SCRIVERE ECO, UMBERTO

Esistono tanti Umberto Eco. Tanti poiché tante sono state le sue attività e le sue stagioni. Tanti poiché tanti sono i percorsi e le passioni dei suoi lettori. Let me collect myself e riscriverlo attraverso due brevi testi a lui dedicati dall’angolo visuale di uno studioso dei nuovi media. Il primo è la voce “Eco, Umberto” scritta per i volumi sull’informatica e sulla cultura digitale dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani. Il secondo – inedito – scritto per la rubrica Non solo cyber de L’Espresso in seguito ad alcune sue bustine di Minerva. Insieme alla redazione concordammo poi di non pubblicarlo.

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(Alessandria 1932) semiologo e romanziere. Dall’estetica medievale, Eco è passato ad analizzare i prodotti delle avanguardie artistiche e della cultura di massa. Un’analisi a cui si devono concetti che hanno avuto ampio riscontro nello studio dei media. Ancora oggi per descrivere le reazioni all’emergere di nuovi scenari culturali usiamo la distinzione tra apocalittici e integrati: per i primi la cultura di massa è l’anticultura, il “segno di una caduta irrecuperabile, di fronte alla quale l’uomo di cultura non può che dare una estrema testimonianza in termini di Apocalisse”, per i secondi essa “rende amabile e leggero l’assorbimento delle nozioni e la ricezione di informazioni, in un’epoca di allargamento dell’area culturale”(U. ECO, Apocalittici e integrati, Milano 1964, p. 4). Per almeno due decenni si poi è usata la distinzione tra paleo e neotelevisione con la prima che parlava o faceva finta di parlare del “mondo esterno” e la seconda che “parla di se stessa e del contatto che sta stabilendo col proprio pubblico. Non importa cosa dica o di cosa parli” (U. ECO, “Tv: la trasparenza perduta”, 1983, p. 163). Nel tempo della digitalizzazione delle forme espressive, e in particolare dell’ipertesto (>), è necessario più che mai confrontarsi con il fatto che ogni opera d’arte è sostanzialmente aperta a “una germinazione continua di relazioni interne che il fruitore deve scoprire e scegliere” (U. ECO, Opera aperta, Milano 1962, p. 60).

Ma l’impegno teorico principale di Eco è stato la delineazione di una semiotica generale come analisi di ogni forma di comunicazione (Trattato di semiotica generale, 1975) e la successiva identificazione del significato con una rete di rinvii. E da questo impegno viene fuori l’immagine chiave del pensiero di Eco; un’immagine di una certa utilità anche per descrivere lo spazio dei flussi telematici: l’enciclopedia. “Tutte le interpretazioni sono registrate, poste intersoggettivamente in qualche testo di quella immensa e ideale biblioteca il cui modello teorico è l’enciclopedia. […] Essa è l’insieme registrato di tutte le interpretazioni, concepibile oggettivamente come la libreria delle librerie, dove una libreria è anche un archivio di tutta l’informazione non verbale in qualche modo registrata, dalle pitture rupestri alle cineteche” (U. ECO, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino 1984, p. 109). È la grande biblioteca del romanzo di successo Il nome della rosa (1980). Ma questa stessa immagine segna anche il limite della comprensione di Eco del nuovo scenario culturale segnato dalle reti digitali e reticolari. Un limite che traspare anche dai continui distinguo di Eco riguardo alle forme espressive digitali e dalla sua difesa della tecnologia libro (Non sperate di liberarvi dei libri, Milano, 2011). Un limite che è quello proprio a un uomo di lettere, un homo tipographicus rispetto a fenomeni che vanno ben oltre la linearità delle lettere, che poco hanno a che fare con la cultura libresca.

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Umberto Eco è intervenuto su queste pagine per stigmatizzare «i talebani del web» che, considerando la Rete come un mondo di sogni, un paese delle meraviglie, un paradiso virtuale, cosa dunque sacra e intoccabile, lo hanno accusato di essere apocalittico, luddista, misoneista per aver osato avanzare dubbi sulla marea di informazioni che ci sommerge tramite la Rete e rischia di soffocarci con inesattezze e bufale. Credo che l’obiettivo polemico di Eco sia ben individuato: nessun propugnatore di magnifiche sorti e progressive aiuta affatto le nostre sorti, soprattutto quelle legate alle nostre tecnologie (questo per ingenuità o per malafede).

Ho però avuto l’impressione che la critica del web avanzata da Eco muovesse da un assetto di pensiero pre-digitale, cioè non fosse all’altezza del compito assegnato: l’impressione di un uomo di lettere che critica qualcosa che va ben oltre la linearità delle lettere. Quasi come se dopo il Cinquecento si fosse continuata a criticare la politica sulla base della morale ancora cattolica o dopo il Seicento la ricerca scientifica sulla base dell’alchimia o dell’astrologia di Ermete Trismegisto. Una china, quella di adattare i fenomeni alle proprie categorie, che può addirittura portare a condannare la Rete «per intuito» e non sulla base di un confronto con la cultura digitale, la cui conoscenza «io non ho fatto e che, prometto, non farò mai», così Mario Tronti. Eco invece ha mostrato nel passato aperture importanti ai fenomeni emergenti. Siamo sicuri che saprà, anche a proposito della Rete, criticarla iuxta propria principia e cogliere in essa una pluralizzazione dei centri di storia che giova proprio allo sviluppo della capacità di sospetto.

VOTARE È ANCORA UTILE?

In un recente volume, David Van Reybrouck sostiene che “votare non è più democratico”. Ossia che il vero problema delle democrazie rappresentative attuali è il “fondamentalismo elettorale”, la centralità asserita ma non più funzionante della partecipazione politica tramite il suffragio elettorale.

La crescita dell’astensionismo in alcuni paesi democratici (tra cui l’Italia), le contaminazioni mediatiche delle campagne elettorali (postdemocratiche), la maggiore disponibilità di forme alternative di partecipazione legate ai nuovi media, paiono tutti elementi che rafforzano la provocatoria tesi di Van Reybrouck.

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Rispetto a questo quadro di analisi, alcuni fatti accaduti negli ultimi giorni sono pertinenti e interessanti. La vittoria nelle elezioni parlamentari dell’opposizione in Venezuela, un paese considerato autoritario dopo l’ascesa al potere di Chavez. Una vittoria che ha permesso un cambio di fase (di regime?) abbastanza pacifico. Il diritto di elettorato attivo e passivo delle donne nella monarchica Arabia Saudita (il suffragio universale non è ancora un diritto ovunque, sebbene lo sia dia ormai per scontato). L’aumento della partecipazione elettorale tra primo e secondo turno nelle elezioni regionali in Francia, che ha impedito al Front national di conquistare un qualche governo locale. Insomma, trattasi di fatti che paiono ribadire che votare serve ancora e che il diritto al voto non è un’anticaglia del passato: a volte, anzi, trattasi di qualcosa che va ancora conquistato.

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Fatti che smentiscono la tesi di Van Reybrouck e relativizzano quegli elementi che la rafforzano? Forse non si tratta di questo. E bisogna davvero riconoscere che la democrazia rappresentativa basata sulle elezioni presenta al momento dei problemi di tenuta. Riconosciuto questo, però, non bisognerebbe semplificare il quadro di analisi e limitarsi a dichiarare una sorta di “morte del voto”. Semmai arricchirlo e considerare la complessità delle vicende che stanno trasformando le nostre democrazie.

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LA SINISTRA TRA MEDIA E LEADER

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Una breve aggiunta alla vexata qaestio del rapporto tra sinistra e media. Attualmente, ho l’impressione che si possa descrivere la cultura di sinistra come caratterizzata da una sorta di oscillazione tra due poli contrapposti. E ciò succeda tanto nella dimensione della riflessione teorica quanto in quella della pratica politica ovvero nell’intreccio di queste due dimensioni. Da un lato, si rintraccia un elogio (a volte davvero incondizionato) del tempo nuovo, segnato dalla velocità: velocità di consultazione e di decisione di cui i nuovi media digitali forniscono il paradigma sino ad essere esaltati come panacea delle disfunzioni dei meccanismi politici tradizionali. Dall’altro, si rintraccia una denuncia (a volte una sentenza) di una esiziale deriva populista o più in generale post-democratica di cui la leaderizzazione dei partiti rappresenta la punta più visibile e a cui i media della disintermediazione forniscono un indispensabile supporto. Entrambe le posizioni scontano una focalizzazione eccessiva su un singolo aspetto dello scenario presente (la velocità degli scambi orizzontali, la verticalizzazione del rapporto capo-pubblico) che viene di conseguenza assolutizzato. In altri termini, si oscilla tra utopie (e qui il pensiero unico dimostra la sua forza ideologica) e distopie (tanto fosche quanto per nulla scontate) senza farsi adeguatamente carico delle ambivalenze del presente. Queste ambivalenze non sono, però, altro che segno della contingenza di ogni situazione politica ovvero della pluralità di scenari possibili che ne possono scaturire. Scenari che i media contribuiscono a plasmare tanto quanto ne sono, a loro volta, plasmati.

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UNO SGUARDO DI SBIECO SUL TERRORE

(recensione a Paura reverenza terrore di Carlo Ginzburg)

Dal crollo – ancora vivido nei nostri occhi – delle Torri gemelle a New York agli attentati recenti nei luoghi del loisir di Parigi, passando per le torture nel carcere di Abu Ghraib e le decapitazioni sceneggiate dall’Isis, da anni siamo sommersi da immagini forti che incutono terrore. Ma proprio a questo riguardo, Carlo Ginzburg nel suo ultimo libro Paura reverenza terrore (Adelphi, Milano, 2015, pp. 311) invita a tentare di “sottrarsi al rumore, al rumore incessante delle notizie che ci arrivano da ogni parte. Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Oppure, ricorrendo a una metafora diversa: dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, come se lo vedessimo attraverso un cannocchiale rovesciato. Alla fine l’attualità emergerà di nuovo, ma in un contesto diverso, inaspettato”.

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Da storico attento alle rivelazioni contenute nei frammenti, Ginzburg analizza cinque immagini dense di storia: le decorazioni su una coppa d’argento dorato, fatta ad Anversa e databile al 1530 circa; il frontespizio del Leviatano di Thomas Hobbes; il quadro di Jacques-Louis David, Marat all’ultimo respiro; il manifesto Britons. Join Your Country’s Army! con il volto di lord Kitchener; infine, il celebre murale Guernica di Pablo Picasso. Dettagli visivi della Storia che guardati di sbieco rivelano quelli che sono stati i fili che hanno intessuto la modernità occidentale.

Questi saggi di iconografia politica scavano le immagini per rintracciarne le sedimentazioni accumulate. In particolare, trattandosi di emozioni estreme, Ginzburg riprende come strumento di analisi il concetto di Pathosformeln elaborato da Aby Warburg: il Rinascimento ha recuperato dall’antichità greco-romana modelli visivi per esprimere una gestualità patetica intensificata. Rinvenire questi modelli, intrecciando diagrammi e giustapposizioni formali, genealogie e morfologie, permette di portare alla luce le radici classiche di immagini moderne e il modo in cui quelle radici sono state rielaborate e sono servite per interpretare i problemi della modernità.

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Nel frontespizio del Leviatano, l’incisore Abraham Bosse, su indicazione di Hobbes, inserì a destra di chi guarda piccole figure di due medici della peste con la caratteristica maschera a becco ritenuta necessaria a proteggere dal morbo. Un dettaglio rivelatore però di un’influenza decisiva per la strutturazione dell’intero pensiero politico di Hobbes: la lettura di Tucidide che, descrivendo la peste che colpì Atene nel 429 a.C., segnalò come “la paura degli dèi e le leggi umane non rappresenta[ssero] più un freno” agli istinti elementari dei cittadini e come ciò portasse alla distruzione della comunità. Si dà il fatto che Hobbes fosse stato un traduttore di Tucidide e avesse reso il passo con neither the fear of the gods, nor laws of men awed any man (né il timore degli dei né le leggi degli uomini incutevano più soggezione). Nel Leviatano, awe è ciò che origina sia la religione sia, e soprattutto, lo Stato. La paura degli dèi di Tucidide, per il traduttore Hobbes, rimanda al biblico timor di Dio che, a sua volta, traduce l’ebraico yir’ah, reso in italiano con reverenza. Reverenza che deriva dal latino vereor cioè temere. La vera traduzione di awe potrebbe essere dunque terrore, come Hobbes stesso suggerisce essendo il Leviatano “in grado di usare a tal punto il potere e la forza che gli sono stati conferiti, da piegare con il terrore la volontà di tutti” coloro che lo costruiscono e lo guardano con soggezione e reverenza, come la miriadi di uomini fanno nell’immagine del frontespizio.

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In questo nodo tra teologia e politica, tra pastorale e spada, si rivela la contraddittorietà della secolarizzazione che “non si contrappone alla religione: ne invade il campo. Le reazioni alla secolarizzazione che si manifestano sotto i nostri occhi si spiegano (ho detto spiegano, non giustificano) alla luce di questa usurpazione”. E ancora: “viviamo in un mondo in cui gli Stati minacciano terrore, lo esercitano, talvolta lo subiscono. È il mondo di chi cerca di impadronirsi delle armi, venerabili e potenti, della religione, e di chi brandisce la religione come un’arma. Un mondo in cui giganteschi Leviatani si divincolano convulsamente o stanno acquattati aspettando. Un mondo simile a quello pensato e indagato da Hobbes”. E forse le cose sono ancora più complicate, forse invece del Leviatano bisognerebbe riferirsi all’Idra dalle tante teste per cogliere lo scontro tra la paura organizzata nell’entità statale e le tante paure scatenate nel nostro mondo multicentrico e turbolento.

Indispensabile è dunque scavare le immagini del presente, decifrarle per tentare di comprenderlo. Perché come insegnava Tacito fingunt simul creduntque, credono in ciò che hanno appena immaginato ovvero: siamo soggiogati da visioni di cui noi stessi siamo gli autori. Conviene dunque non esserne autori inavvertiti e affrontare il piano delle emozioni di massa in cui si spandono le paure e le immagini di terrore dei nostri giorni.

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DUBAI E GLI SCARTI DI UNA CITTÀ BRILLANTE

Dubai non è certamente una città che ci dice da dove veniamo. È, invece, sicuramente una città che ci dice dove andiamo. E lo dice con lucidità perché è una città brillante. Una brillantezza non trasmessa dal mare trasparente e amniotico che ne ha segnato la storia come porto franco nelle rotte dei commerci verso il lontano Oriente o come risorsa per pescatori di perle. Una brillantezza non dovuta neppure a quel particolare labirinto borgesiano che circonda la città e la cinge: la sabbia levigata del deserto è indubbiamente abbagliante per i viaggiatori occidentali ma non ha la compattezza dello specchio che induce riflessione. Né il deserto né il mare spiegano (almeno non del tutto) la particolare brillantezza che caratterizza Dubai. Qualcos’altro ne segna irrimediabilmente il profilo e la superficie. Qualcosa che non si può definire bellezza naturale. Qualcosa in tutto e per tutto legato al lavorio dell’uomo, al suo voler e saper costruire una seconda natura in cui immergersi e abitare quotidianamente. Qualcosa che fonde i materiali edilizi per eccellenza degli ultimi secoli: il cemento, l’acciaio e il vetro. Qualcosa che si erge potente a riformulare la piattezza di un paesaggio segnato, ancora nella seconda metà del secolo scorso, solo dal mare e dal deserto. La brillantezza è dovuta a quelle sfide al cielo che sono i grattacieli con le loro superfici levigate e splendenti. E poiché l’umidità che viene dal mare e la sabbia che viene dal deserto impediscono un sole accecante, la luce che emana da Dubai è come interiore agli enormi edifici che si ergono in ogni zona della città, da quelli che costeggiano la parte più interna del Dubai Creek a quelli di Jumeirah, da quelli lungo la Sheikh Zayed Road agli eleganti alberghi di Dubai Marina.

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La forza dei grattacieli di Dubai si esprime non solo nel costruito, in ciò che ormai è consolidato negli immaginari globali come il Burj al-Arab (l’hotel a sette stelle conosciuto come “la vela”) o il Burj Khalifa (il grattacielo più alto al mondo con i suoi 828 metri, sulle cui lucenti superfici Tom Cruise svolge la sua mission impossible), bensì anche nei moltissimi cantieri aperti in ogni dove, con le gru pronte a sollevare sempre nuove cattedrali di fronte al deserto in quello che è il più grande esperimento di urbanistica offshore del mondo. Cantieri che si fermano giusto poche ore al giorno quando la temperatura raggiunge le sue punte massime arrivando anche a cinquanta gradi. Cantieri che mostrano un ventre della città palpitante anche al calar del sole, davvero come se fossero ulteriori zone di movida notturna.

Lo sviluppo ininterrotto di Dubai è dovuto a tre vettori che si sono saldati: il petrolio e il gas certamente (anche se quello di Dubai è il meno esteso degli Emirati Arabi Uniti), il turismo cosmopolita e anche in transito verso l’estremo Oriente, la finanza globale che qui apre succursali e fa affari con gli sceicchi. Un quarto vettore, più recente ma assai promettente, è rappresentato dalle tecnologie di comunicazione con la costruzione di Dubai Media e Internet City dove i grandi big – dalla Microsoft alla Apple – hanno ormai loro importanti sedi. Petrolio, turismo, finanza e tecnologia: vettori che nei grattacieli trovano l’espressione plastica della loro potenza. Tutto ciò rende Dubai una città lucida, addirittura brillante. Una delle città globali del turbo capitalismo, che ha subito una frenata negli ultimi anni ma che ha già ripreso la corsa.

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Questa brillantezza di Dubai, espressa verticalmente dai suoi grattacieli, non è però immune da polarità, da increspature che, da un lato, mostrano con ancora maggior vigore la condensazione del potere globale, dall’altro, ne rivelano gli irriducibili scarti. Gli sceicchi di Dubai hanno saputo realizzare un controllo profondo sulla natura ricalcando il modello presentato nel film Salmon fishing in Yemen di Lasse Hallstöm, nel quale uno sceicco yemenita pretende di portare i salmoni nella sua terra. A Dubai sono riusciti invece a portare una pista da sci nel cuore del deserto. Nell’Emirates Mall, infatti, si può risalire con la seggiovia a quattro posti nelle stazioni in cima a quella che è una delle piste indoor più alte del mondo e fare lo slalom sulla “vera” neve caduta nel corso della notte. La neve nel deserto è emblema della capacità di costruire una seconda natura, di porre una troppo umana “sfida luciferina alla Natura” così come della possibilità di tenere insieme gli opposti e proporne una lucida sintesi.

Una sintesi che non viene messa in discussione neppure dai souq e dalle dimore delle zone storiche come Deira e Bastakiya. Infatti, se ritmi, colori, odori, suoni e materiali possono rinviare alle tradizionali città arabe, il tutto è confezionato e servito con attenzione postmoderna ai dettagli. Così le poche torri del vento delle case tradizionali sono restaurate o ricostruite con precisione. Nulla rimanda alle crepe del tempo trascorso. Nulla può passare per rovina piranesiana. Così i souq, dove pure si svolge un’intensa attività di contrattazione su beni di ogni tipo appena scaricati dai variopinti dhow, sono inquadrati da bei portici e inseriti in ben curate infrastrutture frutto del premuroso intervento dei governanti. Nulla è lasciato al caso, all’imprevisto. Neppure lasciando le strade principali e avventurandosi in stradine secondarie si sfugge al capitale globale: gli salesman, che acchiappano al volo i clienti per condurli nei loro bugigattoli abusivi, mostrano e cercano di vendere abiti o orologi che non sono altro che imitazioni più o meno perfette di quei marchi globali che si ritrovano nei tanti centri commerciali in cui si vive a Dubai e che rappresentano infatti la location principale in cui si svolge la vita pubblica delle donne arabe raccontate nel romanzo più venduto in città, Desperate in Dubai della blogger conosciuta con lo pseudonimo Ameera Al Hakawati. Insomma, the show must go on, sotto le volute degli shopping mall o sotto forma di contraffazione e vendita abusiva. Il logo vince sempre.

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O quasi. Perché la brillantezza di Dubai, che riesce a costruire persino poli dialettici per poter poi presentare sintesi più complete e avvincenti, non riesce a emanare dagli occhi dei filippini, degli indiani, dei pachistani, degli africani che si incontrano nei ristoranti, nei taxi, nei souq o che si vedono da lontano nei cantieri dei prossimi giganti di vetro e acciaio. Quando si parla con costoro e si viene a sapere che lavorano dodici ore al giorno a un euro all’ora (o anche meno), quella brillantezza si offusca. Quando il taxista, nonostante lavori dalle 5 del mattino per dodici-quattordici ore consecutive, fa notare la sua condizione fortunata rispetto agli operai dei cantieri che sono costretti a lavorare all’aperto e cioè dentro il forno acceso dalle condizioni climatiche di Dubai, ci si rende conto che quelle superfici brillanti nascondono delle ombre profonde. Che la sintesi non è perfetta e anzi la società rimane letteralmente scissa in universi paralleli: gli sceicchi sempre con l’aria condizionata e gli schiavi sempre al caldo asfissiante. Ecco su queste vite di scarto si infrange quella luce che viene fuori mirabilmente dall‘hybris dell’uomo postmoderno. E qui dove il regno è dinastico e la democrazia non esiste, ci si ricorda che a fare la differenza è una dimensione politica che rappresenta ancora la speranza di riconoscere quelle che nella brillante Dubai appaiono purtroppo irrimediabili e irredimibili vite di scarto.

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Tre testi interessanti su Dubai:
Petti, Alessandro, “La città dei Morti al Cairo vs The World a Dubai”, Gomorra. Territori e culture della metropoli, n. 10 (Mediterranei), maggio 2006, pp. 114-120.
Sedda, Franciscu, “Esplorando Dubai. Appunti semiotici su una città in divenire”, in Marrone, Gianfranco e Pezzini, Isabella (a cura di), Linguaggi della città. Senso e metropoli II: modelli e proposte d’analisi, Meltemi, Roma, 2008, pp. 245-264.
Siti, Walter, Il canto del diavolo, Bur-Rizzoli, Milano, 2009.