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IL VALORE DEI LUOGHI E DELLO SPAZIO
Commento al libro di Michel Lussault
Luca Bottini
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Il volume di Michel Lussault – Iper-luoghi. La nuova geografia della mondializzazione (ed. it. a cura di E. Casti, FrancoAngeli, 2019) – mette sotto la lente d’ingrandimento un tema caro alle scienze sociali, ossia il ruolo dello spazio fisico nella comprensione dei processi che riguardano le società contemporanee. Tra le molte prospettive possibili, l’autore assume quella del geografo ponendo al centro delle sue riflessioni questioni fondamentali per lo studio dei fenomeni sociali. In particolare, si chiede qual è il ruolo dello spazio urbano nel mondo globalizzato e se ha senso parlare ancora di luoghi fisici in una società fortemente digitalizzata che si regge su relazioni socio-economiche prevalentemente virtuali. La trattazione – che data l’elevata complessità del tema avrebbe forse dovuto avvalersi con maggiore convinzione dello sguardo di altre discipline – giunge a rispondere affermativamente a queste due domande. Anche sulla base dell’analisi di alcuni casi di studio, Lussault sostiene che la dimensione spaziale non sia affatto stata messa in secondo piano dalla “mondializzazione”, poiché ritiene che lo spazio fisico in tutte le sue declinazioni derivanti dalle pratiche sociali rappresenti un fattore necessario e ineludibile dei processi umani, da quelli più circoscritti sino a quelli più macroscopici.
Lussault restituisce alla dimensione spaziale un ruolo basilare nello studio delle pratiche sociali e politiche degli individui, rientrando di fatto nel solco tracciato da Tuan (1979) - per quanto attiene la proposta di centrare la geografia contemporanea su una dimensione “umanistica” - ed ispirandosi ai lavori di De Certeau sulle pratiche urbane quotidiane (De Certeau, 1990). L’autore chiarisce fin dalle prime pagine del volume il suo programma di ricerca: “Pratico – scrive – la geografia per comprendere come gli individui e le società creino i loro contesti di vita e spazializzino le proprie attività [e – si chiede –] che ne è di quell’esperienza primordiale e sempre nuova del nostro rapporto personale, al tempo stesso intimo e sociale, pubblico e privato, con gli spazi e i tempi della nostra esistenza” (p. 19). Lussault mette cioè al centro dei suoi ragionamenti lo spazio, e questo – a parere di chi scrive – costituisce un aspetto del tutto condivisibile e auspicabile, per tenere vivo il dibattito spazialista nelle scienze sociali ma, soprattutto, per comprendere ciò che davvero succede intorno a noi. Del resto, nella comunità scientifica non è unanime il riconoscimento da un lato della rilevanza dello studio spazializzato dei processi sociali e dall’altro della necessità di non scindere spazio e comportamento umano nelle diverse prospettive di studio. È pur vero che se il pensiero classico della geografia e di molti rami della sociologia è stato quello di riconoscere lo spazio come un fattore imprescindibile dello studio dei fenomeni sociali, spesso questa è rimasta un’affermazione che non ha trovato riscontro nel lavoro di ricerca ed è stata messa molto rapidamente in disparte nei ragionamenti interpretativi. Altrove, come in psicologia ambientale e in sociologia urbana e del territorio, un certo sforzo è stato fatto nel corso dei decenni per verificare empiricamente quanto descritto in via teorica. Perciò, l’intento di Lussault risulta essere di assoluta rilevanza scientifica, meritando un’attenzione particolare al fine di consolidare il dibattito e la ricerca sul tema.
Con questo lavoro Lussault si propone di verificare, a distanza di qualche decennio dall’esplosione dei fenomeni di globalizzazione e dei relativi studi, la tenuta dei principali contributi provenienti dalle scienze sociali che sentenziavano l’inevitabile scissione tra spazio e tempo in una società che pareva andare verso una totale trasformazione sociale, economica e culturale, protesa a una traslazione dal reale al virtuale e fondata su legami deboli. Basti ricordare il concetto di “disembedding” evocato da Giddens (1990), oppure il concetto di “società liquida” proposto da Bauman (2002), quali espressioni peculiari della post-modernità. Due prospettive rapidamente assorbite su più fronti nelle scienze sociali, non solo in sociologia ma anche, con opportune declinazioni, in antropologia. Si pensi, ad esempio, al contributo, poi superato, di Marc Augé sul concetto di “non luoghi” (1996): un’idea fortemente criticata da Lussault che, di converso, tende a “vedere luoghi ovunque”. Il pensiero sociale dell’ultimo decennio del Novecento ruota attorno ad un’idea fortemente pessimistica rispetto alla qualità e all’evoluzione che le interazioni umane avrebbero intrapreso sotto la spinta inesorabile delle trasformazioni delle pratiche umane mediate da una tecnologia sempre più pervasiva. Lussault ritiene invece che proprio la mondializzazione abbia messo al centro il ruolo dei luoghi, consentendo alle popolazioni non solo di sviluppare un maggiore attaccamento, ma anche di avere una possibilità di scelta impensabile nelle epoche precedenti. Proprio la caduta dei confini tra molte nazioni nazioni e una mobilità diffusa e low cost hanno infatti permesso quasi a tutti di muoversi in giro per il mondo, scoprendo, praticando e trovando una elevata quantità di luoghi a disposizione un tempo impensabili. L’ingresso nell’era del cosiddetto “antropocene” ha posto al centro delle trasformazioni ambientali e sociali l’intervento dell’umanità che si esplicita non solo attraverso il consumo delle risorse, ma anche mediante l’esasperazione della mobilità di beni e persone. In questo scenario, l’ambiente urbano rappresenta il palcoscenico in cui tutto questo prende forma: le città sono ancora una volta le protagoniste di una trasformazione storica (pp. 30 e 31).
Lussault propone di considerare i centri urbani come osservatori privilegiati sul ruolo dei luoghi nell’epoca della mondializzazione totale. Secondo l’autore, infatti, non è vero che la digitalizzazione caratteristica della globalizzazione abbia rotto definitivamente il legame tra pratiche sociali e luoghi poiché, al contrario, ciò che si osserva è stato un consolidamento e potenziamento di tale relazione. La forma spaziale in cui tale legame si esprime maggiormente è, per l’autore, la dimensione del locale. La localizzazione, ritenuta superata dalla globalizzazione standardizzante, ritorna prepotentemente in scena e diviene la cartina al tornasole per dimostrare come l’ultimo trentennio non abbia affatto prodotto quella disconnessione delle pratiche umane dai luoghi di cui frequentemente si legge. Piuttosto, per Lussault siamo di fronte a un nuovo tipo di luoghi, quelli che l’autore definisce “iper-luoghi”, in cui si concentra tutta l’importanza data loro dagli individui. Si tratta di una definizione calzante peraltro già ben descritta da Osti nel suo manuale sulla sociologia del territorio (Osti, 2010), quando viene presentato il concetto di “superluogo” del consumo, degli incontri e dei significati collettivi. Occorre far notare che i luoghi osservati da Lussault si riferiscono ad una sfera squisitamente pubblica, obliterando, di fatto, altre forme di luoghi di natura privata o meno rilevanti sotto il profilo dell’attrattività mediatica. In ogni caso, ciò che viene posto al centro della riflessione è il concetto di “località” quale forma spaziale in cui si verifica un surplus di concentrazione di attenzioni e pratiche.
Il programma di ricerca proposto da Lussault, in verità, non rappresenta un elemento di novità nelle scienze sociali allineandosi ai numerosi contributi, teorici ed empirici, che a partire da varie prospettive, hanno sempre rifiutato l’idea di fenomeni sociali slegati dalla dimensione spaziale (Gans, 2002; Gieryn, 2000; Hall, 1968; Mela, 2006; Proshansky, 1970). La ragione di tale rifiuto è giustificata non solo scientificamente, ma anche tenendo presente la naturale esperienza empirica quotidiana: assumiamo comportamenti differenti in funzione del luogo in cui ci troviamo (Nuvolati, 2018) e gli atteggiamenti assunti in pubblico o in privato prendono forme diverse come documentò Goffman (1959). Il mantenimento di uno stretto legame tra azione e contesto, anche per impostare uno studio scientifico dei fenomeni umani che parta da questa premessa, è stato difeso nelle scienze sociali e, a mio parere, dovrebbe costituire un atteggiamento scontato e fondamentale per comprendere appieno i fenomeni umani nelle società contemporanee. Ciò appare ancor più necessario per lo studio dei fenomeni umani nelle città in quanto si tratta di contesti estremamente complessi in cui la dimensione spaziale, assieme alle diverse funzioni presenti, interagisce fortemente con il comportamento umano. In questo senso, il volume di Lussault pone una questione di assoluto rilievo e per cui è fondamentale continuare a contribuire al dibattito con riflessioni teoriche e ricerca sul campo.
Tuttavia, se la prima parte del volume inquadra in modo convincente le idee che sorreggono il concetto di iper-luogo quale prodotto della globalizzazione socio-economica, quelle che seguono assumono uno sguardo forse eccessivamente focalizzato sulla dimensione delle pratiche individuali e simboliche, andando in tal modo a collocare in secondo piano la portata concettuale della dimensione spaziale. Questa sorta di cortocircuito nel ragionamento – che prima conferisce valore e autonomia allo spazio e poi assume una prospettiva che pone le pratiche sociali “al di sopra” dello spazio come se fossero indipendenti da esso – dimostra ancora una volta quella difficoltà presente in gran parte della letteratura di settore nel conferire allo spazio la sua capacità di ispirare e influenzare determinate azioni umane. Un problema evidenziato già da Mandich (1996) e Mela (2006), per cui sembra che una presa di posizione metodologicamente chiara rispetto alla conoscenza empirica dell’interazione tra luoghi ed esseri umani sia lontana dall’essere riconosciuta unanimemente, conducendo a un approccio ondivago molto spesso a vantaggio di un’idea di “spazio socialmente costruito” anziché di “spazio in interazione”.
Anche Lussault, nonostante le intenzioni enunciate nella premessa del libro, sembra cadere in questo equivoco. Infatti, tutti gli esempi di iper-luoghi presi in considerazione –Times Square, gli shopping malls, le difese di zona (ZAD) o gli stili di vita rurali fortemente localizzati – vengono descritti utilizzando il punto di vista delle pratiche spaziali considerandone solo le finalità politiche. Lussault parte dalla descrizione dei luoghi e dalla loro capacità attrattiva, oppure dal ruolo assunto improvvisamente da alcuni luoghi urbani in seguito ad assembramenti di protesta organizzata da gruppi di individui, ma l’esito delle riflessioni non è l’iper-luogo e i meccanismi di interazione con gli individui – che avrebbe realmente fornito elementi conoscitivi aggiuntivi nel dibattito scientifico –, quanto le pratiche che in esso prendono forma. Tali pratiche sono utilizzate dall’autore per dimostrare che oggi, nella civiltà mondializzata, gli iper-luoghi rappresentano gli anticorpi per fronteggiare i tentativi di standardizzazione spaziale spinti dai fenomeni di globalizzazione. Secondo Lussault, gli iper-luoghi della mondializzazione altro non sono che la manifestazione visibile di una esigenza diffusa di ancorarsi ad un luogo (p. 261), perché proprio l’accelerazione delle vite “mondializzate” ha condotto gli individui a desiderare con maggiore convinzione un ancoraggio ad una località e potersi riconoscere in un territorio.
L’autore, però, nell’illustrare le sue ragioni, si limita ad assumere una prospettiva politica, andando a sviscerare la domanda di giustizia sociale che, molto spesso, i gruppi da lui intervistati giustificano attuando determinate pratiche spaziali in specifici luoghi urbani o non urbani, dando vita a iper-luoghi su cui si concentra un’attenzione mediatica al fine di ottenere un cambiamento di natura politica. La rilevanza dei luoghi per Lussault, dunque, diviene evidente quando accade una concentrazione di intenzioni politiche in un punto specifico della città tale da richiamare l’attenzione dei policy makers e di sollecitare un cambiamento per la collettività, assumendo spesso i contorni tipici dei conflitti sociali. Ma questa prospettiva – a giudizio di chi scrive – appare insufficiente per cogliere appieno la complessità che regge l’interazione tra comportamento umano e luoghi. Così come risulta inoltre limitativo assumere specifici luoghi, e determinati utilizzi degli stessi, per sostenere che nonostante gli effetti standardizzanti della mondializzazione la dimensione spaziale mantenga una rilevanza significativa per gli individui.
La prospettiva della spazializzazione delle pratiche politiche in luoghi specifici di una città o di un territorio, con la finalità di realizzare più o meno realistici benefici per la comunità, costituisce una tra le molte vie mediante cui è possibile rilevare la potenza e l’unicità dei luoghi nell’influenzare la vita degli individui nella quotidianità. Identità locale, attaccamento, soddisfazione residenziale, qualità della vita, comportamenti ambientali sostenibili, partecipazione alla comunità sono alcuni dei fenomeni che possono essere messi sotto la lente d’ingrandimento per cui è possibile identificare l’influenza prodotta dalle caratteristiche peculiari di quartieri e territori. Sottolineo questo aspetto poiché il rischio che intravedo nella trattazione di Lussault è quello, nei fatti, di riconoscere un valore alla dimensione spaziale solo in funzione di ciò che accade all’interno di essa e non in quanto posta in relazione con le pratiche. In altri termini, per il geografo lo spazio assume significato se e solo se in esso si concentrano visibilmente pratiche sociali di entità macroscopica e plateale. Ma, così facendo, le premesse teoriche espresse all’inizio del volume, per cui lo spazio ed i luoghi non sono da ritenersi dei semplici contenitori –l’autore alludeva ad una qualche forma di capacità da parte della dimensione spaziale di interagire con il comportamento umano modificandolo – non trovano nei casi di studio presentati un’analisi esaustiva, così come non trovano risposte sul come e perché lo spazio non sia un semplice aggregatore di azioni umane. È come se l’autore, giunto a dover rendere conto della rilevanza degli iper-luoghi sul piano pratico, avesse scelto di compiere un passo indietro limitandosi a compiere una descrizione dell’uso dello spazio, tralasciando i molteplici aspetti che coinvolgono l’interazione tra individui e ambienti di vita. Quindi, se l’idea di fondo del volume è decisamente rilevante, la modalità empirica con cui Lussault cerca di dimostrare le proprie ipotesi coglie solo in parte l’elevata complessità del tema. Al contrario, l’osservazione delle pratiche sociali negli spazi urbani dovrebbe essere associata a una serie di premesse teoriche integrative, in un’ottica transdisciplinare, tali da arricchire il quadro di riferimento e fornire spunti empirici utili a verificare sul campo le ipotesi avanzate.
L’apporto di altre discipline, come la sociologia urbana e la psicologia ambientale, rappresenta una via utile per inquadrare l’elevata complessità del problema e per renderlo empiricamente studiabile e verificabile. Ad esempio, un paradigma interessante per comprendere in quale modo ambienti e azioni interagiscano fra di loro è il cosiddetto paradigma transazionale sviluppato nell’ambito della psicologia ambientale. Mutuato dalla psicologia generale, questo paradigma intende leggere l’interazione tra ambienti e comportamenti umani all’interno di uno scambio reciproco, una dinamica che oltre ad essere realisticamente sostenibile dal punto di vista empirico, permette di evitare sbilanciamenti eccessivi verso approcci di natura deterministica o soggettivistica. Si tratta, naturalmente, di un compromesso che permette di osservare i fenomeni di interazione come uno scambio in cui i due oggetti comunicano reciprocamente influenzandosi a vicenda, pur riconoscendo l’evidenza del fatto che lo spazio non possieda una “vita propria”. Esso rappresenta infatti l’ambiente “non umano” come l’ha definito Searles (1960), perciò la modalità con cui esso interagisce con le pratiche deve essere ascritta in modo indiretto: le persone percepiscono e valutano secondo criteri soggettivi la qualità, il significato e la soddisfazione rispetto a un contesto spaziale. L’azione umana trasforma e costruisce lo spazio, ma questo è in grado di sollecitare attraverso stimoli cognitivi e fisici le percezioni degli individui. Inoltre, la tipologia e l’intensità di tali stimoli non sono immutabili nel tempo. In questo senso, la relazione tra soggetti e ambienti risulta essere caratterizzata da un forte dinamismo che prende forma nel corso del tempo.
Ciò detto, appare evidente che uno studio transdisciplinare dei fenomeni umani nello spazio, che vada a coinvolgere geografia, psicologia, sociologia e scienze della pianificazione, non possa far altro che inquadrare meglio i fenomeni umani nello spazio. Questo anche se siamo assolutamente consapevoli che trattandosi di un’indagine ad elevato tasso di complessità quello che otterremo sarà uno sguardo limitato di ciò che accade, poiché il risultato sarà mediato dai processi cognitivi degli individui immersi nello spazio indagato e non si tratterà di un vero e proprio riscontro oggettivo. Da questo punto di vista, gli iper-luoghi definiti da Lussault non sono, dunque, i soli ad essere rilevanti per una riscoperta dello spazio nell’epoca contemporanea, ma lo saranno tutte le forme spaziali a prescindere dalle spinte standardizzanti della globalizzazione: dai contesti intimi delle abitazioni fino ai macro-fenomeni regionali o internazionali (ad es. le reti tra città globali). Inoltre, uno sguardo più analitico e attento – auspicato dall’autore stesso nel volume – porterebbe a sviscerare meglio le ragioni che guidano gruppi di soggetti ad abbracciare esperienze tipo quelle delle zone di difesa (ZAD), oppure a utilizzare compulsivamente gli shopping malls o, ancora, a concentrarsi a Times Square da diversi decenni a questa parte, svelando un quadro interpretativo più complesso che metta in gioco dinamiche di natura evoluzionistica di territorializzazione e appropriazione dello spazio, di ricerca di una maggiore qualità della vita o di un riscoperto senso di appartenenza al luogo. Questo, tenendo ben a mente che l’esito di tali analisi potrebbe non necessariamente essere ricondotto a ragioni di natura politico-conflittuale.
Per concludere, il contributo di Lussault – pur con i limiti e le ambiguità a cui abbiamo fatto cenno – appare importante perché richiama la necessità di una maggiore presa di coscienza di quanto sia urgente imboccare la via di un approccio metodologico transdisciplinare allo studio spazialistico dei fenomeni sociali, ancorandosi e basandosi su solide evidenze empiriche provenienti da una diffusa ricerca sul campo.
Luca Bottini
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N.d.C. - Luca Bottini, dottore di ricerca URBEUR è assegnista di ricerca e docente a contratto presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università degli Studi di Milano Bicocca. Il suo tema di ricerca riguarda l’interazione tra fenomeni sociali e spazio urbano utilizzando una prospettiva di studio interdisciplinare tra sociologia urbana e psicologia ambientale.
Recentemente ha pubblicato: Lo spazio necessario. Teorie e metodi spazialisti per gli studi urbani (Ledizioni, 2020).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 20 NOVEMBRE 2020 |
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