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La città è sotto osservazione. Ormai forma predominante di insediamento in tutte le regioni del mondo, ci si interroga su quale sarà il futuro urbanizzato che ci attende. D’altra parte, il progresso di tecnologie intelligenti spinge sempre più spesso a affidare la decisione a sistemi di elaborazione di dati. Forse, dunque, ciò che ci aspetta è un futuro di “città pensanti”, capaci cioè di autodecidere quali trasformazioni siano più consone, efficienti, adeguate, ma meno certo che siano anche più giuste e democratiche.
Dopo il loro Cities: Reimagining the Urban apparso nel 2002 (edizione italiana, il Mulino, 2005), con Vedere come una città (Seeing Like a City, Cambridge, Polity Press, 2016) pubblicato di recente in italiano (Mimesis, 2020, cura e introduzione di Francesca Governa e Michele Lancione), Ash Amin e Nigel Thrift forniscono un ulteriore contributo alla riflessione sul futuro della città. Usando un inglese assai raffinato e per questo non sempre semplicissimo da seguire (congratulazioni per la traduzione), il testo si muove all’interno di contorni teorico/interpretativi dichiaratamente non predefiniti, con l’obiettivo di aprire percorsi di ricerca che si intersecano su terreni poco, male o addirittura per niente esplorati, tanto da collocarsi entro un contorno (il frame) che potremmo definire come da “liberi tutti”. Questo ne fa certamente un testo intrigante per i molti spunti originali che offre ma, allo stesso tempo, inquietante, verrebbe da dire pericoloso se non maneggiato con cura. Nel cercare di spiegarmi riprenderò pezzi interi del testo dato che, come ho segnalato, la forma della scrittura è sia complessa che complicata, di cui è bene averne prova.
Due sono le assunzioni su cui gli autori poggiano la propria lettura della città contemporanea, e di quella futura. La prima, che la città ha una soggettività propria che gli umani (l’ormai piuttosto abusato antropocene) ovviamente plasmano, ma da cui sono a loro volta plasmati data la “capacità di agire della città”: la città pensa. La seconda, che questa personalità propria della città risiede nel sistema di infrastrutture – materiali e immateriali – di cui dispone e che la innerva, dato che le città sono insiemi intrecciati di infrastrutture.
Proviamo a tratteggiare la sostanza della prima asserzione. La città è un soggetto pensante in sé, al di là di chi la abita, chi ci lavora, chi la visita, chi ci transita, le quattro note categorie di fruitori tratteggiate da Guido Martinotti (Metropoli. La nuova morfologia sociale della città, Bologna, Il Mulino, 1993). Il pensiero della città è dato dall’insieme e dal flusso di relazioni che connettono le innumerevoli dimensioni dell’esistere urbano, di ciò che si svolge al suo interno, ma non solo. La città è “un campo di forza combinatorio”, “un assemblaggio adattivo complessivo” (p. 30). Questa forza urbana “è concettualizzata come distribuita, coalizionale ed eterogenea. È insieme fissa, attraverso il rendimento di potere, e mobile, poiché si muove costantemente in nuove direzioni a causa delle proprietà emergenti dei sistemi interattivi” (p. 31). Tale capacità di agire “può essere funzione sia del come, in un campo di forza di interazioni relazionali, gli input ibridi sono organizzati e fatti funzionare attraverso vari dispositivi di accoppiamento e amplificazione […] sia dal carattere della ecologia generale delle interazioni” (p. 31). Si tratta di affermazioni di evidenza non immediata, che peraltro gli autori solo di rado aiutano a supportare con riferimenti a luoghi. Di fatto, ciò che viene ribadito è che la città è un fenomeno complesso, all’interno della quale si trovano situazioni molteplici che entrano in relazione tra di loro (un campo di forza combinatorio di sistemi interattivi fatti funzionare attraverso vari dispositivi di accoppiamento e amplificazione) dando luogo a svariati meccanismi e condizioni di connessione che, verrebbe da aggiungere, sollevano i problemi e offrono le opportunità tipici di una qualsiasi realtà urbana, specialmente ma non solo di quelle di maggiori dimensioni.
La città – affermano Amin e Thrift – è dotata di una “capacità macchinica di agire” (p. 35), risultante dalla “composizione e political economy dei sistemi urbani sociotecnici” che “convertono, amplificano e distribuiscono risorse, permettendo così di riconoscere come le iscrizioni della forma costruita (ad esempio, il potere simbolico degli edifici iconici o la tacita distribuzione delle infrastrutture) modifichi i calcoli della pericolosità e del rischio globale” (p. 35). Questo tipo di lettura, segnalano, ha portato autori diversi a formulare concetti come la “modernità pirata”, la “formalità improvvisata”, il “ritmo dei nodi”, un “modo per catturare il continuo e intrecciato susseguirsi di azioni contrastanti che connota la vita urbana” (p. 35). Avanzando in questa direzione, gli autori sottolineano come “la sfida per la ricerca urbana diviene quella di identificare i meccanismi di feedback e il modello di effetti aggregati così che possano essere calcolati i saldi di ricorsione* e rottura” (p. 36). E tuttavia mettono in guardia con forza dall’idea che, pur in presenza di capacità computazionali sempre più raffinate – quelle che sottostanno alla seduzione che la smart city accende in molti politici – sia pensabile che “le profondità nascoste della città” possano essere captate e intese attraverso meccanismi di feedback, per quanto sofisticati, affidando loro il compito di suggerire le decisioni appropriate. “Piuttosto che sottomettere la città a un’intelligenza esperta, si tratterebbe di riconoscere le intelligenze già all’opera… di considerare che sia lo spettro dell’intelligenza distribuita che tiene insieme la complessità della città, previene paralisi o implosioni, provvede i mezzi per negoziare la molteplicità urbana e sperimenta la saggezza dei sistemi di gestione della conoscenza urbana ordinaria” (p. 37). Tutto sommato un’affermazione che, presentata sotto una forma alquanto involuta, sostanzialmente ritrae ciò che già succede – l’intrecciarsi nella città di interessi, spinte e tensioni diverse, con le relative “intelligenze” che le accompagnano – e che conosciamo, ma che gli autori definiscono come “una scienza di ricostruzione e verifica, non di formule e prove, ma di congetture… una scienza dell’incompletezza, dell’imparare ciò che c’è più e più volte” (p. 42), o anche, in maniera forse enfatizzata, una “scienza alternativa della città” (p. 39).
Il successivo capitolo del libro apre con la seconda asserzione con cui gli autori dichiarano che “l’infrastruttura ha generato la circolazione, ha generato la città, ha generato l’Antropocene” (p. 43) e che le città sono “prima di tutto, costellazioni di infrastrutture intrecciate” (p. 98), “un groviglio infrastrutturale con una capacità di agire costitutiva” (p. 43), con un “loro proprio tipo di causalità, che non coincide o non si collega con noi” (p. 62). La città dispone di una personalità propria, che risiede nel complesso di infrastrutture su cui si fonda e che le permette di funzionare. “Le pratiche di potere delle infrastrutture, producono a proprio modo un dialogo con i protagonisti, trovano modi efficaci per smascherare accordi infrastrutturali limitati e divisivi, lavorano per rendere contagiosi e possibili i disegni alternativi e, soprattutto, trovano modi di inserire nuovi software e hardware nelle reti esistenti come moltiplicatori di benessere generalizzato” (p. 144). Ovviamente viene specificato che per infrastruttura non si deve intendere solo l’elemento fisico, ma anche “i processi di standardizzazione, compatibilità tecnica, rivalità professionale, imperativi burocratici, competenze normative e tutte quelle disposizioni generali che permettono che le cose, abbastanza letteralmente, si adattino vicendevolmente” insieme alle “pratiche di manutenzione e riparazione che permettono all’infrastruttura di continuare a funzionare, almeno in qualche forma, e che ne garantiscono l’esistenza” (p. 44). Il testo ragiona quindi sul fatto che l’infrastruttura, con i suoi tubi, condotti, cavi, scavi, “segnali stradali, torri delle comunicazioni, porte e finestre che si susseguono all’infinito” sviluppandosi, come ben sappiamo, sia al di sopra che al di sotto dello strato antropizzato, costituisce una seconda natura nel paesaggio urbano che attraversiamo quotidianamente. A questo tipo di infrastruttura, viene ricordato, negli ultimi decenni si è affiancata quella dell’informazione e delle comunicazioni, “al contempo personale e impersonale, una terza natura costituita da una serie di elementi macchinici di individuazione che è, in sé, singolare e plurale” (p. 61). Ne consegue che gli individui sono diventati delle “‘frasi fatte’ dentro macchine che consistono in vari ibridi di animazione/automazione che si sommano a un processo di circolazione in cui l’intelligenza e la cognizione, le sensazioni e i sentimenti, la memoria e il desiderio sono raggruppati insieme in modo diagrammatico e non rappresentativo e manipolati attraverso la modellazione e la modulazione così che la realtà non percettiva diventi realtà” (p. 61).
Le città dunque sono “una serie di nodi che si basano su vari tipi di armonizzazione nel quali l’infrastruttura è il filo vitale. Sono mappature viventi che si manifestano sempre e in ogni luogo e in questo modo costruiscono costantemente proposizioni irregolari e incomplete, ma sempre produttive a partire da assemblaggi spesso non intenzionali, confondendo i confini tra ordinario e straordinario” (p. 67). Che la città sia e sia stata in ogni suo momento e in ogni luogo il prodotto dell’incrocio tra interessi economici, domande sociali, quadri istituzionali e spinte culturali diversi è riconosciuto da tempo, per cui non si può che concordare con Amin e Thrift quando scrivono che “le economie urbane sono troppo variegate, interattive e immerse dentro una città per essere ridotte a un insieme di principi standard” (p. 98), e altrettanto convincente appare l’affermazione secondo cui la città (la conurbazione) è “il suo rivestimento di infrastrutture”, dato il significato cumulativo assegnato dagli autori a questo termine.
Il filo del discorso non è dunque semplice. Da un lato rimanda a una quantità di elementi, attori e processi tali da far pensare alla città nel suo insieme quale la esperiamo costantemente nel vivere urbano, nel suo essere materiale e istituzionale, dall’altro introduce un livello di ragionamento sovrastrutturale certamente non convenzionale, ma di cui non è dato capire con quali strumenti possa essere orientato, se non guidato, nel senso di quali politiche si possano attivare per migliorare le condizioni del vivere urbano. Riconoscendo che “la ‘macchina urbana’ è un insieme di sistemi sociotecnici” con una “capacità di azione combinatoria e rizomatica”, non pienamente “conoscibile o tracciabile”, gli autori affermano che intervenire sulla città richiede “interruttori e connettori che possano amplificare le intenzioni politiche e isolare eventuali danni, ma richiede anche intelligenza anticipatrice e flessibilità organizzativa in grado di mantenere l’alto livello di incertezza che caratterizza gli assemblaggi urbani” (pp. 139-140). Fin qui niente di nuovo, verrebbe da dire. Le politiche urbane da tempo hanno messo da parte i tradizionali strumenti deterministici come il piano regolatore, avendo riconosciuto la loro inadeguatezza a fronte di un fenomeno – la città – soggetto a cambiamenti e rivolgimenti sempre più accelerati e sempre meno prevedibili. E che sia il centro di continue negoziazioni tra interessi diversi, cioè che la città sia “di per sé una macchina politica” anche è constatazione che non è necessario ricordare. Per questo gestire una città è affascinante, anche se sempre meno facile. Gli autori sottolineano giustamente come per farlo i politici locali (city leaders) devono certo riconoscere le molte conoscenze che stanno nelle diversità della città e attingervi per disegnare il futuro, ma assumersi anche la responsabilità della sintesi e della decisione.
Il testo diventa più problematico quando si avventura su un terreno propositivo/operativo. L’idea che viene formulata è incardinata, coerentemente con il filo del ragionamento complessivo, sul tema delle infrastrutture: “il diritto di accesso alle infrastrutture urbane, ai mezzi di circolazione, alla connettività e alla fornitura dei servizi è altrettanto vitale per i poveri” (p. 131). Va sottolineato però che si assiste a un sostanziale slittamento dell’ambito di riflessione, dato che a questo punto il discorso si sposta sulle città del Sud del mondo, quelle in cui una gran parte della popolazione, non di rado la maggioranza, è tuttora esclusa dall’accesso a infrastrutture anche minimamente adeguate, dall’acqua alla casa alla sanità. Qui Amin e Thrift mettono in discussione la politica basata sul “rafforzamento delle capacità”, caldeggiata da Amartya Sen (Lo sviluppo è libertà, Milano, Mondadori, 2000), perché basata su “costruzioni immaginarie della soggettività” (p. 161), senza per la verità chiarire i fondamenti di una valutazione siffatta.
Che sia indispensabile una politica attiva di redistribuzione delle risorse materiali (qui sì parliamo di infrastrutture materiali), cioè un intervento dello Stato, per migliorare le condizioni di vita delle città, è affermazione del tutto condivisibile. Il testo propone l’istituzione di un fondo internazionale “finanziato da qualcosa di simile alla Tobin Tax” (p. 132), attivato da un insieme di soggetti – Stati nazionali, ong, fondazioni private – per dotare i poveri urbani delle infrastrutture cui ancora non hanno accesso. In questo modo – ma il come non viene esplicitato – verrebbero superati gli insuccessi e gli sprechi di analoghe azioni condotte in passato “diminuendo significativamente” i costi per il miglioramento dei trasporti e delle comunicazioni, per realizzare gli alloggi sociali che mancano e i servizi pubblici insufficienti. A fronte di un’ipotesi di questo genere le riflessioni che si possono avanzare sono numerose. Una emerge sopra ogni altra, quella che riguarda la gestione o, se si vuole, la governabilità di un intervento (dei molti interventi) di questo tipo e, di conseguenza, l’effettiva efficacia redistributiva che una politica delle infrastrutture potrebbe avere in contesti, come noto, nella maggior parte dei casi tutt’altro che propensi a perseguire l’uguaglianza sociale. Se non si chiariscono questi aspetti diventa arduo seguire il ragionamento e condividerne l’impostazione.
Sostenere che la città è “una macchina combinatoria e polifonica che sta assumendo una propria vita” e che “le città pensano”, producendo “vari tipi di efficacia che altrimenti non potrebbe esistere” (p. 141) non aiuta a chiarire in che modo tale “pensiero” possa contribuire a realizzare una città più inclusiva, più giusta e più democratica di quella attuale. E non appare sufficiente l’affermazione secondo cui vi è “la necessità di una serie di competenze combinatorie nella costruzione, così come la loro continua attivazione nelle pratiche di manutenzione che, nella città contemporanea fatta di reti infrastrutturali nascoste, multiple e dilatate, dovranno coinvolgere ogni nuovo tipo di diplomazia pratica e simbolica, espandere la capacità di ricerca, i compromessi creativi e la costruzione di coalizioni che si muovano in una vasta gamma di spazi” (p. 143). Oppure sottolineare “la necessità di un insieme di abilità in grado di adeguare i numerosi, diversi e concorrenti interessi delle popolazioni urbane attraverso una miscela giudiziosa di competenze burocratiche e politiche rivolte a produrre alleanze inattese e effetti cumulativi attraverso una molteplicità di capacità” (p. 143). Del resto, uno dei curatori aveva già notato una certa qual ritrosia del libro nel definire il tipo di politica delle infrastrutture che si potrebbe/dovrebbe mettere in atto (Lancione, “There is Nothing Like a City”, Society and Space, 2017). Le poche righe dedicate dal libro a questo aspetto oscillano tra una visione che vede nelle “molte comunità – umane e non umane, ibride o multiple - […] un pluralismo esistenziale che accoglie nel mondo non solo i suoi elementi privilegiati e che considera la comprensione del mondo non solo come un insieme di molteplici credenze o prospettive, ma come, letteralmente, una trasformazione del paesaggio dell’essere e del divenire” (p. 145), e l’affermazione che “le questioni infrastrutturali richiedono un governo esplicito, una leadership capace e un’apertura verso una sorta di multinaturalismo, facendo spazio a una politica dalle molteplici prospettive di esistenza in cui le priorità infrastrutturali diventano esplicitamente politicizzate, in cui ciò che di solito è considerato come effetto può diventare causa” (p. 144) in cui i city leader svolgono il ruolo di leadership, appunto, che è loro proprio.
La distanza rispetto a interpretazioni fondate su una lettura strutturale di cosa sia la città di oggi è dunque notevole. Anche se richiamata in diversi passaggi, il testo lascia sostanzialmente sullo sfondo i rapporti sociali che si instaurano nella società urbana, il fatto che organizzazione e funzionamento della città sono la risultante di rapporti di forza tra i gruppi sociali, gli interessi, le istituzioni che la abitano e la governano. Aspetti quali il sistema economico, la rendita, le regolamentazioni, l’accessibilità, il posizionamento nel sistema degli scambi con il fuori, quello prossimo e quello distante, praticamente non vengono menzionati, là dove essi sono invece innegabilmente gli agenti primi del funzionamento sociale, culturale e politico di una città fino a condizionare le forme stesse dello spazio urbano. Tra tutti basterà ricordare David Harvey (Giustizia sociale e città, Milano, Feltrinelli, 1978) per il quale l’organizzazione dello spazio può influire sui rapporti sociali, ma esso è modellato dalle forze di mercato e riflette l’ideologia dei gruppi dominanti e delle istituzioni che ne sono l’espressione.
Vedere come una città mette da parte la riflessione sulla relazione tra struttura della società urbana con tutte le sue ramificazioni e articolazioni, e rapporti di forza al suo interno, e su come questi determinano mutamenti, progressioni, declini, inclusività o marginalizzazione. Nel sostenere che il libro mira a “superare interpretazioni consolidate e stantie”, l’introduzione riconosce che il libro guarda prima di tutto alla politica della città intesa come “politica vissuta” (politics), ma non appunto di “politica urbana” (policy), di una prospettiva cioè che rimanda forse a “vecchie e nuove retoriche”, ma che rimane indispensabile se si vuole dare un segno all’azione nella città. Come anche sottolinea l’introduzione, il testo presenta invece un’impostazione vitalista, nel senso che Amin e Thrift “letteralmente vedono la vita come una città”. Ma sta proprio qui l’ambiguità del libro, il considerare la città come un insieme di “connessioni macchiniche”. Sta qui, a mio parere, la “pericolosità” di una lettura che sottovaluta o addirittura nasconde le relazioni di potere nella città e il loro continuo processo di confronto, negoziazione, tensione. Il governo della città altro non è che il modo con cui vengono (re)distribuite le risorse, e per quella via, di promuovere o contrastare la democrazia. Policy, appunto, che il sostituire con una, tra il sibillino e l’arrendevole, “scienza-arte incerta e incontrollabile” quale il testo suggerisce, solleverebbe indubbiamente più di qualche perplessità.
Marcello Balbo
* Metodo per definire funzioni in modo tale che la funzione includa sé stessa nella propria definizione. Si tratta di una tecnica di programmazione molto potente e molto sfruttata in informatica, in quanto consente di suddividere il problema da risolvere in sottoproblemi analoghi all’originale ma più semplici, perché agenti su dati di ingresso ridotti (Mauro Cappelli, Enciclopedia della Scienza e della Tecnica, 2008)
N.d.C. - Marcello Balbo, già professore ordinario di Urbanistica all’Università Iuav di Venezia e titolare della cattedra Unesco ‘Social and Spatial Integration of International Migrants: Urban Policies and Practice’ presso lo stesso ateneo, è stato coordinatore di progetti di ricerca e consulente nell’ambito di progetti di pianificazione in Afghanistan, Cambogia, Eritrea, Somalia e America Latina. Il master Iuav U-RISE ‘Rigenerazione urbana e innovazione sociale’, di cui è stato a lungo responsabile scientifico, lo ha portato più di recente a occuparsi anche di temi più attinenti il nostro paese.
Tra i suoi libri: (a cura di), International migrants and the city (UN-Habitat, 2005); (a cura di), La città nei PVS. Sviluppo e inclusione sociale (Cleup, 2009); Social and spatial inclusion of international migrants (Iuav - Ssiim Unesco, 2009); (a cura di), Médinas 2030: scénarios et stratégies (L’Harmattan, 2010); (a cura di), The Medina: the restoration and conservation of historic Islamic cities (I.B.Tauris, 2012); (a cura di), Migrazioni e piccoli comuni (FrancoAngeli, 2015).
Per Città Bene Comune ha scritto: Disordine? Il problema è la disuguaglianza (7 settembre 2018); ‘Politiche’ o ‘pratiche’ del quotidiano? (8 marzo 2019); Trasporti: più informazione, più democrazia (6 novembre 2020).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 10 GIUGNO 2021 |