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DIDATTICA A DISTANZA E LIBERTÀ D'INSEGNAMENTO


Un inquietante specchio dei tempi?






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L’attuale emergenza sanitaria ha avuto effetti totalmente destabilizzanti, com’era ovvio che fosse, anche sulla scuola. Su come affrontare tale situazione straordinaria non esiste un quadro normativo specifico, e nulla è previsto dal punto di vista contrattuale[1]. D’altronde, che l’attività professionale dovesse andare avanti e che non si potesse interrompere d’improvviso la relazione con gli studenti, e il lavoro che con essi si era programmato, ha immediatamente costituito un decisivo problema per i docenti, e ha obbligato a mettere in atto una flessibilità rispetto al consueto lavoro in presenza (flessibilità metodologica, tecnologica, contenutistica, eventualmente valutativa), nella consapevolezza che nessuno può con assoluta sicurezza stabilire quale sia il tipo di soluzione didattica preferibile in una condizione mai così sperimentata nella sua radicalità. E la risorsa migliore è stata il confronto dei vissuti professionali fra i docenti stessi, sia tra colleghi del medesimo istituto, sia nelle testimonianze on line e nei frequenti scambi di esperienze sui social.

Sicuramente, al termine di una vicenda così inaspettata, sarà inevitabile un confronto a tutto campo sulle difficoltà incontrate, sui risultati ottenuti, su quanto il bagaglio professionale pregresso sia servito a ridurre i danni di un’attività –questo è un principio di massima che intendiamo sostenere senza tentennamenti- che, nonostante sia destinata a rimanere come significativo bagaglio d’esperienza professionale, non potrà affatto costituire un precedente in vista di una riorganizzazione futura delle modalità di lavoro nella scuola italiana. L’attività didattica cui si è costretti in questa fase, ovvero il ricorso esclusivo alla tecnologia informatica, nel tentativo di coglierne e utilizzarne tutte le potenzialità positive, non può avere alcuna relazione con l’utilizzo delle medesime tecnologie in una situazione ordinaria, ossia in presenza, laddove esse si inseriscono all’interno di procedure di lavoro e contesti relazionali (di gruppo e individuali, tra docente e studente), che trasformano radicalmente la valenza degli strumenti utilizzati.

 

I pericoli di una didattica a distanza non consapevole

Conviene innanzitutto riassumere, per chi non è pienamente interno alla professione docente, quali sono le perplessità e le problematiche che un insegnante si trova di fronte nel proseguire il proprio lavoro esclusivamente attraverso il computer. Criticità la cui consapevolezza è, a nostro avviso, immediatamente prevista dalla deontologia professionale; alcuni insegnanti, a nostro parere in modo discutibile, non hanno fatto altro che trasferire (sul piano dell’orario, delle modalità di comunicazione e di valutazione) l’ordinario lavoro in classe sugli alunni, costringendoli, in un’anomala situazione che li vede permanentemente nella loro abitazione, a ritmi di vita e di studio identici a quelli vissuti nel corso del consueto anno scolastico. Una tale situazione risulta problematica perché differente è il vissuto individuale, sia dell’insegnante sia dell’alunno, in una fase così delicata, anche se potrebbe darsi l’impressione, nei momenti dell’incontro on line, che tali criticità non ci siano e che la situazione si protragga in modo consueto. Ma, al di là delle difficoltà, già ricordate in molte riflessioni sulla stampa in questo periodo, di garantire una connessione continua (difficoltà quindi di tipo tecnico), vi sono situazioni nuove che sarebbe sbagliato non considerare. Lo stress vissuto da giovani che devono convivere la totalità del tempo di vita con il nucleo familiare, in una fase dell’esistenza in cui è vitale avere dei tempi e degli spazi di emancipazione dallo stesso, persino nei casi in cui il clima familiare risulta privo di conflitti. Inoltre la visibilità del proprio spazio domestico, oltre che l’agibilità dello stesso, può risultare un problema. Molti alunni scelgono di mantenere chiusa la videocamera; magari hanno vicino familiari che non vogliono vengano visti, o ambienti angusti che non desiderano siano rivelati a chi è con loro in contatto. Alcuni docenti, che nell’ansia di realizzare un’interrogazione tradizionale in tali condizioni, e che pretendono almeno in quell’occasione che lo studente attivi la videocamera, prendono un’iniziativa probabilmente contestabile, perché si configura come intrusione del proprio sguardo in uno spazio che non è quello pubblico dell’edificio scolastico. Inoltre, nonostante questa precauzione –per giungere allo scottante problema della valutazione-, nessuno stratagemma può attribuire a tale verifica i crismi dell’oggettività, per tanti ordini di fattori che è probabilmente inutile riassumere in queste righe; e difficilmente la valutazione conseguente potrebbe reggere di fronte a un contezioso giuridico, qualora qualcuno ne mettesse in dubbio la legittimità.

Se deve prevalere la preoccupazione di non interrompere bruscamente la relazione educativa che si sta costruendo insieme agli alunni da mesi, se non da anni, bisogna che il docente dimostri di sapersi inserire in tale situazione straordinaria, rispettando i tempi eventuali del quotidiano di ciascuno (ci possono essere più necessità contemporanee di collegarsi alla rete, bambini piccoli cui badare, ecc.; e tali situazioni di stress, che in questa prima breve fase possono essere dominate, saranno sicuramente destinate ad acuirsi con il protrarsi oltre ogni attesa dell’isolamento sociale, tale da poter condizionare in negativo anche le situazioni in apparenza più favorevoli). Un’ipotesi è quella di inviare materiale video o audio registrato, in maniera che gli alunni possano gestirselo con tempi consoni a ciascuno; concordare un incontro on line a scadenze periodiche, ma non ossessivamente, costringendoli, seguendo l’orario scolastico, a collegarsi al computer fin dalle otto del mattino, e prevedendo un carico di lavoro che, occupandoli tutto il pomeriggio, non tiene conto delle nuove modalità con cui il tempo di vita viene in questa occasione percepito. Ed è invece proprio su questo aspetto che il dovente è in grado, in virtù del punto di riferimento umano ma soprattutto –ci teniamo a ribadirlo- disciplinare che rappresenta, di proporre riflessioni di ordine culturale capaci di guidare con maggiore profondità proprio questo lavoro di rielaborazione su se stessi e sulle dinamiche che stanno coinvolgendo la società tutta.

Anzi, rispetto alla didattica formalizzante, tesa ad inseguire risultati uniformi, rispetto alla povertà ermeneutica del problem solving (ovviamente, solo quando considerato paradigma di interpretazione del mondo e principio ispiratore di ogni comunicazione disciplinare; peraltro totalmente naufragato nella sua presuntuosa assolutezza in questa fase, in cui il sapere scientifico, mai così prezioso, mostra pure il suo carattere problematico e pluralistico), emerge con notevole efficacia il contributo che ciascuna disciplina può offrire per affrontare con giusto atteggiamento critico il periodo straordinario che stiamo vivendo e a valutare il numeroso e spesso contraddittorio materiale informativo che lo descrive. Non si tratta di fare ricorso a quegli accostamenti risibili e casuali sui cui si concentra acriticamente il nuovo Esame di stato, ma proporre un esercizio di comparatistica, al fine di mostrare come una simile situazione problematica si possa meglio affrontare attraverso i diversi contributi metodologici di ogni particolare sguardo sulla realtà rappresentato dalle singole discipline, che solo con una riflessione successiva –comunque necessaria- è possibile ricomporre.

Per non parlare delle possibilità che –messa da parte l’ansia della valutazione come dispositivo differenziante delle diverse capacità- si apre effettivamente per un autentica didattica di recupero; attraverso modalità di esercitazione differenti, che per forza di cose devono prevedere l’utilizzo dei materiali da parte dello studente, di cui usualmente non può disporre nelle verifiche in classe; con una possibilità a perfezionare costantemente il lavoro di approfondimento e di utilizzo degli stessi, in una revisione continua tra suggerimenti del docente e miglioramento del lavoro prodotto che, privato dell’ansia di una valutazione oggettiva che difficilmente si può ottenere, potrebbe indurre ad accogliere l’invito a riflettere sulle proprie capacità di lavoro.

Tale condizione lavorativa che, come vedremo, qualcuno avrebbe intenzione di irreggimentare, dimostra ancora una volta che solo all’interno della professionalità docente possono sorgere proposte ed esperienze significative nell’autentico interesse degli studenti. E non certo da esponenti intellettuali che, in virtù di non si capisce quale maggiore consapevolezza dei meccanismi psicologici caratteristici della relazione educativa, pretenderebbero senza mai essere entrati in un aula di imporre agli insegnanti l’obbligo di pratiche formalizzanti, il cui effetto sarebbe esattamente opposto a quanto abbiamo appena sostenuto sul potenziamento del senso critico.

 

La tentazione illegittima di sfruttare l’emergenza

Da parte di molti soggetti, più o meno esperti di problematiche educative o comunque autoproclamatisi tali, è in atto un tentativo, all’inizio forse più cauto e felpato, ma sempre più pressante negli ultimi tempi, di trarre spunto dalle problematiche sollevate dalla “didattica a distanza” per affermare in modo incondizionato le ragioni delle proprie posizioni. Secondo questa visione, se si fosse realmente rivoluzionata la didattica in direzione di un protagonismo del digitale, o comunque di tutte le pratiche auto proclamatesi “innovative” –sulla cui dubbia fondatezza epistemologica ci siamo più volte espressi anche su questo portale- questa fase della vita scolastica non sarebbe stata così difficile, avendo in mano tutti gli insegnanti le competenze tecnologiche e metodologiche per affrontarla.

Che l’insistenza per trasformare l’introduzione della tecnologia digitale nella scuola nascondesse l’intenzione di esercitare un rigido controllo sulle metodologie impiegate dai docenti, obbligandoli di fatto a uniformarle secondo criteri pratico-operativi, i quali concepiscono i contenuti culturali unicamente come un espediente per raggiungere determinate capacità, lo avevamo argomentato proprio su questo portale, commentando nel dettaglio –riteniamo in modo oggettivo- il lungo documento ministeriale dedicato al Piano Nazionale Scuola Digitale. Una lettura sulla quale sarebbe opportuno ritornassero molti colleghi, a cui spesso sfugge la continuità storica e le motivazioni autentiche di tante iniziative ministeriali, presentate magari come novità[2]. Anche alcuni recenti interventi, favorevoli ad approffitare dell’ emergenza a favore di un’accelerazione verso quelle modifiche appena sopra ricordate, non sono comprensibili se non alla luce di tale continuità storica.

Gli esempi da proporre potrebbero essere numerosi. Ne scegliamo solo due, perché a nostro parere particolarmente rappresentativi. Il primo è comparso sul quotidiano La Stampa, a firma del presidente della Fondazione Agnelli, Andrea Gavosto. Al di là di alcune affermazioni, evidentemente finalizzate a coinvolgere un pubblico poco informato con una serie di dichiarazioni non corroborate, soprattutto in merito alla professionalità dei docenti, colpisce una presa di posizione particolarmente incisiva, che conferma a nostro a parere i timori che abbiamo espresso sopra: «L’emergenza tuttavia sicuramente farà crescere la consapevolezza che è necessario innovare le pratiche didattiche con un uso mirato ed efficace delle nuove tecnologie; così molti docenti finora riluttanti al cambiamento si avvicineranno volenti o nolenti alla didattica digitale». Qualcuno potrebbe obiettare che trattasi di una semplice constatazione del fatto che in tale situazione d’emergenza qualsiasi docente non può che proseguire il proprio lavoro attraverso la comunicazione a distanza, anche se il tono suona quanto meno ultimativo e compiaciuto di questo doversi rassegnare a una prassi che non necessariamente si condivide nella sua dimensione totalizzante. Inoltre, si afferma un’equivalenza tra uso del digitale e “didattiche innovative” che è tutta da dimostrare; laddove il digitale potrebbe costituire un efficace strumento anche per singoli approfondimenti disciplinari. A chiarire però l’intenzione vi è un altro intervento dello stesso Gavosto, dove l’intenzione coercitiva è esplicitamente ammessa, sul portale La Voce.Info[3]: «la preparazione professionale dei docenti alla didattica a distanza è in molti casi inadeguata. [..] È evidente che in futuro la capacità di insegnare online dovrà diventare un requisito obbligatorio per tutti i docenti».

Conviene a questo punto corroborare la nostra interpretazione con un altro intervento, comparso su Il Sole 24Ore, non a caso il quotidiano che, insieme a La Stampa, si fa più organico portavoce di questa richiesta di cambiamento. Si tratta di un articolo di Maria Vittoria Alfieri, dal significativo titolo: Scuola a distanza, un’occasione unica per una didattica inclusiva per tutti.

Tralasciando le opportunità di ordine etico, dell’approfittare di una tale drammatica emergenza per imporre la propria discutibile posizione, peraltro con affermazioni al limite del buon gusto (per la scuola il virus sarebbe «un attivatore di consapevolezza»), l’articolo si propone come un classico esempio di argomentazione pregiudiziale, in quanto non avverte il bisogno di validare su un piano scientifico le proprie affermazioni; e volutamente ignora (per far credere che non esistano) le rilevanti argomentazioni in senso contrario, delle quali anche presso la “Casa della Cultura” abbiamo più volte dato. testimonianza:

- l’articolo divide il mondo della scuola in «professori innovatori», che hanno «coraggio educativo, idee e metodologie didattiche adeguate [e chi lo decide? N.d.A]», passione, e insegnanti conservatori, che in questi anni non si sarebbero aggiornati;

- sulla base di tale (pre)giudizio, si traccia una distinzione tra “scuole di qualità”, che dimostrerebbero la capacità di affrontare questa emergenza, in quanto si sono preparate in tempo (avrebbero cioè messo in partica –pensiamo- i contenuti del Piano Nazionale Scuola Digitale che abbiamo richiamato sopra), di contro a quelle scuole dove, lavorando in modo tradizionale, si è incapaci di valorizzare le potenzialità offerte dalle tecnologie informatiche; dando per scontato che nelle prime si stanno raggiungendo risultati notevoli, in coerenza con quanto vanno predicando da anni i pedagogisti, inascoltati da docenti fannulloni. Ci piacerebbe sapere, peraltro alla data del 17 marzo, quale indagine abbia fatto Maria Vittoria Alfieri per poterlo affermare. Non si fa riferimento a eventuali visite presso gli istituti scolastici, non risultano dei dati statici affidabili sui risultati ottenuti in così breve tempo (e se ci fossero, a quella data avrebbero scarso valore), non si parla di un confronto dei risultati stessi con quegli istituti che l’autrice giudica impreparati all’emergenza, né se abbia confrontato le proposte didattiche di alcuni istituti con le scelte metodologiche di altri, ascoltando le ragioni dei docenti che vi lavorano;

- preoccupa inoltre la conclusione che suona vagamente punitiva: «Quello che abbiamo capito in modo chiaro e che non può esserci una scuola senza prof e che non basta più una formazione generica per essere docenti attuali». Abbiamo notato come di «chiaro», nel senso di argomentazioni suffragate da evidenze empiriche, nell’articolo c’è ben poco; se non un’evidente adesione fideistica a una didattica innovativa, nel tentativo di silenziare le prestigiose posizioni intellettuali che le si oppongono. L’Autrice sembrerebbe auspicare che chi rifiuta di aggiornarsi secondo le nuove prescrittive metodologie non può essere considerato un insegnante qualificato, e quindi –ipotizziamo noi- non dovrebbe far parte dell’organico di un istituto. Si tratta di un pretesto per avallare ulteriormente il piano della formazione obbligatoria, ovviamente non scelta dai docenti sulla base delle loro priorità, ma orientata necessariamente verso le nuove, strampalate, metodologie didattiche.

Ma che cos’è la libertà d’insegnamento?

In più di un’occasione ci è capitato di notare come la libertà d’insegnamento garantita dall’articolo 33 della Costituzione, ancora in grado di proteggere gli insegnanti che, con consapevolezza critica, non intendono aderire a un modo di fare scuola le cui finalità appare tutt’altro che rivolta all’interesse generale, sia messa a rischio nella scuola immaginata dai riformatori. E ci sembra che già i testi sopra citati lo possano bene evidenziare.

Ad aiutarci ad articolare il tema è sopraggiunto, nel clima attuale che abbiamo cercato di ricostruire, un comunicato firmato da venti Dirigenti scolastici (non molti, per la verità), significativamente intitolato: La scuola non è dei sindacati, è degli studenti. Lasciateci lavorare!. Un tono, comprensivo dei punti esclamativi, quanto mai di battaglia. Si tratta della reazione di buona parte dei sindacati della scuola alla nota del capo dipartimento del MIUR Max Bruschi, che precisava alcune modalità con cui intendere la didattica a distanza.

Intendiamo però concentrarci solo su un passo in cui si fa cenno alla libertà d’insegnamento. Il riferimento a dire il vero è preceduto da alcune righe che sono tutte un programma: «Lavoriamo e stiamo zitti, invece di alzare la voce per fare retorica, disquisendo sui termini quali “sospensione delle attività didattiche” o “chiusura delle scuole”. E smettiamola una volta per tutte di pensare ai nostri diritti: cominciamo ad adempiere ai nostri doveri, fino in fondo, con professionalità», dove quello «stiamo zitti» già tutto dice di come viene concepito il confronto democratico sui luoghi di lavoro, confronto democratico e pluralistico, sui contenuti come sulle metodologie che nella scuola dovrebbe rappresentare un valore imprescindibile. Poco dopo però si legge: «In ultimo chiediamo a chi urla ai quattro venti invocando la libertà di insegnamento, di informarsi bene. Il docente non è libero di insegnare oppure no. E nemmeno di scegliere cosa insegnare. Il docente si allinea al PTOF della sua scuola, si attiene alle Indicazioni Nazionali, organizza il suo lavoro in raccordo con i documenti della scuola in cui esercita il suo ruolo, e alle disposizioni che il Ministero emana, come in quest’ultimo caso. Siamo stanchi della scuola ostaggio di lobbies sindacali cieche e sorde ai reali bisogni formativi dei nostri studenti.»

Innanzitutto è da notare la scelta espressiva. Questo documento è scritto da Dirigenti scolastici che hanno la responsabilità di guidare delle scuole pubbliche. Esprimersi con così tanta insofferenza e schematismo linguistico verso uno dei principi più decisivi della nostra Costituzione, avvertito quasi come un peso di cui liberarsi, risulta quanto meno imbarazzante. Ma che cosa significa quell’espressione, che ci invita a «informarci bene», per cui i suddetti DS sarebbero in grado di fornirci un’interpretazione autentica? Non solo «il docente non è libero se insegnare o no», e non si capisce chi l’abbia mai detto; semmai il fatto che il contratto non preveda l’obbligo della didattica a distanza implica un vuoto normativo che, per essere risolto, esige che gli insegnanti lo affrontino con tutta la libertà e la sperimentazione possibile, sulla base della loro esperienza. Ma tali Dirigenti Scolastici negano addirittura che il docente sia libero di scegliere cosa (e immaginiamo anche il come) insegnare. Il docente deve allinearsi (notare il linguaggio di carattere militare) al PTOF della sua scuola, ecc… Si tratta del tentativo, tanto vano quanto più volte perseguito, di depotenziare la libertà d’insegnamento intendendola, secondo una logica più da dimensione totalitaria che da stato di diritto, come “libertà collettiva”, che già nel 2004 era stata proposta da un allora noto Dirigente Scolastico dell’area lombarda[4]. Che in realtà si tratti di un espediente per impedirla si evince già dalle prese di posizione di epoca berlingueriana, ingenuamente rivelatrici[5]. D’altra parte, qualcuno potrebbe pensare che l’elaborazione del PTOF è responsabilità del corpo docente, e che dunque la libertà si eserciterebbe in quel particolare frangente. Al di là però delle pressioni che sullo stesso Collegio possono essere prodotte, facilitate dall’accumulo di potere che ha conosciuto in questi anni la figura del Dirigente Scolastico, il documento chiarisce –qui correttamente- gli scarsi margini di autonomia che rimangono all’organo collegiale, in quanto il PTOF deve attenersi alle Indicazioni Nazionali. Chiunque abbia un po’ di esperienza delle piattaforme ministeriali (dal PTOF, al RAV, alla Rendicontazione sociale, per non parlare di quelle destinate ai docenti impegnati nell’anno di straordinariato, che devono dimostrare una fedeltà senza riserve alle metodologie innovative, al di là delle libere convinzioni personali; devono cioè ridursi a figura servile) sa che esse prevedono delle domande guidate che costringono la scuola a intraprendere determinati orientamenti metodologici, e ci vuole tutta la buona volontà degli stessi per scegliere oculatamente le voci, per neutralizzarle nei loro esiti obbliganti nel momento in cui contrastano con la volontà del Collegio. Per non parlare del fatto che alcune di queste piattaforme esulano dall’approvazione dello stesso Collegio, ma sono di responsabilità del Dirigente scolastico e del suo gruppo di lavoro. Oppure dei fondi PON, quasi sempre riconosciuti solo se si accetta di lavorare sulla base di determinate metodologie. Per cui tali documenti già confliggono con l’art.33 il quale però, ancora in vigore, permette ancora agli insegnanti di operare un’adeguata resistenza. Più che un’interpretazione autentica, l’affermazione dei Dirigenti Scolastici rivela quanto vi sia di estraneo alla Costituzione in molte decisioni legislative che hanno interessato in questi anni la scuola italiana.

Sia chiaro che nel documento che stiamo commentando si configura una modalità di comando verticale, sostanzialmente autoritaria, finalizzata a disciplinare i docenti, e nulla c’entrano gli studenti, che pure si afferma di voler difendere da chissà quale complotto corporativo. E d’altronde, che non ci sia alternativa alla assunzione obtorto collo delle metodologie non condivise dai docenti, lo spiega bene l’inizio del documento: «Formazione obbligatoria, per tutti, valutazione per competenze, uso di tecnologie nella didattica. Sono anni che ci riempiamo la bocca con queste parole, adesso è il momento di metterle in pratica, tirarsi su le maniche e fare comunità». Penso che al lettore –anche quello poco avvezzo a questioni scolastiche- non sfugga, dietro a questa presa di posizione isterica, dove ancora una volta l’espressione comunità assume un aspetto inquietante e tutt’altro che democratico, l’assoluta mancanza di qualsiasi giustificazione di quello che si vuole imporre. Un parlare per slogan, peraltro in modo stilisticamente tutt’altro che ineccepibile, che imbarazza se pensiamo che ad esprimersi sono dei Dirigenti Scolastici.

In che senso però l’articolo 33 ancora è in grado di difendere l’insegnante che non si rassegna a diventare una protesi di un meccanismo destinato a creare pericolosi effetti sulla soggettività degli studenti, integrandoli in modo inconsapevole nella logica di un mercato che intende impossessarsi della scuola, per imporvi le proprie finalità utilitaristiche? Perché deve essere contestata la presa di posizione di questi dirigenti, che interpretano l’articolo 33 quasi alla stregua di una garanzia corporativa verso gli insegnanti, i quali si sentirebbero, in questo modo, legittimati a lavorare come a loro pare, disinteressandosi della propria responsabilità verso coloro che hanno il dovere di formare?

Innanzitutto proprio nella rivendicazione che «la scienza e la cultura sono libere». Poiché il dibattito sulla “didattica innovativa” è tutt’ora aperto (e probabilmente, sul piano del confronto epistemologico, assolutamente perdente da parte della “didattica innovativa”), in virtù di tale confronto intellettuale non è possibile imporre a un’insegnante alcuna metodologia in modo assertivo, proprio perché la stessa non è affatto garantita nella sua validità. Il docente, in quanto lavoratore intellettuale, si inserisce nel dibattito scientifico in corso e sceglie liberamente alla luce delle problematicità che quello stesso dibattito presenta e dei contesti concreti in cui si trova ad operare.

In ultimo, contrariamente a quanto irresponsabilmente affermato dai sopra citati Dirigenti scolastici, il senso dell’articolo 33 non è quello di proteggere l’insegnante. In una frase citata precedentemente, tali Dirigenti scolastici contrappongono incredibilmente diritti e doveri, come se gli stessi non godessero di una loro complementarietà nel testo costituzionale. La libertà d’insegnamento non è solo un diritto, ma anche e soprattutto un dovere verso la collettività; non offre all’insegnante una garanzia corporativa, persino se fosse in difetto di professionalità. Come ricorda Anna Angelucci[6], i suoi destinatari sono proprio gli studenti e i cittadini tutti. Non ha senso leggere questo articolo come esclusiva difesa della figura del docente, senza porlo in relazione con il successivo articolo 34, che precisa come la scuola sia di tutti. Il fatto che un insegnante venga assunto senza che pesino le sue opinioni politico-culturali, ma anche quelle di carattere scientifico-metodologico, se le stesse sono oggetto di un confronto intellettuale ancora in divenire, rappresenta una garanzia per lo studente di non subire alcun processo formativo teso a inibirgli la libertà di pensiero, la certezza che la scuola gli si presenterà come l’immagine di quel pluralismo che corrisponde alla società democratica in cui egli agisce. Ovvero, la scuola stessa finisce per incarnare quei valori sui quali il futuro cittadino dovrebbe riconoscere la propria appartenenza alla comunità politica.

Ma non si tratta solo della garanzia da attribuire allo studente, bensì alla società tutta. La mia libertà d’insegnamento, contenutistica e metodologica, è una garanzia per tutti i cittadini, consapevoli che l’istituzione finalizzata a trasmettere conoscenza non sia asservita ad alcuna logica esterna che cerchi di controllarla; certi che i principi della democrazia non siano asserviti ad altri interessi che non siano quelli della crescita culturale e civile delle giovani generazioni. La subordinazione della scuola alle ragioni del mercato e dell’economia, alle richieste degli stakeholders, ovvero di rappresentanti di interessi privati che pretendono che la scuola obbedisca alle loro esigenze, e a cui la scuola deve «rendere conto»[7], è in totale contrasto con lo spirito della Costituzione. La libertà d’insegnamento è un pilastro della democrazia, di cui non sembrano consapevoli i sopra citati Dirigenti Scolastici, a cui invece probabilmente non sfugge il carattere autoritario del tipo di istituzione che propongono, di fatto giudicandolo di maggiore efficienza. Qualcuno potrebbe obiettare, pur concordando con queste affermazioni, che il rischio da parte di alcuni di declinare in un senso corporativo l’articolo 33 sia reale, e che vi sono numerosi casi in cui tale possibilità finisca per coprire l’assenza effettiva di professionalità. Di fronte a ciò, bisogna però ricordare che la scuola, se si fa riferimento a come è stata pensata la sua dialettica democratica interna, ha la possibilità di fare fronte, attraverso una partecipazione garantita all’intera comunità scolastica. Che il meccanismo possa apparire burocratico e non sempre efficiente non è ragione adeguata per delegittimarlo, preferendo le soluzioni verticistiche e autoritarie che in qualche modo vanno profondamente a ledere e a indebolire la sensibilità nei confronti del valori democratici.

Mi riferisco ai Decreti Delegati. Giustamente, sempre Anna Angelucci[8] fa notare l’inaccettabilità della recente presa di posizione di Ernesto Galli della Loggia –che pure sulla scuola ha compreso molte più criticità di altri esponenti che dovrebbero appartenere all’area progressista- nel considerarli produttori di inutili chiacchiere. Invece, la possibilità di porre in comunicazione la deontologia docente, con eventuali rilievi di insegnanti e studenti, permetterebbe un’analisi adeguata delle situazioni critiche, in condizioni però di perfetta garanzia. Facciamo qui riferimento all’indebolimento –sino quasi alla sua inesistenza- del personale ispettivo, che dovrebbe in tali situazioni critiche farsi carico del docente, seguendo il suo lavoro sul campo e sul lungo periodo, per dare allo stesso la garanzia di un procedimento “tra pari”, quindi fondato su una conoscenza adeguata dei problemi professionali e indipendente da valutazioni di ordine politico; e nello stesso tempo rispondere alle esigenze espresse da altri membri della comunità scolastica, che hanno evidenziato l’esistenza di alcuni problemi che potrebbero impedire il felice esito della relazione educativa. Oggi i pochi ispettori in azione, quelli che costituiscono i Gruppi esterni di valutazione, tendono più a verificare, con un atteggiamento che potrebbe apparire inquisitorio, la disponibilità della scuola ad accettare in toto le nuove metodologie. Un inquietante specchio dei tempi.



[1] Per ovviare a questa carenza, il MIUR ha in progetto di pubblicare un decreto, di cui è stata diffusa una versione provvisoria: https://www.orizzontescuola.it/coronavirus-ecco-bozza-decreto-con-misure-per-scuola-esami-di-stato-concorsi-a-cattedra-ammissione-classe-successiva-recupero-crediti-scarica-pdf/

[2] Recentemente sono stati pubblicati due libri che avvertono la medesima urgenza di ricostruire, anche a favore di molti colleghi, le dinamiche storiche che hanno interessato la scuola italiana nell’ultimo trentennio, con il proposito di permettere un giudizio più articolato e ponderato sui provvedimenti recenti, che in molti casi vorrebbero proprio occultare tale continuità storica e pretendere di essere interpretati come assolute innovazioni. Soprattutto quando a difenderli sono rappresentanti politici che, prima di assumere responsabilità ministeriali e di governo, avevano attaccato le riforme che coinvolgevano la scuola e promesso di modificarle. Tali testi, sui quali ci piacerebbe ritornare in prossimi interventi sono: A.Angelucci-G.Aragno, Le mani sulla scuola (con introduzione di P.Bevilacqua), Castelvecchi, Roma 2020; AA.VV. (a c.di S:Colella, D.Generali e F.Minazzi), La scuola dell’ignoranza, Mimesis, Milano 2019.

[3] Riprendo queste informazioni dall’articolo di R.Latempa, Scuola e valutazione ai tempi del Covid, tra Fondazione Agnelli e INVALSI.

[4] Si fa riferimento alle posizioni di Angelo Malinverno, pubblicate nel 2000. Cfr. G.Carosotti, L’ignoranza. Obiettivo formativo della nuova scuola, in AA.VV., La scuola dell’ignoranza, cit., pp. 153-156.

[5] «Condizione preliminare di ogni cambiamento sarebbe stata l’abolizione della libertà d’insegnamento dei singoli insegnanti, che ormai, in una situazione di “profondo radicamento di una cultura democratica” non aveva più senso». D.Generali, Dal progetto ’92 alla Buona scuola, in AA.VV., La scuola dell’ignoranza, cit., p. 30. La citazione interna è tratta da F.Butera (a cura di), Il libro verde della pubblica amministrazione, prefazione di Luigi Berlinguer, Introduzione di Vittorio Campione, Franco Angeli, Milano 1999, pp.71-73.

[6] A.Angelucci-G.Aragno, Le mani sulla scuola, cit., pp.81 sgg.

[7] Alla fine dell’anno solare 2019 tutte le scuole italiane hanno dovuto completare la Rendicontazione sociale, un documento on line, pubblico, nella quale la scuola rende conto di avere gestito il proprio percorso formativo in funzione delle richieste degli stakeholders esterni. I quali, in questo modo, diventano i soggetti in funzione dei cui interessi la singola storia deve impostare la propria didattica.

[8] A.Angelucci-G.Aragno, op,cit., pag.140.


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24 APRILE 2020