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Quando si comincia a leggere un libro, lo si fa quasi sempre con qualche aspettativa. Per me, affrontare un libro di Carlo Olmo implica sempre molta trepidazione. I suoi testi sono molto densi, scritti con eleganza ma difficili. So che mi aspetta un lavoro paziente, che dovrò rileggere i passaggi più ostici, che sarà necessario scoprire e meditare attentamente i riferimenti in nota, anche per scoprire che ne conosco pochi. So anche che il lavoro, se fatto con cura, mi porterà gioia, intesa con Spinoza come un accrescimento della potenza della mente (e dunque del corpo). Cerco di riflettere sulle ragioni delle mie difficoltà di lettore e comprendo che un libro di Carlo Olmo dovrebbe essere inteso come un segmento di un’opera, come l’esito parziale e contingente, ma insieme profondamente radicato, del lavoro (di un) intellettuale. Ogni espressione andrebbe qui meditata con cura: opera (e non prodotto scientifico, per usare il gergo della valutazione su cui Olmo ha riflettuto con lucidità); lavoro, inteso come costruzione paziente di una trama di riferimenti e di orientamenti che si richiamano, di libro in libro; intellettuale, nell’accezione di una figura per tanti aspetti oggi difficilmente riproducibile, che ha segnato i cammini della cultura del XX secolo e delle forme di produzione e riproduzione dei saperi nel mondo universitario e più in generale nella società. Sì, perché Carlo Olmo, il suo lavoro e i suoi libri, la sua biografia, i modi nei quali ha assunto impegni e responsabilità dentro e fuori dall’università, incarnano un’idea del ruolo dell’intellettuale critico e autoriflessivo, proteso a influenzare gli indirizzi della sua disciplina, ma anche a dialogare con altre culture e saperi, con la politica e con la società.
Senza mettere a fuoco questo sfondo, senza assumere come ogni testo di Olmo sia anche un’auto-bio-grafia, una scrittura della vita che riflette su sé stessa e sul suo modo di abitare la società e i saperi, mi sembra che il senso generale del lavoro dell’Autore, e in particolare di questo suo libro, rischino di andare irrimediabilmente perduti. Progetto e racconto. L’architettura e le sue storie (Donzelli, 2020) deve essere interpretato come un tassello, dentro un mosaico più ampio e articolato che intrama architettura, città, storia e politica. Non è dunque un caso che il libro si apra con due mosse a mio avviso decisive. La prima sta nella dedica a Bernard Lepetit, di cui Olmo ricorda la prematura scomparsa e il volume curato insieme: La città e le sue storie (Einaudi, 1995). Con questa dedica Olmo ricostruisce un filo narrativo, un percorso individuale e collettivo, al termine del quale la riflessione torna sulla scrittura della storia (in questo caso dell’architettura), come occasione per pensare senso e destino della ragione storica. La seconda mossa è contenuta nella Premessa, nella quale Olmo, ringraziando un gran numero di colleghi e lettori, ricorda che «Il libro chiude un lungo periodo di studi e ricerche che hanno preso corpo in tre libri precedentemente tutti editi da Carmine Donzelli (Architettura e Novecento, Architettura e storia, Città e democrazia) e da una lunga serie di articoli preparatori usciti in diverse riviste e raccolte di saggi o presentati in seminari, conferenze, convegni» (p. VII). Progetto e racconto non è una ricapitolazione, ma non può essere letto senza avere precedentemente meditato quanto contenuto negli altri libri citati. Negli slittamenti e nelle progressive messe a fuoco di questo denso corpus, Olmo costruisce il suo discorso che tiene insieme la storia, prima di tutto quella del XX secolo e della (crisi della) modernità e della democrazia e le storie (dell’architettura, della città, delle teorie e delle pratiche del progetto). Storia interna e storia esterna, storia delle idee, delle retoriche, delle tecniche e delle professioni, sono intrecciate da Olmo in molti modi diversi, secondo flessioni che mostrano la natura stratificata delle pratiche e dei discorsi. Non sono davvero in grado di sciogliere questi intrecci, di dipanare la matassa di cui Olmo mostra la natura aggrovigliata e non lineare. Mi mancano le competenze specifiche, ed anche la cultura storiografica. Tuttavia, in questo libro, e in larga misura anche nei precedenti, mi sembra di cogliere alcuni tratti di una famiglia di “immagini” d’insieme che credo possano essere preziosi non solo per la «piccola corporazione» degli storici dell’architettura (p. 17) a cui Olmo sente di appartenere, ma per chiunque abbia a cuore una riflessione libera e critica sulla città tra architettura e società.
Sincronia e diacronia: il tempo e i tempi
Nel capitolo intitolato “Sulla conoscenza storica in architettura”, che apre il libro dopo l’introduzione e che ha una forte connotazione programmatica, Olmo prende le mosse dalla constatazione che la stagione delle cosiddette “archistar”, nella quale fama e ricezione procedevano di pari passo, sembra al tramonto, e con lei tramonta anche lo statuto sociale del professionista, delle scuole e di quelli che Olmo chiama i suoi “retori”: critici e storici. In questo contesto l’architettura finisce per trovare in altro le proprie ragioni: la paura, come la discussione spesso autoreferenziale degli architetti sugli esiti della pandemia per le culture del progetto sembra dimostrare; la tecnocrazia, intesa come risposta a problemi che hanno radici innanzitutto sociali (ivi compresa la questione ambientale); una secolarizzazione che va di pari passo con la frammentazione dei saperi (p. 17). Come può la storia dell’architettura, in questa congiuntura, sottrarsi al declino e contribuire alla più generale riflessione storica sul XX secolo?
Questa domanda, che in forme diverse pervade l’intero libro, e che anima gli straordinari saggi della seconda sezione, vere e proprie lezioni magistrali che esemplificano uno stile e una postura del lavoro storico come «critica al presente», richiede, per essere corrisposta, una interpretazione radicale del fare architettura, che vorrei qui provare a semplificare e rilanciare. Questa interpretazione è, per dirla con Olmo, “diacronica”, in opposizione a una «deriva sincronica» che «fa scivolare la genesi dello spazio in un’azione sempre più legata all’avventura intellettuale o professionale di un attore» (p. 31). Perché l’architettura è diacronica? Perché il suo luogo è un campo nel quale si riconosce «un intreccio indissolubile tra pratiche e rappresentazioni collettive, con la presenza imprescindibile dell’azione soggettiva. Un edificio o una città sono il deposito di razionalità tentate, istituzionali, tecniche, artistiche; testimoniano lo stratificarsi di immaginari sociali sempre rinnovati» (p. 30). Questa immagine della natura diacronica dell’architettura implica un intreccio di negoziazioni, dialoghi, diritti e bisogni che sempre meno sono riconducibili al modello della committenza. Io credo che una piena comprensione del lavoro di Olmo debba partire da qui, da questa immagine dell’intreccio delle pratiche, delle narrazioni, delle istituzioni, intreccio nel quale «l’individualità non si può esaurire storiograficamente nel rilievo assoluto dato al gesto dell’architetto artista» (p. 35).
Storia e critica
Proprio intorno all’idea di storia, nella congiuntura della “chiusura” (che non è mai la fine) del secolo breve e delle culture del moderno, si gioca la partita, per Olmo decisiva, della relazione tra critica e storia. Nei molti passaggi del testo che richiamano questo tema, Olmo ha in mente anche il modo in cui, negli ultimi decenni, si è riconfigurata l’area della ricerca storica, nello slittamento «dalla narrazione alla professionalizzazione» (pp. 41 sgg.) che ha investito in prima istanza la storia dell’architettura moderna e contemporanea. Questo slittamento, secondo Olmo, trova la sua ragione nell’assenza di una riflessione sui tempi plurali di questa storia, che ha come conseguenza l’isolamento del progetto dall’opera, dell’architetto dagli altri attori del cantiere, del piano urbanistico dalla politica e dalle politiche urbane. Un isolamento che finisce per isolare autore e opera dal campo denso entro cui prendono corpo il progettare e il costruire, ma anche il regolare e il governare.
Scrive Olmo in un passaggio illuminante: «Storici che fanno di una processualità, tutt’altro che lineare e mai scontata, un’aritmia sincopata segnata da tempi la cui connessione è affidata alla capacità descrittiva dello studioso. Il mestiere del critico […] appare così non solo dominare anche la scena storiografica, ma segnare, con i suoi legami con un’operatività prima ideologica, poi mercantile, le forme narrative di questa storia» (p. 26). Il depotenziamento della peculiarità del lavoro storico, della trama dei tempi, delle narrazioni e delle pratiche che può essere disvelata solo abbandonando la logica dei “casi studio”, è dunque l’altra faccia dell’impoverimento della critica nella sua funzione di stimolo al progetto. Non si tratta dunque di opporre e isolare storia e critica, ben sapendo che il pensiero critico necessita, nella chiusura della sua stagione moderna, di essere profondamente rimeditato, ma di ripensarne i nessi in una chiave che sia in grado di «educare al giudizio critico» (p. 93 sgg.), rifondando anche radicalmente funzione e responsabilità delle discipline storiche dentro le scuole di architettura.
Produzione e costruzione
Le difficoltà in cui versa la storia dell’architettura moderna e contemporanea non hanno a che vedere, secondo Olmo, esclusivamente con la mancata connessione tra fonti e interpretazioni, ma anche con un pensiero dello spazio largamente insufficiente a pensare la complessità dei tempi, delle relazioni e delle pratiche. I passaggi che Olmo dedica alla necessità di integrazione tra una storia della produzione (dello spazio) e una storia della costruzione sono a mio avviso illuminanti. Scrive Olmo: «La analisi sulle genesi dei luoghi continuano a tenere distinte produzione e costruzione dello spazio. Produzione si identifica ancora con produzione sociale dei luoghi: attori, processi, azioni che stanno in qualche misura prima della genesi dello spazio. Costruzione rimane una messa in ordine in un tempo definito di giurisdizioni, tecniche (con i loro codici), mestieri (con i loro mercati), ma anche di attori, processi e azioni del cantiere. Uno slittamento, all’apparenza semantico, che non affronta l’integrazione o il possibile conflitto tra storiografie che, ad oggi, non sono state in grado di risolvere la discrasia tra spazio sociale e materiale, tra spazio relativo e discontinuo» (p. 27). Dalla mia prospettiva, queste indicazioni di Olmo non sono preziose esclusivamente per l’autoriflessività del lavoro dello storico dell’architettura. Esse alludono alla necessità di leggere insieme i mutamenti tecnologici e operativi della filiera del costruire con le pratiche di interazione politica e sociale che sovraintendono ai processi di produzione e trasformazione della città. Solo tenendo insieme spazio e società, progetto e tecniche, produzione e cantiere, possiamo comprendere quel che è in atto nel campo dell’architettura, e la riflessione dello storico è in questo senso esemplare. Di qui può partire una rinnovata alleanza tra l’istanza storica e le culture del progetto, da forgiare nel calderone della mutazione in atto nelle pratiche discorsive, tecnologiche, sociali e istituzionali del fare architettura.
Narrazione e documento
Per compiere le operazioni culturali cui Olmo allude e che abbiamo provato a ricostruire nei passaggi precedenti, è necessario riconnettere. Innanzitutto, riconnettere narrazione e documento (p. 44 e sgg.), al fine di mettere in campo «indagini sul progetto come organizzazione di saperi tecnici e relazionali, come practice e come professione strutturata da processi, quasi sempre negoziali e conflittuali» (ibid). Ricucire la narrazione storica alla dimensione documentale, arrovellarsi sulle fonti, significa, per Olmo, rilanciare il mestiere dello storico all’intersezione tra tecniche, regole, interazioni sociali, lungo una linea che mi piacerebbe definire (ma non so quanto l’Autore sarebbe d’accordo) storiografia materialistica delle pratiche. Questo sforzo di ricucitura, che è anche un tentativo di ridare forza dentro e fuori dall’accademia al discorso della storia con riferimento alla città e ai suoi manufatti, è a mio avviso decisivo anche per un’architettura e un’urbanistica capaci di una postura auto-riflessiva e insieme di uno sguardo non autoreferenziale. Su questo terreno Progetto e racconto, ma più in generale il percorso intellettuale di Carlo Olmo, costituiscono una pietra di inciampo ineludibile per un pensiero a venire dell’architettura e della città, nel chiasma tra spazio e società.
Gabriele Pasqui
N.d.C. - Gabriele Pasqui, professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica al Politecnico di Milano, ha diretto il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani dal 2013 al 2019. Attualmente è responsabile scientifico di un progetto di ricerca sulle Fragilità territoriali selezionato dal Miur nell’ambito dell’iniziativa “Dipartimenti di Eccellenza”.
Tra i suoi libri: Il territorio delle politiche (F. Angeli, 2001); Confini milanesi (F. Angeli, 2002); Progetto, governo, società (F. Angeli, 2005); Territori: progettare lo sviluppo (Carocci, 2005); Città, popolazioni, politiche (Jaca Book, 2008); con P. C. Palermo, Ripensando sviluppo e governo del territorio (Maggioli, 2008); con A. Lanzani, L'Italia al futuro (FrancoAngeli, 2011); con A. Balducci e V. Fedeli, Strategic planning for contemporary urban regions (Ashgate, 2011; Routledge, 2016); Urbanistica oggi (Donzelli, 2017); La città, i saperi, le pratiche (Donzelli, 2018); con C. Sini, Perché gli alberi non rispondono. Lo spazio urbano e i destini dell'abitare (Jaca Book, 2020).
Per Città Bene Comune ha scritto: Pensare e fare urbanistica, oggi (26 febbraio 2016); Come parlare di urbanistica oggi (8 giugno 2017); I confini: pratiche quotidiane e cittadinanza (11 gennaio 2019); Più Stato o più città fai-da-te? (21 febbraio 2020).
Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: Carlo Magnani, L’architettura tra progetto e racconto (11 settembre 2020); Piero Ostilio Rossi, Modi (e nodi) del fare storia in architettura (2 ottobre 2020).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 23 OTTOBRE 2020 |
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F. Lazzari, Paesaggi dell'immigrazione in Brasile, commento a: D. Rigatti, E. Trusiani, Architettura e paesaggio in Serra Gaúcha (Ed. Nuova Cultura, 2017)
F. de Agostini, De carlo e l'ILAUD: una lezione ancora attuale, commento a: P. Ceccarelli (a cura di), Giancarlo De Carlo and ILAUD (Fondazione Ordine Architetti Milano, 2019)
P. O. Rossi, Modi (e nodi) del fare storia in architettura, commento a C. Olmo (a cura di), Progetto e racconto (Donzelli, 2020)
A. Mela, La città e i suoi ritmi (secondo Lefebvre), commento a: H. Lefebvre, Elementi di ritmanalisi, a cura di G. Borelli (Lettera Ventidue, 2019)
P. Baldeschi, La prospettiva territorialista alla prova, commento a: (a cura di) A. Marson, Urbanistica e pianificazione nella prospettiva territorialista (2020)
C. Magnani, L'architettura tra progetto e racconto, commento a: C. Olmo, Progetto e racconto (Donzelli, 2020)
F. Gastaldi, Nord vs sud? Nelle politiche parliamo di Italia, commento a: A. Accetturo e G. de Blasio, Morire di aiuti (IBL, 2019)
R. Leggero, Curare l'urbano (come fosse un giardino), commento a: M. Martella, Un piccolo mondo, un mondo perfetto (Ponte alle Grazie, 2019)
E. Zanchini, Clima: l'urbanistica deve cambiare approccio, commento a: M. Manigrasso, La città adattiva (Quodlibet, 2019)
A. Petrillo, La città che sale, commento a: C. Cellamare, Città fai-da-te (Donzelli, 2019)
A. Criconia, Pontili urbani: collegare territori sconnessi, commento a: L. Caravaggi, O. Carpenzano (a cura di), Roma in movimento (Quodlibet, 2019)
F. Vaio, Una città giusta (a partire dalla Costituzione), commento a: G. M. Flick, Elogio della città? (Paoline, 2019)
G. Nuvolati, Città e Covid-19: il ruolo degli intellettuali, commento a: M. Cannata, La città per l’uomo ai tempi del Covid-19 (La nave di Teseo, 2020)
P. C. Palermo, Le illusioni del "transnational urbanism", commento a: D. Ponzini, Transnational Architecture and Urbanism (Routledge, 2020)
V. Ferri, Aree militari: comuni, pubbliche o collettive?, commento a: F. Gastaldi, F. Camerin, Aree militari dismesse e rigenerazione urbana (LetteraVentidue, 2019)
E. Micelli, Il futuro? È nell'ipermetropoli, commento a: M. Carta, Futuro. Politiche per un diverso presente (Rubbettino, 2019)
A. Masullo, La città è mediazione, commento a: S. Bertuglia, F. Vaio, Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri, 2019)
P. Gabellini, Suolo e clima: un grado zero da cui partire, commento a: R. Pavia, Tra suolo e clima (Donzelli, 2019)
M. Pezzella, L'urbanità tra socialità insorgente e barbarie, commento a: A. Criconia (a cura di), Una città per tutti (Donzelli, 2019)
G. Ottolini, La buona ricerca si fa anche in cucina, commento a: I. Forino, La cucina (Einaudi, 2019)
C. Boano, "Decoloniare" l'urbanistica, commento a: A. di Campli, Abitare la differenza (Donzelli, 2019)
G. Della Pergola, Riadattarsi al divenire urbano, commento a: G. Chiaretti (a cura di), Essere Milano (enciclopediadelle donne.it, 2019)
F. Indovina, È bolognese la ricetta della prosperità, commento a: P. L. Bottino, P. Foschi, La Via della Seta bolognese (Minerva 2019)
R. Leggero, O si tiene insieme tutto, o tutto va perduto, Commento a: M. Venturi Ferriolo, Oltre il giardino (Einaudi, 2019)
L. Ciacci, Pianificare e amare una città, fino alla gelosia, commento a: L. Mingardi, Sono geloso di questa città (Quodlibet, 2018)
L. Zevi, Forza Davide! Contro i Golia della catastrofe, commento a: R. Pavia, Tra suolo e clima (Donzelli, 2019)
G. Pasqui, Più Stato o più città fai-da-te?, commento a: C.Cellamare, Città fai-da-te (Donzelli, 2019)
M. Del Fabbro, La casa tra diritto universale e emancipazione, commento a: A. Tosi, Le case dei poveri (Mimesis, 2017)
A. Villani, La questione della casa, oggi, commento a: L. Fregolent, R. Torri (a cura di), L'Italia senza casa (FrancoAngeli, 2018)
P. Pileri, Per fare politica si deve conoscere la natura, commento a: P. Lacorazza, Il miglior attacco è la difesa (People, 2019)
W. Tocci, La complessità dell'urbano (e non solo), commento a: C. S. Bertuglia, F. Vaio, Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri, 2019)
S. Brenna, La scomparsa della questione urbanistica, commento a: M. Achilli, L'urbanista socialista (Marsilio, 2018)
L. Decandia, Saper guardare il buio, commento a: A. De Rossi (a cura di), Riabitare l'Italia (Donzelli 2018)
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