Un elemento di continuità nella storia del femminismo è stato il rivendicare il diritto di decidere del proprio corpo.
Anche la PMA (Procreazione medicalmente assistita) e le battaglie per la sua liberalizzazione hanno sempre avuto questo diritto sullo sfondo. La tecno-medicina, dal canto suo, ha permesso, per quanto poteva, di realizzarlo: dall’aborto al diritto al bambino in caso di sterilità. Sembrerebbe perciò che le donne e la tecno-medicina siano alleate.
La questione è complessa e piena di ambiguità. Qui mi limito ad esaminare il caso dell’utero in affitto ( o GPA, gestazione per altri), che non è però il più esemplare perché l’intervento medico è ridotto al minimo, l’inseminazione, ma che è stato reso attuale dal rimbalzo mediatico. La polemica sul diritto delle donne a gestire il proprio corpo riproduttivo, a un po’ di tempo in latenza, è scoppiata di nuovo.
In un precedente articolo (Un bambino viene venduto) ho sostenuto che un bambino non può essere fabbricato per essere venduto, o ceduto; che un neonato non può entrare nel mercato come una merce qualsiasi, che non è disponibile per questo.
Questa posizione non nasce da un’emozione, non è un parere o un punto di vista personale o di donna; o almeno non è solo questo.
Sono psicoanalista e faccio riferimento a un’etica che è sottesa al mio mestiere. Quest’etica fa riferimento a delle leggi che non sono solo le leggi scritte, della polis, dello stato. L’etica della psicoanalisi è quella di Antigone piuttosto che quella di Creonte. Antigone rimprovera al tiranno di non rispettare le “leggi non scritte” degli dei impedendole di dare sepoltura a suo fratello dentro le mura della città. Creonte è un politico, sa che, se tiene al potere, il cadavere di Polinice, suo avversario, va tenuto fuori dalle mura. Antigone si appella invece a un’etica che si trasmette con la parola e si sedimenta nel discorso, che vale per gli umani ma è dettata dagli dei.
La stessa etica si applica al piccolo d’uomo che viene messo al mondo, che è fuori scambio e fuori mercato perché è umano. Non è proprietà della madre né oggetto del suo arbitrio anche se la legge glielo consente.
Mi ha sempre colpito il “mater semper certa” che regola la filiazione lato madre nel diritto romano. Afferma che tra la madre e il bambino c’è un legame di sangue certo, che il loro rapporto non si nutre solo d’immaginario e fantasticherie reciproche e anche che non è solo simbolico, come nel caso della paternità. La paternità è sempre adottiva, simbolica: è il gesto di Ettore che solleva al cielo Astianatte e lo riconosce come figlio, ma nessuna evidenza lo designa padre.
Tra madre e figlio invece il rapporto é enigmatico, impastato di reale, segnato da un’esperienza per molti versi oscura ( la gravidanza) che ha qualcosa di estraneo, anche per le donne stesse.
Il latino mater semper certa sottolinea la certezza ma vela lo statuto del rapporto madre-bambino: ambiguo, di due esseri e di due corpi che hanno tra loro confini incerti e che si definiscono progressivamente mano a mano che il bambino cresce e si “umanizza”. All’inizio, quando il bambino è ancora nel ventre della madre o quando ne è appena uscito, quando è infans, il confine è indistinto e uno dei due è del tutto inerme. La gravidanza significa fare l’esperienza di un corpo abitato da una presenza familiare e al tempo stesso inquietante, da qualcosa che cresce dentro, un corpo nel corpo.
Una donna diventa madre una volta che vede il suo bambino, che lo cura e gli insegna a parlare. Prima le è familiare e estraneo al tempo stesso e anche per lei la gravidanza è enigmatica. Essere donne non rende più sapienti sul mistero di una nuova vita.
Tanto è vero che molte patologie possono accompagnarsi alla nascita: la depressione post parto o le tante difficoltà che s’incontrano nello stabilire una relazione con il bambino. Accanto a quelle delle madri ci sono le patologie del bambino: lattanti anoressici, ad esempio, che rifiutano qualsiasi nutrimento. Quanti ex bambini riceviamo che non sono stati ben accolti dalle madri, non riconosciuti e che vengono in analisi per questo? Essere riconosciuti da parte delle madri è essenziale alla vita.
La maternità non è un processo naturale. Proprio perché è implicato il corpo, perché per il bambino il corpo della madre è in una certa misura anche il proprio e viceversa. Il lattante considera le mammelle roba sua e fa fatica a cederle tale è il godimento che gli procurano. Lo sanno bene i pediatri che sostengono l’allattamento “su richiesta” o che conoscono le difficoltà dello svezzamento. I bambini, fatta eccezione per i casi di rifiuto patologico, non intendono separarsi dal seno materno.
Come legiferare allora su questi corpi legati da un vincolo che va progressivamente sciolto ma che all’inizio è così complesso e vitale?
Lo statuto del feto è uno statuto ” a metà”, il feto è solo a metà umano, dice un grande psicoanalista infantile come Winnicott; esso si colloca tra il “reale” della sua appartenenza al corpo materno e il simbolico della sua appartenenza al sociale, alla comunità. E’ a causa di questo suo essere “a metà”, solo a metà umano, che è possibile discutere una legge – peraltro già applicata in molti paesi, fra i quali gli Stati Uniti- che delibera la “disponibilità” di una vita in formazione.
La madre ha il diritto di “cedere” il bambino come suo prodotto?
Che diritti ha una donna su di lui? Può cederlo (o venderlo) come si cede un rene, come se fosse del materiale biologico? Anche se fosse equiparabile a un pezzo del suo corpo, sarebbe indisponibile per il mercato così come non è vendibile un rene.
In che senso possiamo interrogarci allora sul diritto delle donne a cedere il bambino? A cederlo per denaro, sia chiaro, perché solo una madre, una sorella o un loro equivalente potrebbero affrontare i rischi di una gravidanza e di un parto per pura generosità. I casi si conterebbero sulla punta delle dita e non sarebbe necessaria una legge per disciplinarli.
Perché allora alcune donne (una minoranza) esitano ad affermare che un neonato è indisponibile come merce e che la sua nascita non può essere oggetto di un contratto?
Credo che questa reticenza sia dovuta al timore che vietare alle donne di decidere del bambino che hanno partorito possa rischiare di mettere in causa diritti prima conquistati, in primis l’aborto.
E’ proprio questo il punto da rilevare: un bambino che nasce non può essere paragonato a un embrione abortito. L’equivalenza è solo immaginaria. Sostenere l’indisponibilità del corpo del bambino, un corpo già umano e abitato dal linguaggio- è provato che il feto reagisca al linguaggio anche nel corpo della madre, che ne percepisca gli umori, che distingua i suoni gravi della voce maschile e quelli acuti femminili- non ha niente a che vedere col vietare l’aborto di un embrione.
Un neonato non è di proprietà, non è un pezzo di corpo, anche è stato fabbricato dentro un corpo di donna. Una madre deve cedere il suo bambino, certo, ma non per venderlo; deve cederlo, progressivamente, alla comunità, al sociale cui è destinato perché diventi uomo o donna.
Nel diritto e nella tradizione i bambini sono sempre stati affidati alle madri, non perché ne facessero quello che volevano ma perché li iniziassero a entrare nel mondo: a leggere i significanti del discorso e della lingua in cui erano nati e a trovarvi posto. Affidati alle madri perché loro sono custodi di un ordine cui i bambini vanno introdotti. In tutte le culture, l’educazione dei bambini è affidata alle donne: madri, educatrici, maestre.
E’ una fatica, un piacere e un’enorme responsabilità.
Le donne sono responsabili e portatrici di ciò che consideriamo umano e questo non sempre coincide con le leggi dello Stato. Direi che la maggior parte delle donne sostiene la legge di Antigone, non quella di Creonte.
Le donne, insegnando ai bambini come vivere socialmente, come parlare, come leggere il mondo, hanno un grande compito: sostenere un simbolico che oggi è traballante, un sociale corroso, ma in cui vale ancora il fatto che gli esseri umani, anche se piccoli e inermi, non può essere oggetto di scambio e di mercato. Nelle Leggi non scritte, nelle umane leggi di Antigone, è giusto dare sepoltura a un fratello morto, tanto quanto è illegittimo cedere, o vendere, un neonato.