderno, ma della società moderna nel suo insieme” (p. 96). Traspare, poi, il ruolo del tempo che “lascia che si producano situazioni inaspettate, ciascuna delle quali forma un proprio spazio, non previsto” (p. 98). Che sempre, tuttavia, non è considerato una entità metaforica. Al contrario, ciò che Viganò cerca di mettere in luce è la relazione tra spazio e vita che la crisi ambientale ha riportato in primo piano nei nostri pensieri. In sottofondo l’idea che sia possibile “la costruzione di una società differente a partire da differenti condizioni spaziali” (p. 114). Che l’Autrice indaga anche attraverso l’esperienza del progetto, un “banco di prova dell’ipotesi della transizione come nuovo progetto biopolitico e del suo senso concreto: per saggiarne criticamente l’utilità, le potenzialità, i limiti” (p. 126). Ecco, allora, che scorrono descrizioni e interpretazioni come quella relativa alla rigenerazione di la Zac de la Courrouze a Rennes in Bretagna, alla visione per la Grande Ginevra, al plan guide di Brest Métropole, agli studi per l’area ex industriale della Vallonia o per la Porte Ouest di Charleroi, del quartiere Peterbos a Bruxelles e diversi altri luoghi urbani e territoriali che hanno visto l’Autrice impegnata in forme diverse.
Progetti in cui Viganò sperimenta approcci anche differenti da quelli più consueti. Provando a spingere il progetto verso forme inusuali ma non per questo meno concrete o inadatte a risolvere situazioni critiche. Per esempio, “la denuncia del […] consumo [di suolo] - secondo Viganò - non può essere [considerata] l’unico esito della riflessione urbanistica” (p. 133) sulle trasformazioni urbane e territoriali. “La linea retorica - comune nella letteratura corrente - che propone di pensare il suolo, impoverito, eroso, urbanizzato, come una risorsa non rinnovabile, incapace di rigenerarsi, di arricchirsi e di tornare produttivo non convince pienamente” l’Autrice (p. 133). Al contrario - scrive - “la natura ricostruita attraverso la rigenerazione del suolo torna ad essere supporto di nuove forme di vita, oltre che spazio (pubblico) della città” (p. 133). Oppure facendo tesoro delle debolezze del territorio per trasformarle in “un’opportunità ecologica, socio-politica ed economica” (p. 145), anche “adattandole al cambiamento climatico e a nuove modalità di coesistenza” (p. 148) e senza dimenticare la “comprensione estetica del paesaggio” (p. 151). Ma anche rimettendo al centro del proprio lavoro l’idea maturata con Bernardo Secchi di “progetto di suolo”, “che investe gli spazi aperti e i piani terra degli edifici” (p. 169) al fine di contrastare, proprio tramite il progetto dello spazio pubblico (e dunque con gli strumenti dell’urbanistica), l’ingiustizia spaziale e sociale che caratterizza oggi molte nostre città.
È in questa prospettiva che si inquadra il contributo di Paola Viganò, teorico e progettuale, volto a “costruire - afferma lei stessa - una nuova epistemologia del territorio, un nuovo sguardo, proprio a partire dal territorio-soggetto” (p. 239).
Renzo Riboldazzi © RIPRODUZIONE RISERVATA 24 MAGGIO 2024 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture interpretative e progettuali
prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
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