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Il carretto dei gelati è un titolo spiritoso. Se capisco bene, sta per: «questo è quanto posso offrire». Ma probabilmente vuole anche esprimere la volontà dell’autore di farsi capire da tutti senza rinunciare alla qualità artigianale del ‘gelato’, ovvero alla ‘genuinità’ e alla ‘bontà’ dell’argomentazione. E, poiché la scrittura di Giorgio Piccinato ci ha abituati a una felice coniugazione della chiarezza del dettato con un elevato spessore analitico/interpretativo, possiamo prendere in mano il gelato, pardon il libro (Ed. Roma TrE-Press, 2020), con fiducia e buonumore.
L’operazione editoriale è quanto mai utile e opportuna: permette di affiancare agilmente alla dozzina di libri dell’autore – immancabili nella biblioteca di un urbanista – un corpo di saggi e di interventi che di quei libri sono il necessario complemento. Se i volumi sono usciti tra il 1965 e il 2009, ancora più ampio è l’arco temporale in cui hanno visto la luce gli scritti qui raccolti: 54 anni, dal 1962 al 2016. Questo consente di osservare meglio due traiettorie: quella personale di Giorgio Piccinato e quella della cultura e della politica urbanistica, in uno scenario ampio. Se al centro dell’attenzione c’è l’Italia, nella prima metà del libro sono presi in considerazione anche altri contesti – Inghilterra, Stati Uniti, America Latina, Estremo Oriente e Sud-est asiatico –, con un allargamento dell’orizzonte che risponde a una duplice esigenza: 1) sondare alcune delle dinamiche più significative in atto nel pianeta; 2) rendere possibili comparazioni tra i diversi mondi, così da migliorare la messa a fuoco della realtà italiana (non senza cogliere, come scrive Carlo Olmo nella bella introduzione, le differenze irriducibili fra «culture, società, economie», p. 8).
Nel libro, la Lettera dall’Inghilterra – un bilancio posto a introduzione del numero monografico di «Urbanistica» (n. 67/1977) sul Paese anglosassone – svolge la funzione che nelle spedizioni alpinistiche ha il campo base. Piccinato mette in luce l’intreccio di ragioni storiche che concorrono alla crisi di una modalità di pianificare le trasformazioni del territorio a cui l’urbanistica riformista di tutto il mondo aveva guardato come a una stella polare. Il «grande progetto civile che la Gran Bretagna ha incarnato [nel] dopoguerra» (p. 19) e che, tra il 1945 e i primi anni ’60, aveva all’attivo uno straordinario complesso di realizzazioni – greenbelt e new town, con la connessa formazione di un esteso demanio pubblico di aree fabbricabili – è crollato in un breve lasso di tempo. Non tanto per i limiti di quella politica urbanistica (che pure non mancavano), quanto piuttosto per il cedimento dei pilastri economici – pieno impiego, stato assistenziale, forte iniziativa pubblica in economia – che la rendevano praticabile. Un crollo a cui la politica non ha saputo/potuto rispondere con il rilancio di «un’iniziativa riformista di largo respiro» (p. 20).
Apro una parentesi. Il colpo di grazia, come si sa, lo porterà l’insediamento di Margaret Thatcher al numero 10 di Downing Street nel 1979. Nei suoi dodici anni di governo, l’Iron Lady non si limiterà ad aprire la strada al liberismo più sfrenato, ma si spingerà fino a sopprimere, nel 1986, il Greater London Council (e altre sei realtà consimili) cancellando un’istituzione dalla storia per molti versi gloriosa e disperdendone il ragguardevole patrimonio di competenze e di elaborazioni (1). Quando poi i laburisti ritorneranno al governo, sotta la guida di Tony Blair non faranno che proseguire sulla strada aperta dalla Thatcher.
La fecondità di quella cultura non è però andata del tutto perduta e dall’Inghilterra hanno continuato a venire indicazioni preziose. Basti pensare a Morte della città a grana fine (2), lo scritto con cui Colin Ward, nel 1989, segnalava una patologia che stava prendendo piede nelle città europee (e di cui le amministrazioni pubbliche hanno sottovalutato la portata, come attestano le devastazioni di molti contesti urbani registrate negli ultimi tre decenni). Per non dire dei non pochi casi in cui l’Inghilterra sì è resa nuovamente protagonista di concrete politiche urbanistiche volte a contrastare la caduta della qualità urbana degli insediamenti (3).
Ma torniamo al testo di Piccinato. Nella crisi che si andava delineando già negli anni ‘60, ha pesato, egli osserva, la mancata soluzione di un nodo istituzionale riguardante proprio il governo della Grande Londra: l’«effettivo (e mai avvenuto) trasferimento di poteri [al Greater London Council] da parte delle amministrazioni locali e di settore» (p. 22). Solo una simile riforma del governo locale avrebbe consentito di praticare la pianificazione sovracomunale. Si tratta di un nodo tuttora irrisolto in Gran Bretagna, come altrove (si pensi alla vicenda del Piano Intercomunale Milanese drasticamente interrotta quarant’anni fa con la Legge Regionale 23/81 che, a seguito dell’esito di un referendum, aboliva i comprensori. E, anche, al deserto, in fatto di politica urbanistica sovracomunale e non solo, che in Italia ha fatto seguito all’istituzione delle Città Metropolitane con la legge 7 aprile 2014/56).
In merito al riflusso che ha interessato la situazione inglese, la Lettera non manca di rilevare come abbiano pesato anche i passi falsi che, a partire dagli anni ’60, sono stati compiuti su due fronti: la sostituzione edilizia nei quartieri degradati e le cospicue realizzazioni di edilizia pubblica, operazioni nelle quali non si è saputo prevedere, e tantomeno evitare, lo scivolamento nella ghettizzazione sociale. Si è così condotti nel vivo della questione che più sta a cuore al ‘venditore di gelati’: «il ruolo […] dell’urbanistica nella dinamica sociale» (p. 19). Con un approccio che impronterà il suo lavoro successivo, Piccinato mette a nudo le contraddizioni e le insufficienze che si manifestano nella pratica disciplinare e nei suoi strumenti concettuali e operativi. Eccolo allora segnalare, per un verso, la perdita di efficacia del physical planning con la «decadenza del mito dello ‘stato finale’ dell’organizzazione spaziale» (p. 23) e, per altro verso, il ripiegamento degli urbanisti sulla messa a punto di interventi settoriali. Quanto poi alle elaborazioni riconducibili al social planning, in cui si era nel frattempo rifugiata buona parte della cultura urbanistica britannica di ispirazione riformista, l’autore della Lettera si mostra pessimista, rilevandone la scarsa capacità di incidere sui processi reali.
Nell’insieme, a essere in crisi, egli osserva, è «un uso dell’urbanistica come mezzo di prefigurazione di una società senza conflitti» (ibid.). La via d’uscita che Piccinato suggerisce consiste nel portare alla luce del sole, nella definizione delle scelte urbanistiche, sia gli interessi in gioco e i conflitti connessi, sia il percorso che si intende seguire per comporli. In filigrana, questa Lettera dall’Inghilterra del 1977 lascia così intravedere un impianto teorico e un programma di lavoro intesi a mettere la pratica urbanistica in condizione di tenere la rotta nelle acque agitate e insidiose con cui da tempo è costretta a navigare. I problemi rilevati in questo testo di oltre quarant’anni fa – viene da osservare – sono ancora tutti lì. Perché si compiano passi significativi nella direzione indicata da Giorgio Piccinato (e che non sia la disarmata adesione della Pubblica Amministrazione all’urbanistica contrattata), dovrebbero darsi, io credo, due condizioni:
1) il riconoscimento condiviso della piena valenza politica dell’urbanistica (smettendo di ricorre al paravento dell’urbanistica tecnica (4), dove lo specialismo è usato come camuffamento della portata sociale delle scelte e, alla fine, come pretesto per escludere i cittadini dal processo decisionale);
2) l’individuazione, non meno condivisa, dei valori su cui si impernia la convivenza civile; valori che chi ha responsabilità di governo della Cosa Pubblica dovrebbe essere tenuto a mantenere vivi e a tradurre in atti conseguenti.
Certo: facile a dirsi…: la conquista di queste condizioni-base non potrebbe che venire da una crescita diffusa della coscienza civile; cosa che, in molti contesti, Italia compresa, manifesta più regressioni che avanzamenti.
Il quadro di osservazione e i motivi di riflessione dei due testi riservati alla realtà americana sono in parte diversi. Il cuore dell’analisi è il saggio Utopia e violenza: note per un viaggio nella città latino-americana del 1996, mentre il più sintetico Il senso del moderno nella città americana del 2016 appare come una ripresa dei temi affrontati vent’anni prima, con un’attenzione particolare alla cultura architettonica (non va dimenticato che il primo libro del Nostro, del 1965, riguardava l’architettura (5), ambito che non ha mai perso di vista).
Nell’evidenziare la relativa facilità con cui i modi di fare città e architettura nelle due Americhe hanno attinto ai modelli europei, Piccinato ne mette in luce le ragioni. Se si fa sentire la scia lunga del colonialismo, in età contemporanea egli distingue due stagioni: la prima, in cui si è assistito a un’estesa riforma delle città per fare spazio alla presenza della borghesia emergente e ai valori e all’immaginario che essa incarnava; la seconda in cui si assiste a episodi significativi di nuovi insediamenti (spiccano, su tutti, le estese parti di espansione urbana di Caracas progettate da Carlos Raul Villanueva e Brasilia, l’episodio più eclatante, e squillante, di una città di fondazione nel Novecento). Se nella prima fase a fare da riferimento è la città ottocentesca europea (con Parigi in testa), nella seconda, tanto la figurazione quanto la definizione degli assetti insediativi hanno attinto a man bassa dalle elaborazioni del Movimento Moderno, da Le Corbusier in particolare.
Ma, forse ancor più significativi sono gli scarti dal modello. Il più indicativo, con tutta probabilità, è il grande complesso residenziale di El Silencio realizzato nel 1941, in cui Villanueva introduceva «un interessante variante: un sistema di portici di carattere commerciale, disegnato in forma volutamente neocoloniale, come se la nuova architettura non fosse abilitata a produrre un effetto-città» (p. 30). In tema di contaminazioni e revisioni dei modelli, credo meriti attenzione anche il gran lavoro compiuto, prima e dopo la guerra, da Josep Lluís Sert. Nelle proposte per alcune città dell’America Latina (6) di questo esponente di primo piano dei Ciam, emerge una perspicace correzione di rotta rispetto ai progetti-manifesto di Le Corbusier, da un lato, e di Gropius, dall’altro. Il capitolo delle autocritiche operanti che correggono i prototipi dei capifila è alquanto nutrito: è lì che l’esperienza dei Ciam trova, io credo, il suo interesse maggiore. Ma mi fermo qui: proseguire su questo filone ci porterebbe troppo lontano.
Per tornare al Carretto dei gelati, il nodo più rilevante su cui l’autore insiste è l’enorme divario che in America Latina si è verificato fra i piani urbanistici e la realtà sociale: un fatto che egli sintetizza nel binomio utopia/violenza (non a caso posto in evidenza nel titolo del saggio del 1996). Mentre nel Nuovo Mondo le visioni del modernismo europeo hanno trovato più facilmente la possibilità di tradursi in realizzazioni concrete, viene in tutta evidenza come la coperta sia corta; come cioè, quantomeno in quel contesto, la triade urbanistica, disegno urbano e architettura, da sola, non sia in grado di rispondere adeguatamente ai problemi sociali né di essere uno strumento efficace per assicurare un assetto ordinato agli sviluppi insediativi. Da qui la messa in evidenza delle molte manifestazioni patologiche delle megalopoli sudamericane, a cominciare dal costituirsi di forti disuguaglianze sociali; per non dire della insostenibilità ecologica e del proliferare di estesi insediamenti informali: «un paesaggio fatto di grandi contrasti sociali, ove domina il fiato pesante e opprimente della disuguaglianza, ma dove – osserva Piccinato – si coglie anche il brulichio vitale di una umanità che non si arrende, che costruisce il proprio spazio» (p. 45).
Il saggio La città asiatica (del 2002), che chiude la prima parte del libro, risponde anch’esso all’urgenza di comprendere una distanza: quella che in questo caso intercorre fra le forme insediative e sociali che caratterizzano le città europee e il «sistema di città dell’Asia-Pacifico». Per cominciare, Piccinato rimarca la grande differenza rispetto agli agglomerati urbani dell’Africa e dell’America Latina: mentre in questi casi «la crescita urbana è il prodotto del progressivo impoverimento della campagna, che porta alla formazione di cinture urbane miserabili», la dirompente crescita insediativa registrata in Estremo Oriente e nel Sud-est asiatico è costituita da «luoghi estremamente dinamici, socialmente ed economicamente» (p. 50). «Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong, le cosiddette quattro tigri, poi Indonesia, Malesia, Tailandia e Giappone negli anni Ottanta e nella prima metà degli anni Novanta [del secolo scorso] hanno dato luogo a forme metropolitane assolutamente straordinarie, che non trovano alcun riscontro con le caratteristiche dell’urbanizzazione europea sviluppatasi in relazione alla rivoluzione industriale» (p. 51). Quantunque il quadro sia alquanto variegato per via dei diversi ruoli svolti dai singoli contesti (produzione industriale, fornitura di servizi, movimentazione delle merci), il tratto che accomuna queste concentrazioni insediative è il loro essere protagoniste di un’espansione economica travolgente all’insegna della globalizzazione e della competizione mondiale: «producono e servono, attraverso l’esportazione, il mondo intero» (ibid.)
La marcia trionfale non è priva di insidie: dietro l’angolo c’è la fragilità (come attestato dal crollo dell’Indonesia a seguito della crisi del 1997-98 che ha visto i poveri passare «da 22 a 98 milioni», p. 52). E, comunque, sul lungo periodo non mancheranno di farsi sentire alcuni nodi strutturali (che Piccinato non manca di rimarcare):
- l’aggravarsi degli squilibri fra città e campagna (la corsa cinese all’accaparramento di terre coltivabili in Africa è una spia);
- le difficoltà ad assicurare la sostenibilità ecologica («Solo due [città], Singapore e Hong Kong, e in misura minore Tokyo, possono vantare considerevoli successi nel controllo ambientale», p. 53);
- il grande peso che, in questo modello di sviluppo, ha il settore immobiliare;
- il caratterizzarsi dei contesti urbani come la sede del «più sfrenato consumismo» (p. 53);
- infine, l’estendersi delle sacche di povertà («le disparità di reddito più rilevanti si trovano in Africa e nelle città globali», p. 170);
Ce n’è abbastanza perché l’autore, in un altro scritto, perda il suo aplomb: «Città globale? No grazie» (p. 170).
La questione del centro storico (uno scritto del 1978) segna, nel libro, il ‘ritorno’ al quadro europeo. La distanza dai mondi di cui sopra si fa ancora più evidente: «in tutte le città d’Europa», «la stratificazione e la compenetrazione di epoche diverse sono la materia stessa dell’urbano, in cui si riconosce il filo di una continuità che è uno dei valori sociali ed economici fondamentali della città» (p. 65). In questa sintetica affermazione, c’è tutto quanto serve a definire la città europea. Ma, non meno significativa è l’individuazione del divario che, nello stesso contesto europeo, è venuto allontanando la città moderna dalla città storica: «La città come luogo d’informazione e di scambio – di messaggi e di beni – la città come espressione/rappresentazione collettiva, la città come forma simbolica sono tutte interpretazioni che trovano nella storia una coerenza e ricchezza di espressione che non ha eguali nella città moderna» (p. 66). Piccinato si addentra nell’individuazione delle cause del radicale mutamento che si è consumato (pesco da questo e da altri scritti del libro):
- l’espansione della città anche a seguito della rivoluzione industriale;
- l’utilizzo della questione igienica per lo scatenamento di gigantesche operazioni di rinnovo urbano che rispondono in realtà all’esigenza di un controllo sociale da parte dei ceti dominanti;
- l’adozione sistematica della zonizzazione che, «proposta di norma come una neutrale articolazione delle funzioni nello spazio, si rivela subito uno strumento politico di segregazione sociale» (p. 68);
- la ricerca di una (presunta) efficienza nelle comunicazioni (con i conseguenti sventramenti che hanno contrassegnato l’avvento dell’automobile);
- l’ingresso massiccio del capitale nelle operazioni immobiliari a cominciare dalle operazioni di trasformazione dei tessuti storici;
- le nuove gerarchizzazioni dello spazio urbano, con l’assalto ai centri storici delle funzioni economicamente più forti (il terziario direzionale o, laddove questo è meno incisivo come nelle cosiddette “città d’arte”, la penetrazione delle attività legate al turismo fino a fare degli aggregati monofunzionali);
- la sostituzione, ai vertici dei quadri simbolici, delle «istituzioni civili e religiose» «con i templi del consumo e del potere finanziario» (p. 174);
- infine «la perdita del ‘luogo’, col suo intreccio rassicurante di informazioni, comunicazioni e partecipazione alla vita comunitaria [che] ha lasciato posto alla formazione di territori urbani estremamente poveri di elementi di identificazione sociale» (p. 123).
Tutto giusto; ma nella frattura che si è consumata, soprattutto da un secolo a questa parte, c’è qualcosa di più profondo, a cominciare dalla perdita di consapevolezza dei valori incarnati nella città ereditata dalla storia e dalla caduta stessa di quei valori. Nell’esercizio della democrazia si è trascurata la rilevanza che la questione del fare città ha nella politica e di questo vuoto culturale e ideale si è pagato e si continua a pagare lo scotto. Una riprova, se ce n’è bisogno, è la sostanziale continuità fra la politica urbanistica praticata dal fascismo e quella perseguita nella Ricostruzione, rimarcata dallo stesso Piccinato.
L’autore dà poi giustamente conto della faticosa conquista da parte dei saperi e delle partiche disciplinari del valore d’assieme costituito dai tessuti urbani (uscendo così, con grave ritardo, da un’idea di tutela e conservazione limitata ai soli “monumenti”). Ed ha ragione da vendere quando afferma – in uno scritto del 2003 – che la svolta può avvenire «solo attraverso un processo sociale di ricognizione e interpretazione» (p. 91). Non meno preziose – in uno scritto del 2015 in onore di Mario Manieri Elia – sono le osservazioni sulle specificità irriducibili delle città: un potenziale da salvaguardare e da opporre agli effetti devastanti dell’omologazione, tanto più che «la specificità locale è divenuta, oggi più che mai, un elemento essenziale proprio nel quadro della competizione imposta dal mercato globale» (p. 103). Da cui l’invito a «costruire una storia urbana più attendibile, o per lo meno più accettabile a quanti, come noi, sentono l’inadeguatezza di narrative più tradizionali» (p. 104). Niente male detto da un intellettuale «considerato uno storico dagli urbanisti e un urbanista dagli storici» (p. 106). Del resto è solo da queste e da (ben) altre sofferenze che nascono e fioriscono le coscienze critiche.
Giancarlo Consonni
Note: 1) Tra le molte elaborazioni, un lavoro che, a mio avviso, può testimoniare della ricchezza delle conoscenze e delle competenze accumulate è il progetto per Hook New Town del 1961, pubblicato in modo esemplare in [Greater London Council], The Planning of a New Town, London 1961. Come è noto, il progetto non venne realizzato. 2) Colin Ward, Death of the fine-grain city, in Welcome, Thinner City: Urban Survival in the 1990s. Bedford Square Press, London 1989, trad. it. di Giacomo Borella, Morte della città a grana fine, in G. Borella (a cura di), Architettura del dissenso, Elèuthera, Milano 2016, pp. 130-141. 3) Cfr. Francesco Vescovi, Il rinascimento urbano in Inghilterra. Lezioni di strategia progettuale tra sostenibilità e sviluppo economico, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2011; ediz. in inglese Designing the Urban Renaissance: Sustainable and competitive place making in England, Springer 2013. 4) «Tecnica Urbanistica» è il titolo del primo corso di Urbanistica istituito in un’università italiana nell’a.a. 1929-30. A tenerlo, presso il Politecnico di Milano, era Cesare Chiodi. Riferimento cardinale dell’insegnamento di Chiodi era l’urbanistica tedesca, che ha in Hermann Joseph Stübben e Reinhard Baumeister le figure chiave. Sulla strada aperta da questi apripista, l’urbanistica si è venuta affermando come una disciplina tecnica e ammantata di oggettività tanto nelle analisi quanto nelle definizioni progettuali. Così Tecnica urbanistica ha potuto traslarsi in Urbanistica tecnica, con il conseguente camuffamento della portata sociale e politica delle sue determinazioni. Anche l’urbanistica dei Ciam degli anni trenta, nella componente che privilegiava il “lottizzamento razionale” (l’altro filone è quello lecorbuseriano) non si è discostata molto da questa matrice. È dunque ragionevole sostenere che il contributo tedesco alla definizione della disciplina è stato assai rilevante (ed è merito di Giorgio Piccinato averlo rimarcato per primo in Italia ne La costruzione dell'urbanistica. Germania 1871-1914, Officina, Roma 1974). Ma l’urbanistica in età contemporanea deve molto anche alla cultura anglosassone. Una fortuna minore è invece spettata a Ildefons Cerdá che, pure, precedendo tutti, nel 1869, con la Teoría general de la urbanización (anticipato nella sostanza dal suo Piano per Barcellona di dieci anni prima) aveva indicato lucidamente le chiavi per affrontare la modernizzazione degli insediamenti urbani senza farsi travolgere dallo scientismo semplificatore e dalla razionalità strumentale. 5) G. Piccinato, L'architettura contemporanea in Francia, Cappelli, Bologna 1965. 6) Dapprima con il progetto della Cidade dos Motores (Brasile) del 1943 (con Paul Lester Weiner e Paul Schulz) e poi, sempre assieme a P. L. Weiner, con i progetti della città nuova di Chimbote (Perù) del 1947-48 e del centro civico e commerciale della città di Cali in Colombia, 1950.
N.d.C. - Giancarlo Consonni, professore emerito di Urbanistica del Politecnico di Milano, dirige l'Archivio Piero Bottoni che ha contribuito a fondare.
Tra i suoi libri: L'internità dell'esterno. Scritti su l'abitare e il costruire (Clup, 1989); con L. Meneghetti e G. Tonon (a cura di), Piero Bottoni. Opera completa (Fabbri, 1990); Addomesticare la città (Tranchida, 1994); Dalla radura alla rete. Inutilità e necessità della città (Unicopli, 2000); con G. Tonon, Terragni inedito (Ronca, 2006); La difficile arte. Fare città nell'era della metropoli (Maggioli, 2008); La bellezza civile (Maggioli, 2013); Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà (Solfanelli, 2016), La forma della convivialità. I tavoli ellittici di Piero Bottoni (La Vita Felice, 2018). Sue raccolte di poesia sono pubblicate con i tipi di Scheiwiller ed Einaudi.
Per Città Bene Comune ha scritto: Un pensiero argomentante, dialogico, sincretico, operante (2 giugno 2016); Museo e paesaggio: un'alleanza da rinsaldare (13 gennaio 2017); Coscienza dei contesti come prospettiva civile (9 febbraio 2018); In Italia c'è una questione urbanistica? (15 giugno 2018); Le ipocrisie della modernità (23 novembre 2018); La rivincita del luogo (25 luglio 2019); Le pratiche informali salveranno le città? (15 novembre 2019).
Dei libri di Giancarlo Consonni hanno scritto in questa rubrica: Pierluigi Panza (16 dicembre 2016); Paolo Pileri (10 febbraio 2017); Vezio De Lucia (18 maggio 2017); Andrea Villani (15 dicembre 2017); Rita Capurro (23 gennaio 2018).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 20 NOVEMBRE 2020 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
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L. Piccioni, La critica del capitalismo da Salzano a Nebbia, commento a: G. Nebbia, La terra brucia, a cura di L. Demichelis, (Jaca Book 2019)
M. Bolocan Goldstein, Spazio & società per ripensare il socialismo, commento a: B. Sala, Società: per azioni (Einaudi, 2020)
M. Landsberger, L'architettura moderna in Sicilia, commento a: G. Di Benedetto, Antologia dell’architettura moderna in Sicilia (40due edizioni, 2018)
M. Balbo, Trasporti: più informazione, più democrazia, commento a M. Ponti, Grandi operette (Piemme, 2019)
F. C. Nigrelli, Senza sguardo territoriale la ripresa fallisce, commento a: A. Marson (a cura di), Urbanistica e pianificazione nella prospettiva territorialista (Quodlibet, 2019)
G. Pasqui, La Storia tra critica al presente e progetto, commento a: C. Olmo, Progetto e racconto (Donzelli, 2020)
F. Lazzari, Paesaggi dell'immigrazione in Brasile, commento a: D. Rigatti, E. Trusiani, Architettura e paesaggio in Serra Gaúcha (Ed. Nuova Cultura, 2017)
F. de Agostini, De carlo e l'ILAUD: una lezione ancora attuale, commento a: P. Ceccarelli (a cura di), Giancarlo De Carlo and ILAUD (Fondazione Ordine Architetti Milano, 2019)
P. O. Rossi, Modi (e nodi) del fare storia in architettura, commento a C. Olmo (a cura di), Progetto e racconto (Donzelli, 2020)
A. Mela, La città e i suoi ritmi (secondo Lefebvre), commento a: H. Lefebvre, Elementi di ritmanalisi, a cura di G. Borelli (Lettera Ventidue, 2019)
P. Baldeschi, La prospettiva territorialista alla prova, commento a: (a cura di) A. Marson, Urbanistica e pianificazione nella prospettiva territorialista (Quodlibet, 2019)
C. Magnani, L'architettura tra progetto e racconto, commento a: C. Olmo, Progetto e racconto (Donzelli, 2020)
F. Gastaldi, Nord vs sud? Nelle politiche parliamo di Italia, commento a: A. Accetturo e G. de Blasio, Morire di aiuti (IBL, 2019)
R. Leggero, Curare l'urbano (come fosse un giardino), commento a: M. Martella, Un piccolo mondo, un mondo perfetto (Ponte alle Grazie, 2019)
E. Zanchini, Clima: l'urbanistica deve cambiare approccio, commento a: M. Manigrasso, La città adattiva (Quodlibet, 2019)
A. Petrillo, La città che sale, commento a: C. Cellamare, Città fai-da-te (Donzelli, 2019)
A. Criconia, Pontili urbani: collegare territori sconnessi, commento a: L. Caravaggi, O. Carpenzano (a cura di), Roma in movimento (Quodlibet, 2019)
F. Vaio, Una città giusta (a partire dalla Costituzione), commento a: G. M. Flick, Elogio della città? (Paoline, 2019)
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P. C. Palermo, Le illusioni del "transnational urbanism", commento a: D. Ponzini, Transnational Architecture and Urbanism (Routledge, 2020)
V. Ferri, Aree militari: comuni, pubbliche o collettive?, commento a: F. Gastaldi, F. Camerin, Aree militari dismesse e rigenerazione urbana (LetteraVentidue, 2019)
E. Micelli, Il futuro? È nell'ipermetropoli, commento a: M. Carta, Futuro. Politiche per un diverso presente (Rubbettino, 2019)
A. Masullo, La città è mediazione, commento a: S. Bertuglia, F. Vaio, Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri, 2019)
P. Gabellini, Suolo e clima: un grado zero da cui partire, commento a: R. Pavia, Tra suolo e clima (Donzelli, 2019)
M. Pezzella, L'urbanità tra socialità insorgente e barbarie, commento a: A. Criconia (a cura di), Una città per tutti (Donzelli, 2019)
G. Ottolini, La buona ricerca si fa anche in cucina, commento a: I. Forino, La cucina (Einaudi, 2019)
C. Boano, "Decoloniare" l'urbanistica, commento a: A. di Campli, Abitare la differenza (Donzelli, 2019)
G. Della Pergola, Riadattarsi al divenire urbano, commento a: G. Chiaretti (a cura di), Essere Milano (enciclopediadelle donne.it, 2019)
F. Indovina, È bolognese la ricetta della prosperità, commento a: P. L. Bottino, P. Foschi, La Via della Seta bolognese (Minerva 2019)
R. Leggero, O si tiene insieme tutto, o tutto va perduto, Commento a: M. Venturi Ferriolo, Oltre il giardino (Einaudi, 2019)
L. Ciacci, Pianificare e amare una città, fino alla gelosia, commento a: L. Mingardi, Sono geloso di questa città (Quodlibet, 2018)
L. Zevi, Forza Davide! Contro i Golia della catastrofe, commento a: R. Pavia, Tra suolo e clima (Donzelli, 2019)
G. Pasqui, Più Stato o più città fai-da-te?, commento a: C.Cellamare, Città fai-da-te (Donzelli, 2019)
M. Del Fabbro, La casa tra diritto universale e emancipazione, commento a: A. Tosi, Le case dei poveri (Mimesis, 2017)
A. Villani, La questione della casa, oggi, commento a: L. Fregolent, R. Torri (a cura di), L'Italia senza casa (FrancoAngeli, 2018)
P. Pileri, Per fare politica si deve conoscere la natura, commento a: P. Lacorazza, Il miglior attacco è la difesa (People, 2019)
W. Tocci, La complessità dell'urbano (e non solo), commento a: C. S. Bertuglia, F. Vaio, Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri, 2019)
S. Brenna, La scomparsa della questione urbanistica, commento a: M. Achilli, L'urbanista socialista (Marsilio, 2018)
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