PROCREAZIONE 2017

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Dopo aver letto il bell’articolo di Silvia Vegetti “I figli del futuro” pubblicato su questo sito e pronunciato in occasione del 71° compleanno della Casa della cultura, ho ritenuto che il suo discorso andasse rilanciato e commentato. Sul tema: sessualità/ procreazione/tecnologie della riproduzione dovrebbe infatti riaccendersi il dibattito, come era successo a cavallo del Duemila, quando all’interno del movimento delle donne la questione era viva anche se non quanto, secondo me, sarebbe stato necessario. Il tempo trascorso tra la conquista del diritto all’aborto e l’uso e abuso delle tecniche mediche di procreazione (non dimentichiamo che in Italia, seppure paese cattolico, tutto era consentito, dalla semplice inseminazione omologa all’impianto di embrioni in donne sessantenni) era stato relativamente breve; la conquista del diritto all’aborto era troppo recente e non poteva essere messa in pericolo da distinguo che sembravano troppo sottili (ad esempio dicendo “no” alle tecniche di PMA – Procreazione medicalmente assistita- e si, invece, all’interruzione di gravidanza). Non attaccare la PMA era una cautela politica. D’altra parte le donne erano travolte dalle promesse di una medicina che sembrava avere il potere di esaudire ogni desiderio di maternità. La maternità negata a una donna, quando la desidera o la domanda (per brevità non faccio qui distinguo tra la domanda e desiderio, pure necessari e per i quali rimando al mio libro A ognuno il suo bambino. Infertilità, psicanalisi e medicina della procreazione, Pratiche Saggiatore Milano 2000) può risultare una cosa insopportabile e scatenare la ricerca “a ogni costo” del bambino o dello stato di gravidanza. Per queste ragioni la mia posizione, che era problematica nei confronti delle tecno-scienze applicate alla procreazione, all’epoca non aveva trovato molte alleanze e convergenze “politiche” per la ragione detta prima, cioè per il timore che fosse messo in discussione il diritto ad abortire. In compenso il mio libro aveva avuto molti lettori, e soprattutto lettrici, segno che toccava una corda sensibile, sebbene inesplorata.

Si stava producendo una mutazione epocale, silenziosamente e con la complicità delle donne più politicizzate che, comprensibilmente, non potevano rischiare di rimettere in questione il diritto inalienabile delle donne di decidere del proprio corpo. Ero consapevole della posta in gioco ma questo non poteva impedirmi di riflettere sulla disgiunzione tra sessualità e procreazione, e le sue conseguenze, messa in atto dalle PMA. I bambini ormai non avevano più bisogno della camera da letto per essere concepiti. Si stava verificando un cambiamento inedito nella storia dell’umanità grazie alla convergenza tra la cauzione scientifica, la domanda di bambino da parte delle donne e il declino del principio paterno.

Quale uomo, anche solo cinquant’anni prima, avrebbe accettato di masturbarsi nella stanza asettica di una clinica per produrre sperma iniettabile nella vagina di una partner resistente alla fecondazione vecchia maniera? Forse nessuno. I tempi non erano culturalmente maturi. L’inseminazione “artificiale” era però già praticata con successo sugli animali fin dall’inizio del Novecento ma a nessuno era venuto in mente di proporla per gli esseri umani.

Negli anni Novanta, invece, le pratiche di PMA erano esplose, in Italia in particolare,senza incontrare alcun limite.

Il clima era confuso ed eccitato e si erano formati degli schieramenti divisi, grossolanamente, tra progressisti e conservatori, tra contrari alla separazione tra sessualità e procreazione (conservatori o cattolici) e favorevoli al “progresso”, in questo caso il progresso scientifico. I due campi facevano riferimento rispettivamente alla Chiesa e a posizioni politiche di destra oppure al pensiero laico di sinistra.

Si trattava di una semplificazione, comprensibile per la ragioni che dicevo prima (e per altre che non ho lo spazio di proporre) e che l’articolo di Silvia Vegetti ha il merito di rimettere in questione.

In realtà le cose erano e sono molto più complesse come sempre più costatiamo oggi che le possibilità aperte dal progresso della scienza sono ancora aumentate e ci siamo quasi abituati a vivere sulla linea di confine tra ciò che abbiamo sempre considerato umano e ciò che ormai definiamo il “post-umano”: si donano gli organi, c’è chi vive grazie all’espianto di una parte del corpo di un morto, quasi tutti siamo portatori di piccole o grandi protesi e questo è solo l’inizio, come annuncia la tecno-medicina.

La scissione tra sessualità e procreazione, che ci aveva sorpreso negli anni Novanta, è ormai, silenziosamente, culturalmente acquisita. Anche se in Italia, paese cattolico, è stata approvata una legge che permette solo la fecondazione omologa basta attraversare la frontiera per accedere, nei paesi confinanti, ad altre forme di fecondazione. I figli del caso, o del destino, sono sempre meno, i bambini sono sempre più programmati, “fabbricati” su richiesta . Non sono più il risultato di un desiderio che si è acceso, non sono figli di un incontro voluto “dal buon Dio” (come si diceva una volta), non sono mandati dalla Provvidenza. In altri termini: si fanno senza un terzo simbolico. Senza fate, senza spiriti, senza streghe, senza angeli né pozioni miracolose. Senza l’immaginario che ha sempre accompagnato la gravidanza e il suo mistero, la nascita e la sua magia.

Oggi, dopo circa vent’anni, la questione della nascita – uno dei tre grandi enigmi che tormentano gli umani- ritorna alla ribalta. Questa volta non più per farci interrogare sulla tecno-medicina applicata alla procreazione, ma per mettere in questione la pratica della maternità surrogata o meglio dell’utero in affitto, come viene, più crudamente, definita.

In realtà, che una donna fertile porti in grembo un bambino al posto di una donna infertile, è una pratica antica come il mondo. La gestazione per altre è sempre esistita: un’amica, una sorella, un’ancella o una serva si prestavano in passato a farsi fecondare dal compagno della donna sterile per poi cedere o cogestire il nascituro. Era però necessario comunque un atto sessuale. Oggi basta inseminare artificialmente una donna che accetti per denaro, raramente per generosità e per amore, di portare avanti una gravidanza al posto di un’altra. L’atto sessuale è escluso e la funzione dell’uomo è ridotta a quella di produttore di sperma. Il suo desiderio sessuale non è necessario né tanto meno gli viene chiesto di assumere una paternità. A meno che non sia lui a domandarlo, come capita nelle coppie omosessuali Il bambino “fabbricato”, insomma, non appartiene alla donna che lo partorisce; la gravidanza, come si dice pudicamente, è “per altri “.

Le polemiche suscitate da questa pratica riguardano la commercializzazione del corpo delle donne povere ridotte a incubatrici- battaglia sacrosanta e indiscutibile- ma non la “fabbricazione” del bambino fuori-sesso e fuori desiderio. Certo, non tocca solo alle donne difendere il legame sessualità-procreazione, la questione ci riguarda tutti, uomini e donne.

La mutazione epocale che scinde sessualità e procreazione è passata, silenziosamente, nel discorso dominante oggi, cioè nel discorso scientifico. I sintomi di sterilità o infertilità nell’uomo e nella donna parlano però della difficile assimilazione di questa mutazione. La riduzione dell’uomo alla sua funzione spermatica nella”maternità surrogata” apparentemente sembra non allarmare nessuno, né gli uomini né le donne; solo gli psicoanalisti, come Silvia Vegetti testimonia, sono allertati per questa ennesima manifestazione di “evaporazione” del padre, dell’indebolimento della sua funzione simbolica una volta ridotto a puro reale.

“L’affitto” dell’utero, la commercializzazione della vita suscita proteste, certo, ma non per il fatto che un bambino non nasca più dal desiderio e dal godimento di un uomo e di una donna, dal loro amore. Le proteste riguardano la “profanazione” del corpo della donna, la sua riduzione a “incubatrice”. Sacrosanto, ma non è l’unica critica da fare. C’è da segnalare, tra l’altro,la scarsa attenzione che la pratica della maternità surrogata dimostra per il legame madre – bambino durante la gestazione.

Come in ogni impresa commerciale conta il prodotto, il bambino fatto e finito. Non importa se i nove mesi della gravidanza siano i più importanti della vita di un essere umano anche se siamo ancora ignoranti su quel lontano periodo dell’esistenza e non siamo ancora in grado di valutarne il peso. Conosciamo la reattività del feto ai suoni, ai rumori, alle parole che vengono dall’esterno, alla loro prosodia, agli umori della madre, ai suoi malesseri e alle sue gioie. Di più non sappiamo ancora. Sappiamo però abbastanza da essere eticamente obbligati a tenerne conto, a trattare i nostri bambini come soggetti e non come merci acquistabili al mercato. Da qui la domanda: i bambini sono o no soggetti di diritto ancor prima di nascere? Nota giustamente Silvia Vegetti che il “Diritto, frammentato in singole, particolari sentenze, insegue le situazioni di fatto, avalla l’esistente, cerca di riparare precedenti errori, è incapace di governare movimenti mentali e sociali che procedono in modo inarrestabile”.

Che cos’è un feto? È irrappresentabile prima che assomigli a un neonato. In più, non è da molto che possiamo vederne le “fotografie”, che peraltro sono tutte simili fra loro.

Winnicott assicura che l’immaginario sul feto lo rappresenta più come un ammasso di materiale organico che come un essere umano.

Il nostro immaginario non gioca perciò a favore del riconoscimento del feto come un soggetto di diritto, anche se lo sappiamo ricettivo all’ambiente esterno e alla donna che lo accoglie nel suo ventre. Anche la battaglia contro la maternità surrogata non fa valere il diritto del futuro bambino. Perché?

Perché le donne, che in genere amano i bambini, non fanno valere l’unicità dell’esperienza di quei fondamentali, primi nove mesi di vita? Forse proprio perché il feto è irrappresentabile se non come ammasso organico all’interno del corpo della madre. Le donne considerano il bambino che è nel grembo materno come una parte inalienabile del proprio corpo, una parte di sé. Questo può servire a spiegare l'”impennata” delle donne, il risentimento e la protesta per la pratica della “gestazione per altri” come viene pudicamente definita – che peraltro in Italia non è consentita tanto che Nicky Vendola ha dovuto farsi fare il bambino in America- mentre molte altre pratiche, più ardite e pericolose (e che convergono versa una meta comune, l’eugenismo secondo la tesi strenuamente sostenuta dal biologo Jacques Testart), avanzano e si perfezionano nel silenzio sociale. La maternità surrogata è lesiva di un diritto delle donne, certamente, ma è lesiva anche del diritto del bambino.

Quale diritto è leso? Giustamente le donne attribuiscono una funzione identitaria al proprio apparato riproduttivo, riassumibile nel significante “utero”.

L’utero è stato un significante importante nella storia del movimento delle donne (ricordate:”l’utero è mio e lo gestisco io”?), è qualcosa che “si ha”, è il potere interno e nascosto di produrre bambini. È ciò che iscrive simbolicamente le donne nel discorso sociale. Ogni donna è, potenzialmente, portatrice di un fallo-bambino e questo le assegna da subito un posto nel simbolico, insieme al diritto di godere del bambino che verrà. Di occuparsene, di educarlo e di goderne in tutta legittimità. La maternità surrogata erode questo diritto” naturale”, strappa alle donne il “frutto” del loro ventre, le priva di un tratto d’identificazione costitutivo della loro identità. Ecco perché la sorte delle povere donne indiane costrette dalla fame a partorire bambini per le ricche coppie americane, ci riguarda tutte e tutti. A ogni donna, se lo vuole, è promesso un bambino. Ognuna ha diritto a questa promessa, che si realizzi o no. La maternità surrogata la smentisce con violenza privando le donne, tutte le donne, di un tratto fondante della loro identità. Per questo le donne sono tutte unanimi (o quasi) contro l’utero in affitto.

La maternità però non esaurisce la donna né il suo desiderio. Il bambino è un dono che, auspicabilmente, viene da un partner amato e che ci desidera. Il concepimento è, innanzitutto, un affare di desiderio tra un uomo e una donna. Questo ci distingue dalle bestie e ci caratterizza come umani: non possiamo permettere che siano applicate al nascere delle pratiche veterinarie. E questo principio fondamentale credo possa applicarsi sia alla PMA che alla maternità surrogata.

 

Oltre le storie: intervista a Marisa Fiumanò

PAROLE FERTILI

Oggi per la rubrica #oltrelestorie incontriamo Marisa Fiumanò, psicanalista e autrice del libro “A ognuna il suo bambino. Infertilità, psicanalisi e medicina della procreazione” edito da Nuove Pratiche Editrice, che tratta di procreazione assistita osservata da un punto di vista psicanalitico.

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Ciao Marisa, le tue ricerche e i tuoi studi si sono concentrati sulla sessualità femminile e sul rapporto fra psicoanalisi e nuove tecnologie. Come è nata questa tua particolare area di interesse?

È stata una conseguenza naturale della domanda che ha guidato la mia prima analisi, una domanda sul “che vuole una donna?”. All’epoca, ero molto giovane, mi chiedevo se la femminilità fosse compatibile con la maternità, col desiderio di bambino, etc. Domande di tutte le donne, esplicitate o meno, indagate o no, tradotte o meno in scelte di vita. Nel mio caso si sono tradotte anche in una professione, una scelta in un certo senso obbligata, un destino forse. Ci sono altri modi per cercare risposte alle questioni fondamentali: poesia, letteratura, pittura, le arti insomma. Io ho lavorato sulle parole, sulla loro materialità, sul loro suono, sul discorso che tessevano, una volta pronunciate dal divano. Prima le mie parole, poi quelle delle mie pazienti e poi di nuovo le mie (nella mia seconda, fortunatissima, analisi) e poi ancora le loro. Ci sono poi le parole dei miei supervisori, con cui ho condiviso i punti di impasse delle cure, quelle dei miei colleghi, coinvolti, come me, nella stessa ricerca.  Le “nuove tecnologie” o meglio la tecno-medicina applicata alla sessualità, mi colpiva perché sollecitava un desiderio intimo, profondo di tante donne, anche se, va detto, non di tutte: il desiderio di un bambino. La tecno-medicina non promette, fornisce il bambino, tendenzialmente escludendo la funzione del padre. Intendo la sua funzione simbolica perché lo riduce tendenzialmente a una funzione spermatica. Questo ai bambini non fa affatto bene; e alle donne neppure. Agli uomini non ne parliamo. La tecno-medicina esce potenziata dalle sue performances procreative, gli uomini e le donne ne escono mortificati.  Non sto dicendo che dobbiamo essere contro il ricorso alla tecno-scienza ma dobbiamo sapere che questo ha un prezzo. Nel mio libro ne parlo a lungo e per questo qualcuno mi ha accusato di oscurantismo. Avere dubbi, sollevare domande, avvertire, non è consentito. La fiducia nella tecno-medicina deve essere assoluta perché, effettivamente, fa miracoli. Noi psicoanalisti non facciamo miracoli anche se, effettivamente, a volte guariamo sintomi enormi. In realtà i casi d’infertilità che ho seguito erano quelli risultati resistenti anche alla medicina. La psicoanalisi era l’ultima spiaggia, l’ultimo tentativo dopo altri, considerati più efficaci.

Negli anni ti sei occupata di procreazione assistita e della sua regolamentazione giuridica, in collaborazione con ginecologhe, giuriste, psicologhe e assistenti sociali. Ritieni che siano stati fatti passi in avanti per quanto riguarda la PMA?

Il lavoro fatto con le altre professioniste è stata una bella esperienza. Non partivamo da posizioni pregiudiziali ma il tema appassionava tutte. La ricerca era a tutto campo. Va detto che in quegli anni, (intorno al Duemila), in Italia almeno, non c’era nessuna regolamentazione sulla PMA e tutti gli esperimenti erano possibili. Ho detto bene: esperimenti perché anche la più semplice delle pratiche fecondative comporta come minimo dei bombardamenti ormonali delle donne. All’epoca però gli esperimenti erano anche altri e spesso oggetto di pubblicità mediatica. Penso alle nonne-mamme, agli embrioni tenuti in vita per settimane in uteri sezionati da cadaveri e così via. Non c’erano criteri condivisi per approvare o condannare tutto questo. La cultura non era attrezzata per integrarli o rigettarli. Ora, dopo più di dieci anni, all’incirca, di silenzio, la questione si ripropone con il dibattito sulla “maternità surrogata”, con la polemica  se le donne possano o meno funzionare da incubatrici naturali di figli altrui (soprattutto di coppie gay) ; se siano libere  o meno di disporre del proprio corpo, se questa non sia una nuova forma di schiavitù dissimulata. Pochi s’interrogano sul bambino: cosa succede a un bambino nei nove mesi della gravidanza ? Quali. imprescindibili, legami stabilisce con la madre? Come peserà sulla sua vita la programmazione della sua nascita? In Italia, come sappiamo, la legislazione è oggi molto restrittiva ma si tratta dell’eccezione di un paese cattolico. Le frontiere sono facili da attraversare.

Nel tuo libro “A ognuna il suo bambino. Infertilità, psicanalisi e medicina della procreazione” affronti i problemi sorti intorno alle tecniche della procreazione assistita dal punto di vista della psicoanalisi. Perché è importante indagare sull’ infertilità da un punto di vista psicanalitico?

Dopo che la nostra volenterosa e composita equipe di lavoro si è dissolta, pensavo che mi sarei occupata ancora di PMA  lavorando con i bambini nati da queste tecniche. Mi sbagliavo: innanzitutto perché i genitori sono comprensibilmente restii a far sapere  come sono nati i loro bambini, poi perché  non ci sono patologie specifiche dei figli della PMA. Almeno a mia conoscenza. Capita di averli sul divano e la modalità della loro nascita pesa sul loro discorso ma questo non ne fa dei soggetti con caratteristiche particolari. Quanto alle cause psichiche dell’infertilità: l’80% delle infertilità, dicono le statistiche, ha radici psicologiche. È inutile bombardare di ormoni una signora che non “può” avere bambini perché non ha “diritto” ad averne come sua madre. Oppure perché non vuole (inconsciamente) averne dal suo partner. Sono esempi di “impossibilità” di cui le donne non sanno niente ma che agiscono bloccando la fecondazione. Ci sono infertilità di coppia che si sbloccano, per uno o entrambi i partner, quando si formano delle nuove coppie, ad esempio.

 

Come vivono gli uomini e i futuri padri il difficile percorso aMarisa Fiumanò librolla ricerca di un figlio?

In genere gli uomini assecondano il desiderio della donna per amore, per quieto vivere, per comodità. Per loro “avere il bambino” non fornisce un’identità. Spesso cominciano col voler far contente le donne, sottraendosi magari ad un’accusa di impotenza, e finiscono con l’essere dei produttori di sperma che assistono silenziosi, dietro il lettino del ginecologo, il vero inseminatore, alla fecondazione della propria donna. A me è capitato di incontrarli quasi sfiniti, magari alla fine di una serie di tentativi, accompagnati da donne sempre più ostinate e ancora pronte ad affrontare  qualsiasi difficoltà pur di ottenere una gravidanza. Per loro venire da me era quasi un tentativo di sbarazzarsi di una domanda insistente e ingombrante, che non sapevano più come trattare. Succede anche che alcuni uomini si mettano in una posizione femminile, che si identifichino con una donna. Non é una possibilità da escludere. Certamente è così nelle coppie gay alla ricerca di un bambino via maternità surrogata. In quel caso almeno uno dei due partner deve essere in posizione femminile. Se si domanda un bambino non si può che essere in una posizione femminile, anche se si è, biologicamente, uomini. In generale, comunque, gli uomini “adottano” il bambino una volta che è nato. La paternità è sempre, innanzitutto, simbolica. Per una donna il bambino passa dal corpo; per un tempo, il tempo della gravidanza, è un pezzo di corpo che rende sicure, potenti, soddisfatte, senza buchi. Con le dovute eccezioni, s’intende.

Pubblicato il 18 aprile su ParoleFertili