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Roma disfatta di Vezio De Lucia e Francesco Erbani (Castelvecchi 2016) sviluppa sostanzialmente una tesi di fondo: il futuro di Roma - oggi messo in discussione da anni di cattiva amministrazione e dall'acuirsi di situazioni di degrado non solo fisico, ma anche sociale, culturale e politico - deve essere ricercato nel suo passato e, in particolare, nella tutela del suo grande patrimonio storico, archeologico e artistico che ne fa, comunque, una città unica nel mondo. Il libro vuole essere, quindi, un contributo alla costruzione di una proposta "nella logica di una città fondata sulla storia e sulla bellezza, la qualità del vivere e dello stare insieme". Una proposta che si sviluppa attraverso il dialogo continuo tra i due autori che si auto-intervistano e che è incentrata soprattutto sui temi urbanistici, vale a dire il principale campo professionale e culturale degli stessi: un urbanista professionista con esperienze di lavoro e responsabilità politica nell'amministrazione pubblica e un giornalista caposervizio cultura de "la Repubblica", da sempre attento alle problematiche urbanistiche e paesaggistiche, anche quelle connesse al dibattito e alle proposte legislative. Il testo è integrato da un capitolo finale (Roma. Uso del suolo), curato da Andrea Giura Longo e Monica Cerulli, dedicato ai numeri che evidenziano la grande crescita urbana che ha investito il territorio della città negli ultimi decenni e da alcune mappe, elaborate dagli stessi; numeri e mappe che tuttavia non aggiungono nulla a dati già noti e molto più completi, in particolare a quelli elaborati in occasione della formazione del nuovo Piano regolatore generale (Prg) del 2008 e alle relative tavole del quadro conoscitivo, molto più accurate e comprensibili di quelle presentate nel libro. Dati, quelli del Prg del 2008*, confermati anche recentemente dal Primo Rapporto statistico sull'area metropolitana romana presentato nel novembre del 2016 presso la Protomoteca del Comune di Roma.
Sulla tesi di tesi di fondo prima ricordata, dichiarata sin dal Prologo iniziale e ripresa e declinata in molti modi in tutto il testo, si può anche essere d'accordo, ma solo parzialmente: essa non può, infatti, costituire l'unica prospettiva urbanistica per una città come Roma, che non solo accoglie uno dei patrimoni storico-monumentali più importanti del mondo, ma è anche una grande città contemporanea cresciuta come nessun'altra in Italia negli ultimi cinquant'anni, sia in termini di abitanti, sia di nuovo suolo urbano sottratto al territorio dell'agro romano. Una condizione che gli autori non riconoscono e che, anzi, negano, quando affermano che la città è cresciuta molto più in termini di suolo urbanizzato che di abitanti: infatti, Roma all'inizio degli anni sessanta contava poco meno di 2,2 milioni di abitanti, che sono diventati poco più di 2.7 milioni alla fine del secolo scorso (praticamente gli stessi del 2003, anno in cui il Prg è stato adottato dal Consiglio Comunale), anche se in lieve decremento dopo il picco toccato nel 1981 con più di 2.8 milioni di abitanti. Dal 2003, tuttavia, la popolazione ha ripreso a crescere mostrando un segno positivo, fino a raggiungere gli attuali 2,9 milioni di abitanti. Un dato in controtendenza rispetto a quello di tutte le maggiori città italiane, salvo quelle interessate da forti flussi d'immigrazione accompagnati da politiche di integrazione da quando l'espansione urbana si è trasformata nell'ancora attuale processo di 'metropolizzazione' che ha travolto i confini municipali.
Ma non sono solo i dati della crescita demografica, presente anche se non con un trend eccezionale, a supportare la critica radicale dell'intera esperienza urbanistica di Roma dal 1993 al 2013 (dalla prima giunta Rutelli, alla fine dell'esperienza di Alemanno) che gli autori sviluppano nel testo e che si sostanzia nella critica a previsioni di sviluppo edilizio sovradimensionate rispetto a una domanda in declino e alla subordinazione alla speculazione edilizia spinta fino alla collusione con il malaffare (sintetizzo per semplificare). Una grande importanza dovrebbero avere anche i dati dell'economia di una città che alla fine del Novecento mostrava sorprendenti segni positivi relativi alla crescita di nuovi settori e alla diversificazione economica, rispetto alla tradizionale immagine di una città essenzialmente occupata nella pubblica amministrazione, nel turismo e nelle attività commerciali. Tali dati sono riportati negli allegati analitici del Prg 2008 che però i due autori trascurano e non prendono in considerazione in nessuna parte del testo. Si tratta di dati statistici, peraltro ufficiali, elaborati dal Cresme al quale il Comune aveva affidato una specifica ricerca finalizzata al dimensionamento del fabbisogno insediativo, residenziale e produttivo ai fini della formazione del nuovo strumento urbanistico. Essi mostrano - al contrario della visione tradizionale che gli autori sembrano preferire - una vitalità sorprendente della città con un rilevante aumento del settore privato rispetto a quello pubblico, un fabbisogno insediativo che supera i cinque milioni di metri quadrati di superficie utile e che per le funzioni produttive e produttive supera il 35% di questo dato complessivo. Insomma, i dati della ricerca Cresme evidenziano una nuova realtà di Roma, che registra una diminuzione del peso dei settori tradizionali e un deciso orientamento verso i servizi alla produzione, le nuove tecnologie e il settore della comunicazione e dell'informazione. Ciò non vuol dire mettere in secondo piano la peculiarità principale della città, cioè il suo patrimonio storico-monumentale, ma impone nella valutazione di un documento complesso quale è il piano urbanistico di una città come Roma, un equilibrio e un'attenzione che i due autori non sembrano voler esercitare.
Questa prima osservazione a un'impostazione che non voglio definire, in modo banale, ideologica, ma che comunque è condizionata da una lettura non obiettiva delle condizioni che hanno orientato le scelte urbanistiche e che ne condiziona quindi negativamente commenti e giudizi, è confermata da una seconda critica di fondo annunciata nel Prologo: gli autori sostengono che la "crescita esorbitante" della città è avvenuta soprattutto nel corso degli anni Ottanta, con l'occupazione di migliaia di ettari oltre il Grande raccordo anulare (Gra) e l'insediamento di quasi un milione di abitanti. Questa esplosione della città sul territorio non sarebbe stata adeguatamente contrastata dalle amministrazioni Rutelli e Veltroni prima con la "Variante delle Certezze" del 1997 e poi con il Prg adottato nel 2003 che rappresenterebbero due momenti fondamentali della stessa politica, basata sulla "urbanistica contrattata" e sull'invenzione dei "diritti edificatori": due scelte talmente negative da connotare quel Prg come "il peggior piano urbanistico della storia di Roma". Questa tesi - sviluppata nel primo capitolo (Di cosa parliamo quando parliamo di Roma) - sottovaluta deliberatamente e in qualche modo assolve il Piano urbanistico che ha realmente determinato l'esplosione sul territorio della città, cioè il Prg adottato dal Consiglio Comunale nel 1962 e approvato definitivamente nel 1965 dal Ministero dei Lavori Pubblici: un'adozione che aveva superato le resistenze ancora presenti a livello comunale, tecniche e politiche, in difesa del piano fascista del 1931, unanimemente giudicato pessimo e, peraltro, incorporato in buona parte nel nuovo strumento. I due autori non mostrano dunque un atteggiamento di particolare critica al Prg 1965, anche se "conserva innegabili difetti d'impostazione" come "l'ingiustificato dimensionamento", la continuità con i Piani Particolareggiati del Pr 1931, l'aver dato spazio all'abusivismo e "la sostanziale assenza di previsioni in materia di trasporto pubblico su ferro". Ne sottolineano comunque gli aspetti postivi, come lo SDO e le molte previsioni in materia di qualità ambientale (la tutela delle ville storiche e di parti pregiate dell'Agro Romano).
Basta riprendere il disegno dell'espansione prevista dal Prg 1965, come riportato nel numero 40/1964 di "Urbanistica" (Roma: le ultime fasi del piano), un'espansione non solo residenziale ma anche direzionale con le zone I "Direzionali" e le zone M2 "Servizi privati" e persino industriale, per rendersi conto che tutto quanto è avvenuto nei decenni successivi nell'Agro Romano parte proprio da quel disegno. La stessa previsione dello SDO, il Sistema Direzionale Orientale, oltre quaranta milioni di metri cubi prevalentemente direzionali e in minima parte residenziali distribuiti su circa ottocento ettari, che avrebbe dovuto accogliere gran parte della direzionalità pubblica e privata presente nel centro storico - una delle previsioni fondamentali del Prg 1965 e una testimonianza di quella stagione "bella e perduta" dell'urbanistica romana (una nota nostalgica ricorrente nel testo) -, mostra in realtà tutti i suoi limiti urbanistici perché affidato interamente alla mobilità automobilistica sorretta dall'"asse attrezzato" (cioè un'autostrada urbana), invece che da un'infrastruttura di mobilità di massa (una o più linee di metropolitana) come si sarebbe fatto in qualsiasi città europea; né più né meno della scelta presente nel Prg di Milano del 1953, con i due "assi attrezzati" che si incrociano nel nuovo "centro direzionale".
Ma oltre alle dimensioni enormi dell'espansione residenziale prevista dal Prg 1965 - dimensionato per l'insediamento di almeno cinque milioni di nuovi abitanti quando Roma ne contava meno di due - era il disegno urbanistico di quell'espansione a determinare la futura urbanizzazione dell'Agro Romano: i grandi comparti di nuova edilizia residenziale, previsti soprattutto nella direttrice sud-ovest, ma presenti in ogni direttrice storica della città, sono disegnati con grande cura secondo la tecnica tipica che Luigi Piccinato (il coordinatore del gruppo di consulenti incaricati) utilizzava in quel periodo, con una forma discontinua che lasciava grandi spazi aperti di verde urbano e rurale tra uno l'altro, nei quali si sarebbe insediata nei decenni successivi la quota maggiore degli insediamenti abusivi (15.000 ettari e quasi 700.000 abitanti, quasi tutti "condonati") o che sarebbero stati occupati nel periodo tra l'adozione e l'approvazione del Prg 1965 dalle previsioni del primo Piano per l'edilizia economica e popolare (Peep) del 1964, sacrificando altri cinquemila ettari di campagna; una scelta che ha consentito la costruzione di grandi quartieri di edilizia sociale per decine di migliaia di famiglie (Laurentino 38, San Basilio, Spinaceto, Tor Bella Monaca, fino all'eccesso ideologico del Corviale, per ricordare i maggiori), realizzati quasi tutti oltre il Grande raccordo anulare (Gra), disegnato sempre dal Prg 1965, senza un'adeguata mobilità di massa, con una qualità insediativa assai problematica, uno spazio pubblico desolato, una cronica carenza dei servizi. Senza dimenticare la presenza di altre zone edificabili anche se a bassa densità, le "G4 case unifamiliari con giardino", generosamente sparse nell'Agro ma individuate da un ingannevole colore verde. I due autori non riescono, dunque, a essere giudici severi e intransigenti verso il Prg 1965 come lo sono per l'urbanistica romana più recente; anzi, sempre sul filo della stagione "bella e perduta" assolvono questa vera e propria aggressione del territorio periurbano, forse perché mossa dalle buone intenzioni del Peep (Piano per l'edilizia economico popolare) e dedicano a Tor Bella Monaca - il quartiere modello che l'Amministrazione Petroselli voleva realizzare e che oggi non è ancora servito dalla metropolitana - e all'intero Peep del 1964 un intero capitolo del libro dal titolo francamente insostenibile (Ma Tor Bella Monaca non è poi così male).
Il mancato riconoscimento al Prg del 1965 della responsabilità principale dell'esplosione della città sul territorio e il contestuale addebito di tale responsabilità al Prg del 2008 è sviluppato nel capitolo 2 (I piani si fanno di giorno e si disfano di notte) utilizzando in modo arbitrario alcuni dati e, soprattutto, sottacendo e liquidando in modo sbrigativo una questione cruciale per l'urbanistica italiana, senza la soluzione della quale è stata sostanzialmente impossibile ogni pianificazione efficace, capace cioè di garantire esiti non troppo lontani dagli obiettivi posti e frutto di condizioni locali eccezionali, tecniche e politiche. La questione è quella delle "previsioni residue" della pianificazione che si vuole modificare con un nuovo piano, una questione aggravata dal normale sovradimensionamento dei piani precedenti dovuto alla rendita, un condizionamento "strutturale" nel nostro regime immobiliare, la cui soluzione avrebbe dovuto richiedere una specifica riforma del nostro ordinamento, mentre è stata lasciata all'incertezza della politica e alla giurisprudenza. Nella versione originale della legge urbanistica italiana del 1942, le "previsioni residue" non costituiscono un condizionamento per la pianificazione successiva e possono, quindi, non essere tenute in alcun conto; di conseguenza non esistono neppure i "diritti edificatori", cioè la trasformazione di normali previsioni urbanistiche in un diritto della proprietà che deve essere sempre garantito. Questa era la lettura dell'originaria stesura della legge, suffragata da una giurisprudenza costante, che garantiva al Comune la possibilità di non tenere conto delle "previsioni residue" sulla base di esplicite e adeguate motivazioni. Al contempo, i "diritti edificatori" sono solo quelli risultanti da una pianificazione esecutiva valida (un Piano particolareggiato e, in generale, un qualsiasi piano attuativo), assistita da una convenzione, oppure quelli che riguardano previsioni direttamente conformative (la città esistente, le zone di completamento); una lettura che consentirebbe agli autori di affermare che i "diritti edificatori non esistono" (questa affermazione in realtà va attribuita a Edoardo Salzano) e che gli stessi "sono stati inventati dal Prg del 2008". Purtroppo le cose non sono così semplici e questa controversia decisiva, non disciplinata in modo adeguato dalla legge, si è risolta quasi sempre in una sconfitta per le amministrazioni (e non solo certo per il Comune di Roma) che non ne volevano tenere conto, perché, nel frattempo, sono intervenute due nuove condizioni determinanti: da un lato la pianificazione, dagli anni Settanta in poi, si è espressa in forme molto più dettagliate e articolate dello zoning generico e a maglie larghe originario, accentuando così l'effetto conformativo del piano, anche per quanto riguarda i diritti edificatori; dall'altro lato l'introduzione di un'imposta sulle "aree fabbricabili" avvenuta con l'ICI nel 1992 ha sostanzialmente modificato l'originaria impostazione della legge, dato che per "area fabbricabile" la legge intende "l'area utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali (…) in vigore, indipendentemente dalla tipologia edilizia realizzabile e dalle ulteriori attività che debbano porsi in essere perché possa essere assentita l'edificazione". Tutto ciò ha cambiato l'orientamento della giurisprudenza che si è espressa in modo sempre più favorevole nei ricorsi di proprietari ai quali erano state cancellate previsioni edificatorie per cui era stata pagata per anni una specifica imposta, situazione che avvicinava molto quelle "previsioni" a un "diritto". Impostando il nuovo Piano sin dalla metà degli anni Novanta, l'amministrazione romana decise di adottare una linea prudente e responsabile, che mettesse al riparo le nuove scelte urbanistiche dai ricorsi e soprattutto dai "commissariamenti ad acta" che la magistratura amministrativa sovente aveva riconosciuto e riconosceva ai proprietari a cui veniva negato un titolo di edificazione, pur in presenza di quelle nuove circostanze a cui si è fatto prima riferimento. L'alternativa a questa impostazione finalizzata a garantire scelte urbanistiche concrete e operative, che migliorassero davvero le condizioni insediative e avviassero a soluzione i principali problemi urbanistici della città, era quella di produrre documenti sostanzialmente privi di efficacia e destinati a sparire di fronte al primo ricorso, utili solo per rappresentare una posizione politica senza alcuna dimensione di fattibilità. E ciò anche perché la legge urbanistica regionale (la Lr 38/99), allora (e ancora oggi) in vigore, era sostanzialmente una riscrittura camuffata della vecchia legge urbanistica nazionale, nella quale era stata cambiata solo la denominazione degli strumenti urbanistici senza cambiarne la sostanza giuridica, facendo finta di risolvere le questioni secondo la soluzione riformista proposta dall'Inu, che allora stava prendendo corpo nelle altre Regioni italiane, ma in realtà confermando il vecchio modello urbanistico obsoleto e inefficace.
La soluzione adottata per il Prg 2008, sostenuta dall'autorevolezza del gruppo dei consulenti (escluso il sottoscritto, naturalmente) e garantita anche dal punto di vista giuridico con un'impostazione contrapposta a quella conservatrice e massimalista è stata quella di valutare ogni previsione residua di Piano, verificandone la validità a quel momento in considerazione delle modifiche nel frattempo (dal 1965) intervenute nell'ordinamento nazionale, soprattutto per provvedimenti sovraordinati alla disciplina comunale (vincoli ambientali, paesaggistici, relativi alla difesa del suolo, ecc.). Il risultato è stato quello di ridurre le "previsioni residue" del Prg 1965 da centoventi milioni di metri cubi a circa la metà, un risultato mai neppure immaginato neppure dal più battagliero contestatore di quel Piano; una riduzione che ha riguardato non solo alcuni grandi comparti residenziali di quel Piano, ma anche le zone M2 che nella gestione urbanistica romana ("bella e perduta"?) comprendevano anche il direzionale privato, parte integrante del mercato immobiliare della città. Le "previsioni residue" rimaste, pari a circa sessanta milioni di metri cubi costituiscono dunque, insieme ai completamenti delle zone di recupero urbanistico e del II Peep, il dimensionamento del Prg 2008: circa sessantacinque milioni di metri cubi caratterizzati da un mix funzionale che riequilibrava gli usi originari prevalentemente residenziali, un dimensionamento pari al 9% del patrimonio edilizio complessivo, che caratterizza il Prg 2008 più come un piano della trasformazione e della rigenerazione che un piano dell'espansione. Anche perché il Prg 2008 prevede la realizzazione di un grande sistema ambientale di 87.800 ettari di aree tutelate a parchi naturali e rurali, pari al 68% del territorio comunale, "limite" invalicabile del sistema insediativo e garanzia di un funzionamento ecologico della città, come anche recentemente confermato dai dati contenuti nel già citato Primo Rapporto statistico sull'area metropolitana romana.
Oltre a questo consistente taglio delle "previsioni residue" il Prg 2008 mette in campo due ulteriori misure per ridurre l'impatto negativo delle stesse; la prima riguarda la riduzione generalizzata degli indici di edificabilità, l'introduzione di parametri ambientali per favorire processi di rigenerazione naturale (verde privato, permeabilità), l'aumento generalizzato degli standard urbanistici - con cessioni gratuite in tutte le aree di trasformazione pari a oltre il 40% delle superfici territoriali, molto superiori al pur elevato standard obiettivo pari a 22mq/ab -, la previsione di un mix funzionale generalizzato per evitare soluzioni monofunzionali orientate più dal mercato che dalla necessità di vivibilità delle nuove trasformazioni urbanistiche; la seconda riguarda le "compensazioni urbanistiche", cioè il trasferimento delle "previsioni residue" in aree più idonee, quando le stesse erano incompatibili con situazioni ambientali non tutelate da vincoli sovraordinati o quando erano relative a rilevanti trasformazioni urbanistiche prive di mobilità di massa, esistente o futura; un trasferimento che doveva essere compensato anche per i diversi valori immobiliari delle situazioni di partenza e di arrivo. Anche le compensazioni rappresentano la misura di una grande manovra ambientale, dato che la loro completa attuazione comporta l'ingresso nel patrimonio comunale di 1800 ettari di aree pubbliche, in corrispondenza proprio di quelle "aree irrinunciabili" la cui tutela, pur non sostanziata da alcun vincolo ambientale sovraordinato, è stata considerata appunto irrinunciabile dall'amministrazione capitolina fin dalla seconda metà degli anni Novanta. Di questa manovra complessa che il Prg 2008 avvia, cercando di garantire fattibilità e legittimità di ogni previsione, non vi è traccia nel testo di Erbani - De Lucia, quasi si trattasse di un dettaglio tecnico trascurabile o di un'operazione politica irrilevante, quando invece l'intero dimensionamento del Prg 2008, almeno nella versione presentata per l'attuazione, proviene dalle "previsioni residue", sempre più considerate "diritti" in sede giurisprudenziale. Un approccio che affronta, coraggiosamente, questioni irrisolte per l'urbanistica italiana, mai trattate a livello legislativo nazionale (e regionale), che tuttavia viene liquidato con una buona dose di informazioni inesatte o non veritiere.
Vi sono altre innovazioni che il Prg 2008 sperimenta a "legislazione invariata", cioè senza poter contare su riforme adeguate, nazionali e regionali. Cito soltanto le tre principali, al di là degli esiti che hanno avuto, per concludere poi sul tema centrale del testo di Erbani - De Lucia che ho ricordato all'inizio di queste note. La prima è la strategia per il recupero e la legalizzazione degli insediamenti abusivi che a Roma hanno raggiunto la dimensione di una grande città. Prendendo atto dell'impraticabilità di tutte le soluzioni già proposte basate su un intervento pubblico di esproprio delle aree ad uso comune e di realizzazione delle opere di urbanizzazione - un'operazione impossibile per il bilancio comunale data l'enorme dimensione del fabbisogno finanziario - la soluzione proposta è stata quella di accollare l'iniziativa e il costo delle infrastrutture e dei servizi mancanti prevalentemente a operatori privati, non affidandosi, però, alle prescrizioni di un rigido strumento regolativo ingestibile, ma a partire da "perimetri preliminari" disegnati dal Comune e allegati a un bando pubblico, recante regole chiare e generalizzate per il recupero, al fine di sollecitare l'intervento dei privati anche attraverso la presentazione di piani di recupero preliminari. In questo modo si sarebbe avviato un processo interattivo con l'amministrazione, ad esito del quale sarebbero scaturiti i piani di recupero e i perimetri definitivi dei nuclei, per poi essere recepiti nel Prg in corso di approvazione. Un approccio che ha fatto quindi ampiamente ricorso alla gestione urbanistica, sulla scorta della sperimentazione attuata dal MIT negli anni precedenti per i "programmi complessi", come peraltro avviene già in molti paesi europei. La seconda è la "cura del ferro", cioè il nuovo sistema di mobilità di massa per l'intera città finalizzato al potenziamento del trasporto collettivo e alla riduzione di quello privato, che rappresenta anche l'elemento strutturale di riorganizzazione dell'intera città metropolitana (il secondo elemento strutturale era infatti la Rete Ecologica). Un progetto che prevedeva il completamento del vecchio anello ferroviario rimasto incompiuto nel settore nord della città (il progetto relativo è stato approvato nel 2006), la realizzazione di due nuove linee di metropolitana oltre alle due esistenti (opportunamente prolungate), quattro linee di ferrovie metropolitane FM oltre alle tre esistenti, portando le dimensioni della rete ferroviaria urbana a oltre trecentoquaranta chilometri con duecentocinquanta stazioni. Si trattava di un progetto ambizioso, costruito all'interno di un orizzonte metropolitano, a partire da un Accordo di Programma stipulato nel 2000 tra Comune, Regione, Provincia e FFSS con un costo stimato in circa tredici miliardi di euro e rigettato pochi anni dopo per il disimpegno della Regione dopo il cambiamento di maggioranza politica avvenuto con le elezioni del 2003. La terza è la riorganizzazione metropolitana di Roma, basata, come già detto, sulle due reti strutturali principali, quella della mobilità di massa e quella ecologica e articolata su un sistema di diciotto "centralità urbane e metropolitane", alcune delle quali anticipate rispetto all'approvazione del Prg 2008, localizzate sui nodi della rete del ferro, luogo delle funzioni di eccellenza e dello spazio pubblico, anch'esse progettate riutilizzando le "previsioni residue" del vecchio Prg. Rispetto alla strategia metropolitana tripolare di quel piano basata sulle tre centralità principali centro storico, Eur, SDO, questa appariva come l'unica strategia policentrica adeguata per affrontare un processo di "metropolizzazione" che in poco più di trent'anni ha insediato quasi un milione di persone in più nelle aree esterne al perimetro della città degli anni Sessanta. Senza volerne capire la logica, De Lucia e Erbani trattano questa scelta in modo molto critico, al limite del ridicolo ("18 nuclei sparpagliati dentro e fuori il Gra con le più disparate destinazioni"), anche se con qualche ragione per quanto è avvenuto dopo l'adozione del Piano, con le modifiche apportate al progetto originario dalle controdeduzioni alle osservazioni e, soprattutto, dal prevalere in alcuni casi dei tradizionali interessi immobiliari, piuttosto che dell'attuazione di una strategia concreta di contrasto alla diffusione urbana indifferenziata. Naturalmente evitano di ricordare che si tratta di previsioni "riciclate" del vecchio Piano, come nel caso di Bufalotta che viene presentata come se fosse una scelta originale del Prg 2008, quando invece si tratta di una previsione del vecchio Piano (quasi tutta in zona M2) per la realizzazione di una grande struttura logistica e d'interscambio, il cui accordo di programma in variante peraltro era stato approvato fin dal 2000. Basterebbe comunque ricordare i progetti più interessanti di Acilia - Madonnetta (Studio Gregotti) o di Romanina (Manuel Salgado) per ritrovare l'impostazione originale del Prg 2008 e i tentativi di snaturarlo con banali lottizzazioni spacciati per "centralità" o quelli dell'Amministrazione Alemanno per aggiungere altri 2.300 ha di suolo agricolo alle previsioni di edificabilità del Prg, con una deliberazione fortunatamente mai approvata, così quelli finalizzati ad annullare la prescrittività della procedura del progetto urbano posta dal Prg al fine di garantire al qualità urbanistico - ambientale delle "centralità". Ma il contributo del Prg 2008 per una tutela del territorio pur nelle difficili condizioni determinate dalle "previsioni residue" va anche valutato rispetto alle successive numerose istanze di ulteriore espansione, non solo promosse della Giunta Alemanno, ma anche, più recentemente, dall'Amministrazione Marino e da quella attuale, come, per esempio, la previsione dello stadio della Roma con 900.000 metri cubi di volumetrie terziarie e residenziali, in un'area nelle golene del Tevere destinata a "verde privato".
L'ultima questione che voglio toccare riguarda il tema centrale posto dai due autori e ricordato all'inizio, vale a dire se il futuro di Roma possa essere ricercato soprattutto nel suo passato e, in particolare, nella tutela del suo grande patrimonio storico, archeologico e artistico, partendo dal "Progetto Fori" 1981-1985, definito come "la più appassionante proposta di rifondazione di Roma moderna" e dal Parco dell'Appia Antica, "la colonna vertebrale della Roma futura". Su questo tema, che occupa gli ultimi due capitoli del libro (Il tramonto del Progetto Fori e L'Appia Antica e il futuro di Roma) non ci sono particolari osservazioni al Prg 2008, nonostante quella dedicata alla "città storica", analitica, normativa e progettuale (curata da Carlo Gasparrini), rappresenti una parte importante del Prg 2008 e si configuri, senza incertezze, come il documento urbanistico più interessante, approfondito e innovativo mai prodotto per la parte storica di una città italiana. Parto solo da due osservazioni marginali dei due autori che, a proposito dell'area dei Fori, ricordano che il Prg 2008 conferma la scelta di vincolo della via dei Fori Imperiali, impedendo di fatto la realizzazione del Progetto Fori 1981-1985 e che lo stesso Piano tratta l'area interessata con "un progetto urbano dalla complicata procedura", due osservazioni che in realtà significano una condanna del disinteresse del Prg 2008 per questo progetto ritenuto cruciale. Se la prima osservazione può essere pertinente - dato che il Prg, come qualsiasi altro strumento urbanistico, non può che prendere atto di un vincolo apposto dalla Soprintendenza competente in tutta autonomia e deve solo adeguarsi allo stesso - la seconda rende evidente la lontananza dei due autori dalle problematiche di contenuto e formali dell'urbanistica contemporanea, e della necessità di un superamento reale del modello regolativo che da tempo ha dimostrato tutta la sua inefficacia. D'altronde proprio le posizioni conservatrici emerse negli ultimi vent'anni a proposito della riforma urbanistica, caratterizzate da uno sguardo sempre rivolto all'indietro e comuni a un non piccolo gruppo di urbanisti e intellettuali, hanno contribuito in modo decisivo a dividere il mondo dell'urbanistica italiana e, di fatto, hanno impedito l'approvazione non solo di una nuova legge urbanistica nazionale, dal 2001 improponibile nel nostro ordinamento costituzionale, ma anche di quella legge sui Principi generali (ritornata d'attualità dopo l'esito del referendum costituzionale del dicembre 2016) richiesta per ogni materia di responsabilità legislativa concorrente Stato-Regioni. Come, appunto, il Governo del territorio (cioè l'Urbanistica), la cui assenza ha consentito il dilagare senza regole e senza senso della legislazione regionale con le sembianze di un caricaturale "federalismo urbanistico", senza poter affrontare gli aspetti determinanti che hanno reso del tutto inefficace il nostro sistema di pianificazione: dalla decadenza quinquennale dei vincoli urbanistici alla insostenibilità del "doppio regime degli immobili"; dalla inefficacia della forma regolativa del Piano urbanistico alla necessità di superare la stessa con una nuova forma progettuale in linea con le tendenze della migliore urbanistica europea; dalla crisi dell'esproprio (l'impossibilità di una sua normale applicazione) alla conseguente necessità di una definizione giuridicamente e tecnicamente fondata di strumenti indispensabili come la perequazione o la compensazione; dalla inefficacia attuale della fiscalità locale all'incertezza dei "diritti edificatori"; ma ancora di più, dalla cronica assenza di risorse per una funzione eminentemente pubblica come l'urbanistica alla mancanza di strumenti efficaci per poter affrontare, non solo a chiacchiere, gli attuali scenari territoriali, come la riduzione del consumo di suolo e la strategia della rigenerazione urbana. Una posizione conservatrice che ha costretto chi non ha mai voluto accettare una tale situazione a una continua sperimentazione, a produrre piani che cercavano di risolvere i problemi, cercando di sfruttare le poche coperture formali disponibili per ottenere una sanzione di legittimità (come quella ottenuta nel 2010 dal Prg 2008 dal Consiglio di Stato), ma che erano comunque esposti alle contraddizioni dell'ordinamento vigente e della giurisprudenza, nonostante abbiano conseguito qualche risultato positivo; piani più che generosi, ma che alla fine hanno prodotto effetti assai meno rilevanti di quanto sarebbe stato necessario.
Nel caso in questione il "progetto urbano dalla complicata procedura" è appunto il Parco dei Fori - Appia antica, uno dei cinque Ambiti di programmazione strategica previsti dal Prg 2008 insieme al corso urbano del Tevere, l'asse Flaminio - Fori - Eur, l'ambito della Cintura ferroviaria e quello delle Mura. Cinque progetti innovativi ai quali hanno lavorato, oltre al gruppo del Piano coordinato da Gasparrini, architetti, urbanisti, storici dell'architettura, archeologi di primissimo piano come Mario Manieri Elia, Giorgio Ciucci, Paola Falini, Antonino Terranova, Andreina Ricci. In realtà, lungi dall'essere complicata l'innovazione del Prg 2008 è piuttosto semplice: sovrapposta alla tradizionale cartografia progettuale della "città storica" (tavole "Sistemi e regole" 1:5.000) che disciplina in forma conformativa quella parte di città con un sistema di regole "difensive" di un patrimonio di valori e identità storica, vi è una seconda cartografia progettuale, disegnata alla stessa scala e relativa a ciascuno dei cinque ambiti, nella quale sono segnalate le molte "risorse" territoriali presenti in ciascuno di essi, quali spazi pubblici da riusare e riqualificare, edifici da recuperare, servizi pubblici da rivitalizzare, beni culturali da valorizzare, insieme agli "obiettivi" posti dal Piano, anch'essi accuratamente segnalati nella "legenda parlata" delle tavole, che un'accurata progettazione urbanistica avrebbe dovuto adeguatamente sviluppare. Coniugando così l'esigenza di tutela con quella di una dimensione progettuale che non ne smentisse gli elementi fondamentali, ma che, al contrario, valorizzasse e vitalizzasse l'uso culturale, produttivo e sociale di quel patrimonio di valori e identità storica e portando a compimento il lungo percorso disciplinare sviluppato sin dagli anni fondativi della Carta di Gubbio dalla migliore cultura urbanistica italiana. Insomma, gli Ambiti di programmazione strategica proposti dal Prg 2008 rappresentano perfettamente il necessario cambiamento tecnico e formale dell'urbanistica, esaltandone la dimensione progettuale, mettendo in discussione, senza smentirlo, il tradizionale approccio vincolistico - regolativo e valorizzandone la dimensione multiscalare. Un cambiamento che richiede quindi anche un radicale adeguamento formale della strumentazione urbanistica che deve passare dalla tradizionale forma prescrittiva - conformativa a priori, alla forma strutturale che assume la necessaria dimensione conformativa nella fase attuativa. Su questo tema decisivo non vi è nessun riscontro nel testo di De Lucia e Erbani, né potrebbe esserci date le loro diverse posizioni culturali di fondo, ma non vi è neppure il riconoscimento che gli stessi valori da loro ritenuti indispensabili per immaginare il futuro di Roma sono in realtà trattati in modo più ampio e approfondito dallo strumento che essi hanno bollato come "il peggior Piano urbanistico della storia di Roma" e che un tema come il Progetto Fori del 1981 - 1985 è largamente superato dalla specifica proposta fatta da quel Piano, che, fra l'altro, evidenzia l'inutilità della demolizione della via dei Fori Imperiali che al momento della sua realizzazione aveva comportato l'asportazione dell'intero strato archeologico preesistente, ma anche la limitatezza del risarcimento, tutto "ideologico" che quel progetto voleva significare. L'approccio del Prg 2008 attraverso l'approfondimento progettuale (ma anche disciplinare e culturale) rappresentato dal Parco dei Fori - Appia Antica, evidenzia inoltre tutte le possibili modalità di sistemazione e successiva fruizione dell'intera area archeologica centrale, inserendo lo stesso intervento in un secondo Ambito di programmazione strategica, quello Flaminio - Fori - Eur che si interseca e integra con il precedente (per distaccarsi da Porta Capena con la direttrice dell'Appia e del relativo parco) con un percorso segnato dai più importanti interventi urbani realizzati a Roma nel corso del Novecento: il Foro Italico, l'area archeologica centrale, la via Cristoforo Colombo, l'Eur. Portando così ad evidenza la vera "colonna vertebrale" per la città futura che invece i due autori vedono rappresentata solo dal Parco dei Fori e da quello dell'Appia Antica, con il solito sguardo rivolto al passato. D'altra parte la validità e la ricchezza di questo approccio è stata ampiamente confermata dall'ultimo atto di rilevanza istituzionale che ha interessato l'Area archeologica centrale: i lavori del Tavolo interistituzionale Mibact - Comune di Roma del 2014 per definire le Linee di un Piano strategico per la stessa area, che sanciscono un definitivo superamento del Progetto Fori 1981-1985 e un indirizzo a considerare tale area un luogo della città da vivere e fruire e non un recinto o, peggio, uno scavo a cielo aperto avulso dalla città e lontano dai suoi cittadini, così come prendono atto come l'asse di Via dei Fori faccia ormai parte delle stratificazioni che contraddistinguono la città storica.
Questo commento a Roma disfatta di De Lucia - Erbani mi è servito, soprattutto, per una difesa non d'ufficio al Prg 2008 che merita senza dubbio una valutazione più oggettiva e meditata di quella superficiale e sbrigativa contenuta in quel testo; ma mi è servito anche per sollecitare una riflessione ormai da tempo clamorosamente assente sullo stato di crisi dell'urbanistica italiana, che sembra davvero irreversibile senza una riforma reale dell'attuale ordinamento e degli strumenti necessari per garantire un efficace governo del territorio, di una rinnovata capacità di programmazione a medio-lungo termine per la sicurezza del territorio, l'adeguamento energetico e antisismico del patrimonio edilizio, la strategia complementare dello stop al consumo di suolo e della rigenerazione urbana, il cambiamento del modello di mobilità a livello urbano e territoriale; tutte problematiche ben conosciute a livello tecnico-scientifico e dello stesso fabbisogno finanziario necessario, ma che vengono in realtà affrontate con provvedimenti limitati e casuali a prezzo di "riparazioni" costosissime. Voglio però concludere con due note autocritiche sull'esperienza del Prg 2008, nonostante consideri quel Piano il più completo tentativo di innovazione urbanistica in un contesto riformista; naturalmente, mi riferisco alla versione del Piano adottata nel 2003 sotto la responsabilità di noi consulenti, del Direttore del Piano e dell'Assessore competente, prima cioè che un progressivo processo di inquinamento e di variazione arbitraria ne snaturasse l'impostazione originaria. La prima nota autocritica riguarda proprio l'impostazione riformista del Piano e la grande illusione insita in essa di poter elaborare uno strumento realmente efficace in una situazione a "legislazione invariata", lavorando cioè con una sperimentazione totalmente innovativa nelle maglie ristrette del vecchio ordinamento e dei condizionamenti di un regime immobiliare solo scalfito dal tentativo di ridistribuzione sociale della rendita; un tentativo, per di più, condotto in un contesto regionale "conservatore" (anche se, a parole, di estrema sinistra), che rifiutava ogni ipotesi di riforma. La seconda nota autocritica riguarda l'aver troppo confidato nella direzione politica e anche in quella tecnica, del Comune. Al di là del contributo positivo di alcuni amministratori, tra i quali i due assessori che hanno seguito il Piano (Cecchini e Morassut) e di quello fondamentale di alcuni funzionari pubblici tra i quali certamente i due direttori che si sono avvicendati (Marcelloni e Modigliani), la struttura tecnica interna al Comune era ancora del tutto condizionata (e tale è rimasta) dalla cultura del Prg in generale e di quello del 1965 in particolare, per accettare il nuovo modello e assumere responsabilità alternative rispetto allo stesso, mentre la componente politica si è dimostrata inaffidabile e incapace di comprendere ragioni e scelte del cambiamento, adeguandosi, soprattutto nelle fasi finali, alle normali e insopportabili modalità di gestione dell'urbanistica italiana.
Federico Oliva
* Il Prg di Roma nella versione adottata nel 2003 è pubblicato nel n. 116/2001 di "Urbanistica" curato da Laura Ricci. L'intera esperienza del piano è ricostruita in: Maurizio Marcelloni, Pensare la città contemporanea, Laterza, Roma 2003.
N.d.C. - Federico Oliva, già professore ordinario di Urbanistica presso la Facoltà di Architettura e Società del Politecnico di Milano e presidente del corso di Laurea specialistica in Pianificazione urbana e Politiche territoriali, è stato presidente dell'Istituto Nazionale di Urbanistica e attualmente ne dirige il periodico più importante: "Urbanistica". È autore di piani urbanistici - tra cui, per citarne alcuni, quelli territoriali e di coordinamento delle province di Pesaro e Urbino, Perugia, Forlì-Cesena e Piacenza e quelli generali comunali di Pavia, Ancona, Reggio Emilia, Roma, Piacenza, La Spezia, Ivrea e Cuneo -, di diversi libri - come, per esempio, Cinquant'anni urbanistica in Italia 1942 - 1992 (Laterza, 1993); La riforma urbanistica in Italia (Pirola - Il Sole 24 ore, 1996), Progettazione urbanistica. Materiali e riferimenti per la costruzione del piano (Maggioli, 2002); L'urbanistica di Milano. Quel che resta dei piani urbanistici nella crescita e nella trasformazione della città (Hoepli, 2002) - e di numerosi articoli e saggi.
Sul libro oggetto di questo contributo - Vezio De Lucia, Francesco Erbani, Roma disfatta. Perché la capitale non è più una città e cosa fare per ridarle una dimensiona pubblica (Castelvecchi, Roma 2016) - Città Bene Comune ha pubblicato: Sergio Brenna, Roma, ennesimo caso di fallimento urbanistico, 10 marzo 2017.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
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