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Il 2020 è stato un anno ‘denso’, che richiederà anni per essere compreso ed analizzato. Molte riflessioni sul tempo, sulla storia, sulle accelerazioni, verranno riprese e ampliate e, per una volta, non sarà solo lo spazio a essere considerato la dimensione cruciale. Certo, il 2020 ci consegna anche un vigoroso ceffone su temi fortemente spaziali, in particolare sulle spazialità politiche che chiamiamo Stato e che sono tornate alla ribalta nel giro di una settimana, dopo anni di tesi sulla loro obsolescenza e fine. Insomma, per gli scienziati sociali e gli studiosi tutti, il 2020 è un anno avvincente e appassionante, non fosse che siamo anche cittadini e soggetti individuali e che contemperare queste tre anime non è certamente stato facile e la nostra prostrazione psicologica credo rifletta pienamente questa complessità.
Nel tentativo di dare un senso critico e, possibilmente, scientifico, ai mesi passati abbiamo in tanti messo anima e corpo. Chi scrive ha passato i primi mesi della pandemia in uno stato febbrile di presenza digitale e di public engagement su temi pandemici e, come il sottoscritto (Semi 2020), centinaia di altri colleghi e colleghe hanno fatto altrettanto, talvolta ‘prendendoci’ e talaltra meno, ma comunque assumendosi il rischio di assumere una voce in una fase estremamente vocale del nostro tempo. Ne siamo usciti estenuati e forse non così incisivi o esperti come avremmo sperato, credo soprattutto per il fatto che quella che abbiamo creduto fosse una pandemia in qualche sorta superabile entro la celebre ‘prima ondata’, si è poi rivelata cocciutamente disposta a riproporsi in una ‘seconda’ e molto probabilmente in una ‘terza’. Da questo punto di vista, molte delle cose che abbiamo scritto o detto entro l’estate del 2020 sono state o ampliate o rimesse in gioco da tutto quello che è successo successivamente e, soprattutto, da tutto quello che deve ancora accadere. D’altro canto, stare fermi e quieti, sulla riva del fiume, a contar cadaveri e interpretare segni, non si addice alla nostra professione o comunque non completamente (se penso alle statistiche sugli eccessi di mortalità, in effetti facciamo anche questo).
Questo preambolo mi serve dunque per situare il Manifesto dei Sociologi e delle Sociologhe dell’Ambiente e del Territorio sulle Città e le Aree Naturali del dopo Covid-19, curato da Giampaolo Nuvolati e Sara Spanu (Ledizioni, 2020) e prodotto all’interno dell’omonima sezione dell’Associazione Italiana di Sociologia (rappresentata nel volume dall’Introduzione di Carmela Agodi).
Il titolo, che forse era abbreviabile o pensabile in termini più catchy, si carica di una grande responsabilità, quella di pensare a un dopo. Col senno di poi (di cui è bene ricordare, son piene le fosse) si è trattato di una scommessa rischiosissima perché basata sull’assunto che Covid-19 rappresentasse una fase transitoria, tra un prima e un dopo, una latenza rispetto alla quale gli autori e le autrici hanno avuto a disposizione solo tre mesi (ad essere generosi, ma in realtà anche meno) per coglierne elementi centrali e prevederne gli effetti. Una scommessa, è bene ricordarlo, che in diversi altri hanno tentato, per esempio attraverso instant books o appelli (1).
Questa prova di coraggio è stata calmierata da un format molto suggestivo e impegnativo, quello di concepire i 35 contributi analitici all’interno di uno schema seriale basato sulla tripartizione tra saperi/problemi/proposte, impegnando quindi tutti e tutte a dire in maniera sintetica e quasi hegeliana la tesi, l’antitesi e la sintesi propositiva. Questo modello ha secondo me esaltato la capacità creativa di quelli e quelle che in qualche maniera si erano già posti la questione riformatrice, sia essa intervento sociale, design urbano o progetto in senso ampio, mentre ha messo in maggiore difficoltà quelli e quelle che sono maggiormente riconducibili agli studi critici e dunque meno interessati e interessate (e con molte ragioni, secondo me) a un approccio costruttivo. D’altro canto, diciamocelo, essere propositivi mentre una parte della baracca sta crollando potrebbe anche rivelarsi esercizio fine a se stesso, perché molto del dopo dipenderà precisamente da come si sarà sfaldato l’edificio che abitiamo (e qui l’edificio è il pianeta, nemmeno la nostra città) e da cosa sarà effettivamente rimasto in piedi.
Come dice anche Luigi Pellizzoni nel saggio conclusivo, non è utile riassumere o sintetizzare contributi molto diversi, che spaziano dal tema del turismo a quello dell’ambiente, da quello del welfare a quello dello spazio pubblico, per non citarne che una minima parte. Forse viene più semplice dire quello che ci saremmo maggiormente aspettati di trovare e che, salvo alcuni contributi, ci sembra mancare. A me sembra che questo anno passato ci consegni tre temi sostanzialmente ineludibili per il futuro (che sia pandemico o meno): il capitalismo delle piattaforme, l’ecologia politica, e la nuova vita urbana.
Sul primo dei temi, intercettato da un capitolo sulla sharing economy e da un paio di quelli dedicati al turismo, credo che una versione 2.0 del Manifesto dovrebbe essere più incisiva e dedicata. Non tanto e non solo perché il 2020 ha impresso un’accelerazione stupefacente a molti settori già su piattaforma, ma perché ha sostanzialmente imposto a chi non lo era di adeguarsi rapidamente, e con una logica darwiniana molto rapida e stringente. Usciamo dall’anno passato ed entriamo nel 2021 consapevoli che non solo l’infrastrutturazione digitale è ormai questione di vita o di morte, ma che algoritmi e quantificazione del sociale sono diventati ormai il linguaggio operativo di spazialità e temporalità che corrono lungo piattaforme (Hodson et Al. 2020). Non si torna indietro da questa rivoluzione. Anzi, per dirla con Sloterdjik (2015), siamo di fronte a un’esplicitazione di dinamiche che ormai occuperanno la scena per i tempi a venire. E dunque rispetto alla quale una scienza sociale matura, urbana o meno che sia, deve prendere una posizione (anzitutto di ricerca e di curiosità, ma poi anche di distanza critica e valutativa).
L’esplicitazione digitale e algoritmica che stiamo vivendo si innesta in un rapporto ecologico con ogni forma vivente e non (e che ci comprende in quanto specie) che è segnata in maniera violenta dall’impronta che abbiamo impresso al pianeta e dall’interazione tra questa e le infinite traiettorie evolutive che in esso si trovano. Non è un caso che da diversi anni ormai, uno dei rami più interessanti e innovativi del sapere critico (urbano e non) sia riconducibile alla cosiddetta ecologia politica. Come sia stato possibile che per così lungo tempo non abbiamo pensato, anche, in termini ecologici, rimane un mistero o comunque un enorme bug nella nostra capacità di comprensione del reale, ma se è certa una cosa, è che dal 2020 in poi non sarà più possibile proporre qualsivoglia analisi che non incorpori la dimensione ecologica. Questo vale per la political economy, che già si era mescolata con la political ecology negli ultimi anni (Heinen, Kaika and Swyngedouw 2006; Swyngedouw 2009), ma dovremo essere in grado di contaminare anche le analisi della vita urbana di matrice interazionista, rappresentate in diversi capitoli del Manifesto, con la matrice ecologica.
Arrivo dunque al terzo degli ambiti che mi sembra escano squassati dal 2020, e cioè la vita urbana in quanto tale. Non merita secondo me riprendere i dibattiti modesti e largamente giornalistici cui abbiamo assistito attorno al tema del ‘borgo’ e della sua ‘rinascita’: troppo disincarnati precisamente rispetto alle due tematiche indicate sopra, cioè le piattaforme e la dimensione ecologica, e poco sostanziati di analisi empirica sino a qui. Gli esseri umani hanno ancora, evolutivamente ma anche culturalmente e socialmente parlando, bisogno di compresenza, coesistenza, relazione e, sebbene abbiano sofferto molto le pene della densità, avranno un disperato bisogno di urbano e di vita urbana (come si è visto bene nella parentesi estiva). Al tempo stesso però è vero che il passaggio di Covid-19 sul nostro pianeta riduce in macerie buona parte delle istituzioni culturali e urbane, dei luoghi terzi, riduce in polvere lo spazio pubblico fisico, aperto e, ancora una volta, spinge piattaforme ed ecosistemi a modificare il nostro rapporto con la relazione, sia essa lavorativa (che ne sarà del terziario degli uffici?) o legata al tempo libero (è la fine dei cinema?).
Ora, questi tre enormi blocchi tematici non saprebbero trovare una risposta adeguata nemmeno dal più ricco e definitivo dei manifesti. Non è opera che la scienza sociale sia in grado di portare a compimento da sola, e forse è questa la constatazione (non una critica) che muoverei al tentativo coraggioso portato avanti da colleghi e colleghe di AIS-Territorio: la logica insulare e disciplinare viene anch’essa squassata dal 2020 ed è una logica che peraltro caratterizza tutto l’arcipelago sociologico italiano e molti altri arcipelaghi nazionali. Lasciando da parte la magra figura comunicativa che persino il mondo medico ha fatto, non credo ci sia più molto spazio per comunicare una proposta critica che sia anche e solamente disciplinare. Per capire, interpretare e raccontare ‘l’urbanesimo come forma di vita’ futura dovremo parlare di più con i colleghi e le colleghe che si occupano di informatica e di scienze della terra, di biologia dei sistemi e di logistica, di filosofia e virologia (ma non è un inventario definitivo, avremo bisogno davvero di ogni forma di sapere, comprese quelle che ancora non abbiamo inventato). Credo, anzi, che per una volta si tratti di una sfida che ci vede, in quanto sociologi, tutto sommato meno sfavoriti del passato, perché da più parti si è capito che un coronavirus ha successo (o insuccesso… ma, ahinoi, più il primo che il secondo sino ad oggi) nel suo diffondersi grazie al comportamento umano, a sua volta parte integrante di ecosistemi tecnologici.
Il Manifesto che ho avuto qui il piacere di introdurre dovrebbe quindi essere un primo passaggio, fondamentale, verso un allargamento a piattaforme di public engagement scientifico che diventino, a loro volta, occasioni di ricerca e di mescolamento di prospettive.
Ci è voluto del coraggio per iniziare il percorso, servirà della follia per portarlo avanti.
Giovanni Semi
Note: 1) Tra i libri segnalo i seguenti: Aime, M., Favole, A., e Remotti, F. 2020, Il mondo che avrete. Virus, Antropocene, Rivoluzione, Torino, Utet; Marchetti, M.C., e Romeo, A. (a cura di) 2020, #Noirestiamoacasa. Il mondo visto da fuori ai tempi del Covid-19, Milano, Mimesis; Migliorati, L. 2020, Un sociologo nella zona rossa. Rischio, paura, morte e creatività ai tempi di Covid-19, Milano, Franco Angeli. Tra gli appelli, si segnala quello a cura di F. Celata, Rivoltiamo la città, e facente parte del numero monografico di Micromega, Dopo il virus, un mondo nuovo?, n.5/2020.
Bibliografia: Heynen, N., Kaika, M., & Swyngedouw, E. (a cura di) 2006, In the nature of cities: urban political ecology and the politics of urban metabolism (Vol. 3), London, Taylor & Francis. Hodson, M., Kasmire, J., McMeekin, A., Stehlin, J. G., & Ward, K. (a cura di) 2020, Urban Platforms and the Future City: Transformations in Infrastructure, Governance, Knowledge and Everyday Life, London, Routledge. Semi, G. 2020, La città dello spazio pubblico è morta?, in "Polis, Ricerche e studi su società e politica" 2/2020, pp. 215-224, doi: 10.1424/97366 Sloterdjik, P. 2015, Sfere. Vol. 3: Schiume, Milano, Raffaello Cortina Editore. Swyngedouw, E. 2009, The political economy and political ecology of the hydro‐social cycle. Journal of contemporary water research & education, 142(1), 56-60.
N.d.C. – Giovanni Semi è professore associato di Sociologia generale all'Università degli Studi di Torino.
Tra i suoi libri: con E. Colombo (a cura di), Multiculturalismo quotidiano. Le pratiche della differenza (FrancoAngeli, 2007); L'osservazione partecipante. Una guida pratica (il Mulino, 2010); con R. Sassatelli e M. Santoro, Fronteggiare la crisi. Come cambia lo stile di vita del ceto medio (il Mulino, 2015); Gentrification. Tutte le città come Disneyland? (il Mulino, 2015); con C. Capello (a cura di), Torino. Un profilo etnografico (Meltemi, 2018); con M. Filandri e M. Olagnero, Casa dolce casa? Italia, un paese di proprietari (il Mulino, 2020).
Per Città Bene Comune ha scritto: Tante case non fanno una città (15 settembre 2017).
Sul libro di Giovanni Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland? (il Mulino, 2015), v. in questa rubrica i commenti di: Francesco Gastaldi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland? (9 giugno 2016) e Giovanni Laino, Se tutto è gentrification, comprendiamo poco (16 giugno 2016).
Sullo stesso libro oggetto di questo commento, v. anche: M. Ruzzenenti, Una nuova cultura per il bene comune (29 gennaio 2021).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 09 APRILE 2021 |