Gabriele Pasqui  
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LA RICERCA È L'USO CHE SE NE FA


Commento al libro di Pier Luigi Crosta e Cristina Bianchetti



Gabriele Pasqui


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Ci sono libri per i quali sentiamo innanzitutto di dover essere grati agli Autori. Grati per aver ideato, scritto e pubblicato un volume che per noi è importante, oserei dire vitale. Per quanto mi riguarda, è questo il caso delle Conversazioni sulla ricerca, il dialogo tra Pier Luigi Crosta e Cristina Bianchetti edito da Donzelli nella collana “Natura e artefatto”, serie “Critica del progetto”. Si tratta, voglio dirlo subito, di una gratitudine che ha una forte impronta personale. Lo straordinario lavoro svolto da Cristina Bianchetti, descritto nella breve introduzione al libro e raccontato a me in alcune conversazioni avute durante e dopo la stesura, mi ha infatti permesso di ritornare a pensare con Pier Luigi Crosta, rianimando attraverso il testo uno degli incontri decisivi della mia vita intellettuale, rinnovando il debito verso un maestro.

Attenzione però: il libro non è un’intervista, è un dialogo, nel quale a me pare di sentire le voci di Bianchetti e Crosta, che si inseguono e rilanciano, che oscillano tra il consenso e il malinteso, che misurano e mettono alla prova non delle tesi o delle teorie, ma in prima istanza degli stili di pensiero, delle posture, delle domande che rimangono immancabilmente aperte. Cerco di immaginare le lunghe conversazioni tra i due Autori, il ritorno costante su un nucleo in definitiva assai circoscritto di temi. Il lavoro di Bianchetti ha ricostruito, intorno a dodici questioni che occupano ciascuna uno dei capitoli del dialogo, una piattaforma di riflessione ordinata, che tuttavia non tradisce la natura ellittica e il carattere spesso imprendibile del pensiero di Crosta, forse di entrambi.

Leggendo il libro mi sono tornate alla mente le impegnative sessioni di discussione del Dottorato in Politiche pubbliche del territorio, allo IUAV di Venezia, dove ho conseguito il titolo di dottore di ricerca nella prima metà degli anni ’90 del secolo scorso sotto la guida di Pier Luigi Crosta. Si trattava di sedute lunghe, per la maggior parte del tempo occupate dalla parola di Crosta, che inseguiva il suo pensiero, inframmezzando, come fa anche nel dialogo con Bianchetti, riferimenti spuri (film, romanzi, notizie di cronaca…), spesso lontanissimi dalla letteratura disciplinare, storie di vita, concettualizzazioni vertiginose. L’ascolto, e l’attenzione che veniva richiesta ai dottorandi, erano per me innanzitutto un esercizio, nel preciso senso in cui la pratica zen è definibile come tale. Propongo dunque di leggere il dialogo tra Crosta e Bianchetti come se si trattasse di fare un esercizio, di “fare la pratica”, come si dice dell’esperienza della meditazione. Attraverso questo esercizio, secondo me, dovremmo essere tutti chiamati a riflettere su quel che facciamo, quando diciamo di fare ricerca (in università, e non solo).

 

Ma di che cosa parla questo libro?

Il dialogo è organizzato in dodici segmenti. Ogni segmento sviluppa liberamente un tema, ma diverse questioni tornano a più riprese, osservate da diversi punti di vista. La natura plurale della ricerca, il carattere fondamentalmente empirico e sperimentale del fare del ricercatore, il sensemaking come esercizio di invenzione, il bricolage opposto all’ingegnerizzazione della ricerca, l’anomalia come motore dell’innovazione, il dissenso non antagonista come stile del pensiero, per citarne solo alcuni. Inoltre, tornano dei nomi di autori che i dialoganti evocano a più riprese. Albert Hirschman, prima di tutto, che Bianchetti nell’introduzione definisce «un dispositivo affettivo che orienta un ragionare che rimane molto libero» (p. X). Ma poi anche John Dewey, Karl E. Weick, Michel Crozier, Charles E. Lindblom, Carlo Donolo, Ivan Illich, Arjun Appadurai e altri ancora. Mi piacerebbe inseguire questi riferimenti, mostrare che quel che accomuna tutti questi autori è il loro essere pensatori “irregolari” e “indisciplinati”, irriducibili alle logiche e alle regole dei confinamenti accademici e dei “settori scientifico-disciplinari”. Praticanti del trespassing, spesso “autosovversivi”, per utilizzare due riferimenti di Hirschman ampiamente richiamati nel volume. Ma lungo questa via “bibliografica” non corrisponderei al senso più profondo del dialogo tra Bianchetti e Crosta.

Il libro non è “su” Hirschman; non è nemmeno un’autobiografia intellettuale, una rete di riferimenti, la costruzione di quella che nella ricerca mainstream e negli articoli pubblicati sulle riviste indicizzate o nelle tesi di dottorato che contribuiamo a produrre potremmo chiamare un conceptual framework. Non solo: città, territorio, pianificazione urbanistica, politiche e progetti urbani, gli “oggetti” della ricerca di Bianchetti e di Crosta, sono solo un’occasione. Le sequenze di dialogo in cui prende la parola Pier Luigi Crosta, soprattutto, sono occasioni per scartare sempre un po’ a lato. Più volte Bianchetti sfida Crosta, senza troppa fortuna, a parlare del territorio, della città, della concezione del piano e delle politiche come sistemi concreti d’azione e interazione multiattoriale empiricamente analizzabili, che Crosta ha proposto lungo tutto il suo percorso, dai primi anni ’70 fino ad oggi.

Molti nodi della lettura che Crosta ha argomentato nell’arco dei decenni, e attraverso slittamenti significativi da La politica del piano (la prima edizione è del 1990) a Politiche. Quale conoscenza per l’azione territoriale (1998) a Pratiche. Il territorio è l’uso che se ne fa (2010), fanno capolino qui e là. La critica alla partecipazione come “far partecipare”, la messa in crisi della natura intenzionale della razionalità di piano e il passaggio dal piano al processo di piano, l’attenzione agli effetti non attesi, l’abbandono di ogni ipotesi lineare del nesso conoscenza-azione nella pratica di pianificazione, una certa idea di politicizzazione dei processi di piano e la critica feroce all’approccio “istituzionalista” e “nomotetico” in urbanistica.

Tuttavia, insisto, ciascuno di questi passaggi è per Crosta e Bianchetti un’occasione per parlare d’altro. Di cosa dunque? Di che cosa parla davvero questo libro? La risposta è nel titolo: Conversazioni sulla ricerca. Il dialogo fa perno sull’attività di ricerca, sul perché e per chi del fare ricerca, sui suoi usi possibili. Io vorrei dunque seguire questa pista, e riconoscere i segni di una idea di ricerca per molti aspetti ortogonale a quella dominante in ambito accademico.

 

Ricerca, azione

Il primo punto che vorrei sottolineare è che per Crosta e Bianchetti la ricerca è un’azione. Si tratta dunque di pensare al fare concreto di chi fa ricerca: nulla a che vedere con un atteggiamento epistemologico o metodologico. Anzi, la metodologia della ricerca è uno dei bersagli preferiti. La deriva metodologista, spesso chiusa nelle gabbie del bon ton disciplinare, si configura come uno dei nemici più insidiosi. La ricerca si costruisce il suo metodo quando si misura con la costruzione del suo problema, in una forma eclettica, necessariamente irriducibile a metodi predefiniti e refrattaria ad ogni ipotesi di “applicazione” (del metodo alla realtà, per così dire). L’atteggiamento, la postura, nei confronti della ricerca sono decisamente anti-cartesiane. C’è un passaggio in cui Crosta lo dice esplicitamente: «Anche in questo caso si rovescia il luogo comune che considera il veder chiaro e distinto un requisito importante per il buon agire» (p. 43). Ed è così nella vita di ogni giorno, ma anche nell’attività di ricerca. Anomalia, improvvisazione, malinteso sono il carburante della ricerca (territoriale). Per dirla con Michel Serres (riferimento del mio pantheon, non di quello dei due autori), la ricerca è l’esito dello sguardo strabico e del passo incerto del mancino zoppo (Serres, 2016). Dunque, riflettere sulla ricerca significa guardare il suo farsi in azione, assumendo la necessaria sospensione del proprio dire, fare e scrivere come condizione di un’etica della ricerca e del pensiero. Non posso non sentire risuonare in molti passaggi del dialogo le parole dell’altro mio grande maestro, il filosofo Carlo Sini, per il quale mi permetto di rinviare al recente volume Idioma. La cura del discorso (2021).

Ma c’è un altro nodo che intreccia ricerca e azione: il nodo della vita. La ricerca è anche fatta di corpi: il corpo senziente del ricercatore, il corpo vivente della società e della città, i corpi tra spazio e progetto (Bianchetti, 2020). La ricerca, inseguendo il Dewey della logica come inquiry (Dewey 1938), è strettamente intramata a domande vitali. Come scrive Bianchetti, la ricerca come inquiry è «il contrario del foglietto delle istruzioni […], è un processo situato, relazionale, il cui carattere pratico allude a uno sfondo ricco, ampio e profondo» (p. 5). Nessun romanticismo: semplicemente, la ricerca accade in un contesto, in un orizzonte di senso che è definito da discorsi, da istituzioni, da dispositivi che ci sovrastano e che decidono per noi, dal “potere invisibile” (Sini, 2015) che mostra le connessioni inevitabili tra l’attività pratica della ricerca e l’uso che se ne fa.

 

Uso

Il tema dell’uso è uno di quelli che torna con maggiore frequenza nel dialogo: a mio avviso è lo snodo decisivo per comprenderne il senso. Crosta, nel primo segmento di dialogo intitolato “Che tipo di ricerca è la ricerca territoriale?” è molto chiaro in proposito: l’uso va declinato insieme all’utilizzabilità, non all’utilità. Cosa significa che una ricerca è utilizzabile? Domanda tanto più pertinente quanto più urgente, in una fase nella quale l’impatto della ricerca diventa criterio dirimente del suo valore (e della sua finanziabilità). Scrive Crosta: «La nozione di impatto ipotizza un legame funzionale: la ricerca dovrebbe avere idealmente un legame con la pratica. Il che equivale a domandarsi: qual è l’utilità della ricerca e come dipende dall’utilizzazione?» (p. 5). La risposta funzionalista a questa domanda, come ricorda subito dopo Crosta, è che ciò che non è utilizzabile non è utile. Crosta si domanda allora: «Ma è vera questa coincidenza tra utilità e utilizzabilità? L’utilizzabilità non è una prova di utilità. Il sapere può essere utilizzabile, ma poco utile» (p. 6). Dunque, dovremmo distinguere attentamente utilità, in una declinazione funzionalista (anche rispetto all’uso della ricerca territoriale nel campo delle politiche pubbliche e della pianificazione urbanistica) e utilizzabilità, in ragione del fatto che quest’ultima lascia impregiudicati e indefiniti i soggetti che possono usare la ricerca.

In altre parole, la ricerca utilizzabile, lasciando aperta una pluralità di utilizzatori (e di usi) non è “indirizzata”, “targhettizzata”. Per questo, come ricordano Bianchetti e Crosta, la metafora del tiro con l’arco per descrivere la ricerca, anche nella sue versione possibilista e hirschmaniana (aggiustare il tiro in un contesto ben definito, in cui il bersaglio è dato, etc..), dovrebbe essere abbandonata per pensare piuttosto a una sospensione attiva rispetto alle possibilità di successo operativo e funzionale, che, verrebbe da dire, ricorda moltissimo il famoso libro di Herrigel Lo zen e il tiro con l’arco (Herringel, 1975). Per provare a ridire quel che mi sembra essenziale: la ricerca non dovrebbe essere pensata come “funzione” dell’azione, ma come azione essa stessa, pratica che si aggancia e si assembla ad altre patiche, che si consegna a diversi orizzonti di senso e a una molteplicità di usi e di attori. Utilizzabile, dunque, non utile.

Mi piacerebbe molto mostrare come questa distinzione tra utile e utilizzabile richiami la discussione tra James e Peirce sul senso profondo della massima pragmatica. Peirce, che per primo ha introdotto la massima in famoso saggio del 1878 (“How to make our Ideas Clear”), rimprovera a James di immaginare che il significato di un oggetto possa essere ridotto ai suoi usi pratici. Il punto, per Peirce, non è quello: sono gli usi concepibili, non quelli direttamente e intenzionalmente perseguiti ed attuati, a definire il significato. Quest’ultimo si colloca in un flusso impersonale, in un pensare e in un fare anonimo e collettivo, piuttosto che in un dispositivo di calcolo utilitaristico (Peirce, James, 2000). La ricerca, dunque, è pratica che si innesta e si contamina con altre pratiche. Per questo, essa è inventiva, dissipativa, basata sull’immaginazione e sulla sperimentazione. Per tale ragione, ma questo lo aggiungo io, una pratica della ricerca di questa natura può contribuire a pensare ad un planning che non venga inteso come previsione e che sappia misurarsi, per usare le parole di Crosta «con le tante razionalità che si intrecciano sul territorio: istituzionali, burocratiche, tecniche, economiche sociali» (p. 11).

 

Dissipazione, disseminazione

Per me sono due i tratti essenziali del fare ricerca che emergono dalle conversazioni, e che mi piace qui sottolineare. Da una parte, la ricerca è necessariamente dissipativa, nel senso preciso in cui è utile all’azione in più modalità diverse e per molteplici attori, costituendo il proprio oggetto nel suo stesso farsi. Per questa ragione, essa è plurale. La ricerca è dissipativa perché nel suo stesso farsi, nel processo del suo dispiegarsi, in relazione ad una famiglia di altre pratiche, non assume un obiettivo definito e preordinato, ma si lascia sorprendere dall’evento, dalla sorpresa.

Si potrebbe discutere a lungo se questa visione della ricerca possa sorreggere l’interpretazione di una molteplicità di pratiche: da quelle della ricerca in laboratorio nelle scienze fisico-matematiche o della vita a quella delle discipline naturali che costruiscono il proprio sapere tra il laboratorio e l’osservazione diretta. Così come sarebbe molto interessante comprendere, sulla scia di Hirschman, come facciamo a farci venire idee nuove (e buone) nel campo delle scienze umane e sociali. Certamente, Crosta e Bianchetti mostrano come la ricerca territoriale abbia tutto l’interesse ad assumere una postura dissipativa, e un orientamento possibilista, se vuole essere in grado di farsi carico di spiegare processi che in ogni fase assorbono e tengono insieme «saperi, pratiche e tecniche diverse», mettendo in relazione «livelli normativi, valoriali, istituzionali differenti [e] diverse razionalità: burocratiche, economiche, sociali, simboliche» (p. 47).

Questa concezione dissipativa della ricerca si nutre dunque di quella che, in alcune occasioni, ho chiamato pluralità radicale delle forme di vita (Pasqui, 2018). Forme di vita, ossia pratiche di diversa natura, individuali e collettive, sociali e istituzionali, non solo cognitive, delle quali fanno parte stesse azioni di ricerca, collocate in un campo ampio, interconnesso e, in definitiva, non delimitabile. La ricerca a cui alludono Crosta e Bianchetti, dunque, è dissipativa perché si consegna a una molteplicità di altre pratiche, di altri usi. Per questo, oltre che caratterizzata dalla dissipazione, essa è intrinsecamente disseminativa. Ogni seminario di ricerca, se assume davvero una prospettiva possibilista, empirica, sperimentale, improvvisativa, è un “disseminario” (Derrida, 1972), apre ad una dispersione potenzialmente infinita di significati, di usi, di “prese” e assemblaggi entro altre pratiche di vita e di sapere. Per usare le parole di Crosta: disseminare la ricerca significa smettere di pensare solo ai risultati. «La ricerca ansiosa di produrre risultati si nega come ricerca. È sbagliata quasi quanto l’idea di metodologia come cassetta di strumenti che si usano da soli» (p. 90).

 

Op. cit.: l’impersonale

Di chi è dunque la ricerca? In tempi nei quali il demone dell’attribuzione (chi ha scritto cosa, in un articolo scientifico? Attento, giovane ricercatore, sii molto chiaro nella nota dedicata alle attribuzioni!) domina la scena valutativa, Pier Luigi Crosta ci suggerisce che, proprio perché si dissemina, la ricerca non è di nessuno. In un passaggio bellissimo del dialogo, Crosta suggerisce che la condizione del fare ricerca è quella dell’impersonale. «Voglio solo ribadire che all’inizio non c’è l’individuo, ma l’individuazione (anche per Dewey, l’individuazione è la formazione dell’individuo come soggetto). La società è una pluralità, non un insieme di individui. Una pluralità nella quale, attraverso l’azione, emergono gli attori» (p. 62).

Mi piacerebbe stare molto di più su questa frase, commentarla parola per parola, discuterla a lungo. Mi accontento, qui, di evidenziare le conseguenze di questo atteggiamento, conseguenze su cui Bianchetti e Crosta tornano a più riprese: la ricerca non è né impresa individuale, né azione collettiva. Si tratta piuttosto di un dialogo continuo con “autori/personaggi” e con situazioni, che vengono di volta in volta utilizzati per costruire oggetto, e di conseguenza soggetto, della pratica di ricerca. Un soggetto “comune”, impersonale, disperso. Per questa ragione Crosta insiste così tanto nella critica all’uso della bibliografia come dispositivo di auto-collocazione accademica. La bibliografia dovrebbe essere un’occasione per pensare, nella quale l’incontro, reale o immaginario, con testi altrui non si assoggetta alle regole delle discipline, ma si costruisce nella definizione di problemi e oggetti.

La ricerca è dunque impersonale in modo ben diverso dall’impersonalità delle molte firme sugli articoli che restituiscono le sperimentazioni di gruppi di lavoro che operano in grandi laboratori. Si tratta di una pratica impersonale perché impegnata in un dialogo e in un dissenso non antagonista in cui le tracce del percorso di ricerca si disperdono, assumendo sensi nuovi e imprevedibili, in altre pratiche di ricerca (e non solo). Per questo, mi permetto di aggiungere, Pier Luigi Crosta ha formato molti ricercatori ma non ha mai “fatto scuola”, nell’accezione di questa espressione che è stata a lungo dominante nelle pratiche universitarie di produzione e riproduzione dei poteri e dei saperi.

 

Politica (della ricerca)

Non serve sottolineare quanto le suggestioni della conversazione tra Crosta e Bianchetti alludano a un modo di intendere la ricerca in radicale opposizione rispetto alle forme di accreditamento e valutazione dei risultati della ricerca accademica che oggi vanno per la maggiore. Proprio Bianchetti ha discusso in profondità il tema, a partire dalla sua esperienza come coordinatrice del Gruppo di esperti della valutazione (GEV) nell’area dell’architettura, nell’ambito della Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) 2011-2014 (Bianchetti, 2018). Se voglio dunque pensare ad un uso possibile delle conversazioni tra Crosta e Bianchetti, io indicherei la via di un uso “politico”. La politica è in fondo una presenza fantasmatica nel volume. Da una parte gli Autori sollecitano una decisa ripoliticizzazione degli studi e della ricerca in campo urbano e urbanistico, sottolineando come i saperi «progressivamente specializzati, professionalizzati, segmentati» di cui parla Bianchetti nella sezione del dialogo intitolata appunto “L’orizzonte della politica” (p. 53), finiscano per limitare la forza dirompente della conoscenza comune, intramata in pratiche di vita spesso conflittuali. Dall’altra parte, l’osservazione e la spiegazione tentativa della pluralità sociale non si deve accompagnare, secondo Crosta, ad alcun atteggiamento ideologico. La stessa nozione di progetto, intesa come prefigurazione del futuro sulla base di un insieme di orientamenti e valori, è semplicemente estranea all’interesse di Crosta. O meglio, è studiata come uno dei materiali che si accumulano nei diversi assemblaggi delle pratiche concrete di vita e di conoscenza.

Come ho già avuto modo di osservare, la forma di interazione che secondo Crosta presiede alla produzione dello spazio può essere definita “impolitica”, perché riconosce l’irriducibilità della società allo Stato e dell’interazione sociale (anche conflittuale) ai procedimenti di riduzione funzionalistica dell’interazione a domanda sociale. La società è prima e oltre che comunità politica, intesa come ambito ordinato della cooperazione e del conflitto istituzionalizzato nello spazio pubblico in vista del (buon) governo. Non a caso in un passaggio delle conversazioni Crosta parla di atteggiamento “anarchico”. Penso dunque che l’uso politico del lavoro di Crosta, e anche di queste straordinarie conversazioni, debba prendere un’altra strada, che mi piace chiamare di “politica della ricerca”. Se è vero che il vero cuore del libro è un’idea di (pratica della) ricerca, allora suggerisco di pensare al lavoro di Crosta, e alla conversazione con Bianchetti, come un pharmakon. Come spiega Derrida (1972), il pharmakon è sia un antidoto, un rimedio, che un (possibile) veleno. La ricerca utilizzabile (ma non necessariamente utile), dissipativa e disseminata nel campo impersonale degli usi e delle prese possibili entro altre pratiche di vita e di sapere, basata sull’anomalia, sull’esperienza, sul dissenso, può anche essere pericolosa. Tuttavia, mi piacerebbe che tale postura nei confronti del fare ricerca possa essere utilizzata come un rimedio nei confronti di regole, meccanismi, dispositivi che inibiscono le possibilità creative del ricercare, specializzano e segmentano le conoscenze, mutilano ogni possibile trespassing. Un rimedio da usare con cura e attenzione, perché non si corra il rischio di riprodurre modelli passati e inaccettabili (dal rifiuto della valutazione all’autoreferenzialità velleitaria); ma insieme un rimedio necessario per provare, come ho cercato di argomentare di recente insieme a Laura Montedoro (Montedoro, Pasqui, 2020), a ripensare l’università, e la ricerca, nella prospettiva di un senso a venire.

Per tutte queste ragioni, dunque, torno in conclusione a ringraziare Cristina Bianchetti e Pier Luigi Crosta per aver messo a disposizione di usi molteplici un testo anomalo e straordinario, che ci sollecita a ripensare la ricerca territoriale a partire da una auto-riflessione sul nostro stesso dire, fare e scrivere.

Gabriele Pasqui

 

Riferimenti
Bianchetti, C., 2020, Corpi tra spazio e progetto, Milano, Mimesis.
Bianchetti, C. (a cura di), 2018, La ricerca in architettura. Temi di discussione, Siracusa, LetteraVentidue.

Crosta, P.L., 1990, La politica del piano, Milano, Franco Angeli.
Crosta, P.L., 1998, Politiche. Quale conoscenza per l’azione territoriale, Milano, Franco Angeli.
Crosta, P.L., 2010, Pratiche. Il territorio “è l’uso che se ne fa”, Milano, Franco Angeli.
Derrida, J., 1989, La disseminazione, Milano, Jaca Book (ed.or. 1972)
Dewey, J., 1938, Logic: The Theory of Inquiry, New York, Holt.
Herringel, E., 1975, Lo zen e il tiro con l’arco, Milano, Adelphi (ed. or. 1948).
Montedoro, L., Pasqui, G., 2020, Università e cultura. Una scissione inevitabile?, Santarcangelo di Romagna (RM), Maggioli.
Pasqui, G., 2018, La città, i saperi, le pratiche, Roma, Donzelli.
Peirce, C.S., James, W., 2000, Che cos’è il pragmatismo, Milano, Jaca Book.
Serres, M., 2016, Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente, Torino, Bollati Boringheri (ed. or. 2015).
Sini, C., 2015, Inizio, Milano, Jaca book.
Sini, C., 2021, Idioma. La cura del discorso, Milano, Jaca Book.

 

N.d.C. - Gabriele Pasqui, professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica al Politecnico di Milano, ha diretto il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani dal 2013 al 2019. Attualmente è responsabile scientifico di un progetto di ricerca sulle Fragilità territoriali selezionato dal Miur nell’ambito dell’iniziativa “Dipartimenti di Eccellenza”.

Tra i suoi libri: Il territorio delle politiche (F. Angeli, 2001); Confini milanesi (F. Angeli, 2002); Progetto, governo, società (F. Angeli, 2005); Territori: progettare lo sviluppo (Carocci, 2005); Città, popolazioni, politiche (Jaca Book, 2008); con P. C. Palermo, Ripensando sviluppo e governo del territorio (Maggioli, 2008); con A. Lanzani, L'Italia al futuro (FrancoAngeli, 2011); con A. Balducci e V. Fedeli, Strategic planning for contemporary urban regions (Ashgate, 2011; Routledge, 2016); Urbanistica oggi (Donzelli, 2017); La città, i saperi, le pratiche (Donzelli, 2018); con C. Sini, Perché gli alberi non rispondono. Lo spazio urbano e i destini dell'abitare (Jaca Book, 2020); con L. Montedoro, Università e cultura. Una scissione inevitabile?, Maggioli (2020).

Per Città Bene Comune ha scritto: Pensare e fare urbanistica, oggi (26 febbraio 2016); Come parlare di urbanistica oggi (8 giugno 2017); I confini: pratiche quotidiane e cittadinanza (11 gennaio 2019); Più Stato o più città fai-da-te? (21 febbraio 2020); La storia tra critica al presente e progetto (23 ottobre 2020).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

28 MAGGIO 2021

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti
Filippo Maria Giordano
Federica Pieri

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
2021: programma/1,2,3,4
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021:

R.R., L'Urbanistica italiana si racconta, introduzione al video: E. Bertani (a cura di), Autoritratto di Alberto Magnaghi (Casa della Cultura 2020)

S.Saccomani, La casa: vecchie questioni, nuove domande, commento a: M. Filandri, M. Olagnero, G. Semi, Casa dolce casa? (il Mulino, 2020)

G. Semi, Coraggio e follia per il dopo covid, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei Sociologi e delle Sociologhe dell’Ambiente e del Territorio sulle Città e le Aree Naturali del dopo Covid-19, (Ledizioni, 2020)

R. Riboldazzi, Per una critica urbanistica, introduzione a: Città Bene Comune 2019 (Ed. Casa della Cultura, 2020)

M. Venturi Ferriolo, Contemplare l'antico per scorgere il futuro, commento a: R. Milani, Albe di un nuovo sentire (il Mulino, 2020)

S. Tagliagambe, L'urbanistica come questione del sapere, commento a: C. Sini, G. Pasqui, Perché gli alberi non rispondono (Jaca Book, 2020)

G. Consonni, La coscienza di luogo necessaria per abitare, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

E. Scandurra, Nel passato c'è il futuro di borghi e comunità, commento a: G. Attili – Civita. Senza aggettivi e senza altre specificazioni (Quodlibet, 2020)

R. Pavia, Roma, Flaminio: ripensare i progetti strategici, commento a: P. O. Ostili (a cura di), Flaminio Distretto Culturale di Roma (Quodlibet, 2020)

C. Olmo, La diversità come statuto di una società, commento a: G. Scavuzzo, Il parco della guarigione infinita (LetteraVentidue, 2020)

F. Indovina, Post-pandemia? Il futuro è ancora nelle città, commento a: G. Amendola (a cura di), L’immaginario e le epidemie (Mario Adda Ed., 2020)

G. Dematteis, Il territorio tra coscienza di luogo e di classe, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

M. Ruzzenenti, Una nuova cultura per il bene comune, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei sociologi e delle sociologhe dell’ambiente e del territorio sulle città e le aree naturali del dopo Covid-19 (Ledizioni, 2020)

F. Forte, Una legge per la (ri)costruzione dell'Italia, commento a: M. Zoppi, C. Carbone, La lunga vita della legge urbanistica del '42 (didapress, 2018)

F. Erbani, Casa e urbanità, elementi del diritto alla città, commento a: G. Consonni, Carta dell’habitat (La Vita Felice, 2019)

P. Pileri, Il consumo critico salva territori e paesaggi, commento a, A. di Gennaro, Ultime notizie dalla terra (Ediesse, 2018)

 

 

 

 

 

 

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