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«Supponiamo che egli (Carmelo Bene) amputi l’opera originaria di uno dei suoi elementi: sottrae qualcosa […]. Non procede per addizione, ma per sottrazione, per amputazione. […] Per esempio amputa Romeo, neutralizza Romeo nell’opera originaria. Allora tutta quanta l’opera oscillerà, girerà su sé stessa, poggerà su un altro lato. Amputando Romeo si può assistere ad uno sviluppo sbalorditivo […]» (1). È il travolgente quanto noto avvio del testo di Gilles Deleuze in dialogo con Carmelo Bene sul tema della minorazione. Le poche righe sopra riprese sono spesso utilizzate ad argomentare il valore generativo della minorazione che è un processo, non una qualità di qualche tipo. Non designa uno stato di fatto di qualcuno o di qualcosa, ma «un divenire nel quale ci si impegna» (2).
Il tema della minorazione è riproposto da Camillo Boano nel testo Progetto Minore. Alla ricerca della minorità nel progetto urbanistico ed architettonico (LetteraVentidue, 2020). Uno dei volumi usciti in mesi di pandemia e che da quella condizione acquista una colorazione specifica. La tesi è solo apparentemente semplice. La minorazione non è minorità, appunto. E qui è applicata ad una tra le nozioni più complicate del pensiero novecentesco, quella di progetto. Complicata anche quando la sua latitudine è circoscritta al campo architettonico e urbanistico, ovvero al campo esplorato direttamente dal libro, che pure richiama una folla di autori e testi di diversa provenienza e tradizione.
Vorrei provare a discutere tre aspetti di questo libro, non necessariamente i più rilevanti. Minorazione è un processo appunto. Meglio, «un divenire che ci impegna» come scrive Deleuze. Non c’è compiacimento per il carattere marginale, laterale, sottile, per una qualche sorta di «teoria dei margini». Tutt’altro: la minorazione è un potenziamento, si potrebbe dire rovesciando i termini. «Di grande, di rivoluzionario non c’è che il minore», altra affermazione tranchant di Deleuze e Guattari, questa volta discutendo Kafka in un testo richiamato anche da Boano (3) che bene si accorda con quel girare su sé stessa dell’opera, appoggiarsi da qualche parte, ripartire; a quello sviluppo sbalorditivo generato dall’amputazione. È una dimensione politica. La potenza della minorazione è il primo punto che vorrei provare a discutere. Il secondo, solo apparentemente di superficie, riguarda la pratica della ricerca che il libro espone nei suoi riferimenti, nei suoi richiami, nell’interrogare territori comuni tra architettura, filosofia, geografia e antropologia. Come le condizioni attuali spingono a nuovi o rinnovati modi del dialogo tra teorie e pratiche nella riflessione sul progetto? Come si lavora entro universi di altre ricerche, studi, riferimenti? Il terzo richiama il carattere situato di questo scritto, dentro la pandemia, quando un pensiero sul nostro fare diventa più urgente, più sofferto.
Primo punto. Minore è intensità. E un’intensità non necessariamente ridotta. Un progetto minore non è l’opposto del public transcript di cui parla, rovesciando l’impostazione foucaultiana, James Scott (4). Non ha a che fare con l’hidden transcript, astuto, nascosto, resistente. Non si definisce per via di rovesciamento di quel che Boano dice essere il progetto arrogante. L’espressione muscolare del progetto è un bersaglio troppo facile. Ci sono così tanti intrecci attorno al termine progetto anche solo nelle sue riscritture anni 80: da quelle disciplinari a quelle politico-filosofiche. In modo controintuitivo, minore è invece una tensione che, come nei dialoghi tra Deleuze e Bene, potrebbe generare qualcosa di diverso. Per Boano è una postura critica, ma anche un’agenda di ricerca che prova a delineare seguendo tre piste lungo le quali si ridefiniscono diversamente soggettività, spazialità, temporalità. La minorità inoperativa, seguendo Giorgio Agamben; la minorità istituente, seguendo Roberto Esposito; la minorità decoloniale, seguendo Walter Mignolo.
Secondo punto. Come ho già detto, è elevato il numero di autori richiamati nel libro di Boano. Non sono riferimenti tesi a sostenere, legittimare posizioni. Piuttosto a costruirle, secondo uno stile sempre più diffuso nella letteratura disciplinare, in particolare di marca anglosassone. Quella di Boano non è la ricerca di qualche forma di legittimazione, né una conversazione tra lui e i suoi autori (postura prediletta da Pier Luigi Crosta). È la costruzione di un pensiero che decanta, percola da altre voci, narrazioni, geografie. A un richiamo ne segue un altro. A volte non c’è spazio in mezzo. Scherzando potremmo dire che non c’è quella distanza tra le cose che ci piace rileggere nello spazio. E che ci fa capire come tra le cose, come tra i corpi e tra i pensieri, ci sia sempre qualcosa d’altro: saperi, norme, istituzioni, valori. Tutte cose di cui è ricca la distanza: ce ne si è dimenticati nei mesi scorsi nel momento in cui la distanza diveniva solo normativa ed era imposta e sofferta. Questo è un secondo tema che emerge da un libro che espone un modo diverso di leggere, scrivere, fare ricerca. Rende difficili alcuni passaggi del testo e ci interroga sul modo in cui è cambiato il modo di fare e pensare architettura. Su come hanno influito, nella ricerca, i modi della sua circolazione.
Terzo punto. Questo libro è stato pubblicato a novembre del 2020 ed è stato scritto nei mesi precedenti, dentro quel terribile esperimento naturale che ha ricollocato i nostri corpi e il nostro fare (i due aspetti sono inscindibili) nello spazio sociale, fisico, mentale della paura e del controllo. Mai come in questo periodo è stato urgente ripensare il senso di un fare progetti, politiche, programmi. Le generose proposte che si sono susseguite, soprattutto nei primi mesi del lockdown, nella primavera 2020, hanno mostrato un’evanescenza raggelante. Allora che fare? Discutendo con Gabriele Pasqui sul necessario ripensamento, essendo in disaccordo su molto, ci siamo trovati completamente allineati sulla necessità di non farsi travolgere dalle parole. La domanda centrale di Pasqui, che condivido a pieno, riguarda i modi con i quali trasformare la riflessione sul senso del nostro fare (un senso emotivo, sottolinea) in un dispositivo capace di mutare l'azione. Come fare, mettendo al centro l’incertezza? Penso che il libro di Camillo Boano provi anch’esso a cimentarsi con una tale domanda. Si potrebbe obiettare che l’architettura ha sempre pensato a sé stessa come impegno nel presente (con non trascurabili straordinarie eccezioni). E che in fondo siamo impegnati ancora in questa vecchia sfida. Ma cosa vuol dire esattamente la cosa oggi? Ne siamo realmente capaci? Ne siamo capaci inseguendo il senso emotivo del nostro fare? Le posture materiali, incarnate, sensuali, desideranti dei corpi? Le metamorfosi della minorazione come baluardo che impedisce di scivolare nella semplice opposizione minore-maggiore? Per andare oltre l'agghiacciante evanescenza di proposte di ridisegno degli spazi pubblici o di allontanamento di popolazioni fragili, penso si debba innanzitutto tentare una risposta affermativa, non nichilista a questo: ne siamo realmente capaci?
Questi sono tre spunti che il libro di Camillo Boano rilancia in una discussione più ampia. Incoraggiare rotture e nuovi germogli è una citazione, richiamata nel testo, da Cindy Katz, Towards Minor Theory: riflessione sulla minorazione dalla sfera del pensiero femminista contemporaneo.
Cristina Bianchetti
Note 1) Carmelo Bene, Gilles Deleuze, Sovrapposizioni, trad. di J.-P. Manganaro, Quodlibet, Macerata 2002, p. 85. 2) Ivi, 112. 3) Gilles Deleuze, Félix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 1996, p. 47. 4) James C. Scott, Il dominio e l'arte della resistenza, trad. di R. Ambrosoli, elèuthera, Milano 2021 (I ed. 2006)
N.d.C. - Cristina Bianchetti, professore ordinario di urbanistica al Politecnico di Torino, è stata coordinatore dell'area dell'Architettura per la VQR (2011-2014) ed è presidente del Nucleo di Valutazione dell'Università Iuav di Venezia. Tra le sue pubblicazioni: Abitare la città contemporanea (Skira, 2003); Urbanistica e sfera pubblica (Donzelli, 2008); Il Novecento è davvero finito. Considerazioni sull'urbanistica (Donzelli, 2011); (a cura di) Territori della condivisione. Una nuova città (Quodlibet, 2014); Spazi che contano. Il progetto urbanistico in epoca neo-liberale (Donzelli, 2016).
Per Città Bene Comune, ha scritto: La ricezione è un gioco di specchi (6 ottobre 2017); Lo spazio in cui ci si rende visibili… e la cerbiatta di Cuarón (5 ottobre 2018).
Dei libri di Cristina Bianchetti hanno scritto in questa rubrica: Francesco Indovina, Quale urbanistica in epoca neo-liberale (3 febbraio 2017); Massimo Bricocoli, Spazi buoni da pensare (4 maggio 2017); Pier Carlo Palermo, Vanishing. Alla ricerca del progetto perduto (30 giugno 2017); Carlo Olmo, La città tra corpo malato e corpo perfetto (3 luglio 2020); Gabriele Pasqui, La ricerca è l’uso che se ne fa (28 maggio 2021).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 18 GIUGNO 2021 |
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M. Balbo, La città pensante, commento a: A. Amin, N. Thrift, Vedere come una città (Mimesis, 2020)
G. Pasqui, La ricerca è l'uso che se ne fa, commento a: P. L. Crosta, C. Bianchetti, Conversazioni sulla ricerca (Donzelli)
R.R., L'Urbanistica italiana si racconta, introduzione al video: E. Bertani (a cura di), Autoritratto di Alberto Magnaghi (Casa della Cultura 2020)
S.Saccomani, La casa: vecchie questioni, nuove domande, commento a: M. Filandri, M. Olagnero, G. Semi, Casa dolce casa? (il Mulino, 2020)
G. Semi, Coraggio e follia per il dopo covid, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei Sociologi e delle Sociologhe dell’Ambiente e del Territorio sulle Città e le Aree Naturali del dopo Covid-19, (Ledizioni, 2020)
R. Riboldazzi, Per una critica urbanistica, introduzione a: Città Bene Comune 2019 (Ed. Casa della Cultura, 2020)
M. Venturi Ferriolo, Contemplare l'antico per scorgere il futuro, commento a: R. Milani, Albe di un nuovo sentire (il Mulino, 2020)
S. Tagliagambe, L'urbanistica come questione del sapere, commento a: C. Sini, G. Pasqui, Perché gli alberi non rispondono (Jaca Book, 2020)
G. Consonni, La coscienza di luogo necessaria per abitare, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)
E. Scandurra, Nel passato c'è il futuro di borghi e comunità, commento a: G. Attili – Civita. Senza aggettivi e senza altre specificazioni (Quodlibet, 2020)
R. Pavia, Roma, Flaminio: ripensare i progetti strategici, commento a: P. O. Ostili (a cura di), Flaminio Distretto Culturale di Roma (Quodlibet, 2020)
C. Olmo, La diversità come statuto di una società, commento a: G. Scavuzzo, Il parco della guarigione infinita (LetteraVentidue, 2020)
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