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Il libro Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste curato da Antonio De Rossi (Donzelli 2018), al quale hanno contributo molti studiosi, rappresenta un riferimento importante per riflettere sul futuro dell’intero territorio italiano. Non lasciarsi abbagliare dalle luci delle città e invertire lo sguardo; guardare l’Italia dai margini e dalle periferie, dai luoghi fragili e marginali. Un invito che progressivamente si traduce in prove nelle quali punti di vista di saperi diversi si confrontano con l’emergere concreto di pratiche di vita e di lavoro e di nuovi modelli sociali che, nel segno della diversità, sperimentano possibili scenari di cambiamento. Un cambiamento che mira a delineare strategie capaci di coinvolgere i centri storici e l’immenso patrimonio paesaggistico, spesso in stato di degrado e di abbandono, che caratterizzano le aree interne del paese per organizzare un abitare diffuso adatto a sostenere il confronto con l’abitare metropolitano. L’idea che quella delle aree interne, periferiche e marginali debba essere, nei programmi di sviluppo dell’Italia, una “questione nazionale”, convince soprattutto oggi che, dopo (o durante) la pandemia, siamo chiamati a rivedere i nostri modelli di sviluppo, anche per avviare a soluzione problemi antichi fra i quali, in particolare, quello del dissesto idrogeologico che proprio nei processi di abbandono e di assenza di manutenzione ha una delle sue ragioni fondamentali. Le aree interne, proprio per lo straordinario palinsesto culturale in esse stratificato, fatto a volte di veri e propri monumenti di cultura abitativa, tecnologica, giuridica ed economica, possono concretamente diventare un terreno fertile di grande importanza per affrontare le sfide europee delle generazioni future.
Un nuovo punto di vista per la lettura del paese non deve però portarci a fare l’errore contrario. Il nuovo sguardo, assumendo come punto di vista le aree interne, i margini e le periferie, deve comprendere anche le strutture urbane e metropolitane che una prospettiva ampia non può non identificare come necessarie per il ruolo di traino che esse possono continuare a svolgere nei processi di competizione internazionale nei quali, volenti o nolenti, continuiamo ad essere coinvolti.
Il libro, come hanno sottolineato in molti, è ricco di idee e pieno di spunti e delinea una nuova sinergia tra:
- l’idea che il patrimonio non debba essere una specie di corpo morto da difendere, ma qualcosa di vivo che può essere ricondotto nel quadro delle necessità del nostro tempo e quindi in grado di supportare le attività volte a riattivare il sistema territoriale italiano;
- l’emergere di inedite forze ed energie che, insieme con le azioni pubbliche in atto (1), lavorano per produrre un cambiamento, sperimentando nuove forme di economia, di comunità e di società improntate alla sobrietà e al limite.
Una sinergia che si è andata configurando come campo di riflessione di forze politiche concretamente impegnate nella ricerca di un futuro per l’Italia e che impone di riprendere la discussione sulle pratiche affermatesi intorno al tema del patrimonio e, soprattutto, può aprire ad una nuova stagione progettuale, in cui ritengo debba avere un ruolo importante la progettazione architettonica.
Al di là del fascino del libro e del dibattito che si è sviluppato intorno ad esso, sorprende tuttavia che, nonostante il promotore dello studio sia, giustamente, un professore di progettazione architettonica, quest’area, per quanto mi consta, sia stata finora assente dal dibattito. Anche se il problema deve essere affrontato in termini sistemici - accumulando ed elaborando criticamente le esperienze in atto al fine di individuare nuovi legami tra il sistema delle città e il sistema delle aree interne e marginali - non si possono trascurare o mettere in secondo piano i problemi dell’impostazione progettuale e del ruolo dell’architettura e degli architetti in questo programma. Per questo vorrei riflettere in particolare sulle posizioni proposte nel capitolo Progetto e pratiche di rigenerazione: l’altra Italia e la forma della cosa di Antonio De Rossi e Laura Mascino.
Gli autori criticano le pratiche della patrimonializzazione perché sanno bene che esse hanno portato a tradurre la progettualità in elencazioni di beni da valorizzare e a ridurre il tema del progetto in ambiente storico alle logiche del turismo, che obbligano all’utilizzo di materiali tradizionali e alla stereotipizzazione e omologazione delle forme. Condivido questa impostazione, come si può dedurre dal mio saggio Patrimonio e progetto di architettura (2) pubblicato nel 2011 nel quale rilanciavo temi già proposti negli studi fatti a Mantova sul Parco del Mincio tra il 1999 e il 2000 (3) e allora confluiti nel saggio “Cultura e tecniche di manutenzione e valorizzazione del paesaggio”(4). Come è noto, la pratica di conservare ogni reperto del lavoro umano, in quanto parte integrante del patrimonio storico e culturale di un popolo, ha portato al diffondersi del principio della conservazione generalizzata. Un principio teoricamente esatto, ma impraticabile nella realtà perché, per ricordare, saremmo costretti a conservare tutto e quindi, paradossalmente, a dimenticare. La memoria non può che essere selettiva e per questo l’espressione del giudizio e la conseguente selezione del patrimonio hanno un ruolo fondamentale nei processi di tutela e conservazione. C’è poi la questione della valorizzazione finalizzata a trasformare in brand l’identità di manufatti e paesaggi con l’obiettivo di mettere a frutto la storia e l’anima del patrimonio. I rischi insiti nei processi di “valorizzazione” erano stati anticipati da Françoise Choay (L’allegoria del Patrimonio, 1995), ma forse è utile riflettere di nuovo intorno a questo ambito di problemi, nel momento in cui si pensa di avviare un vasto programma sulle aree interne. Un programma che gli autori ancorano alle pratiche di rigenerazione, ma che io penso debba innanzitutto e più propriamente passare attraverso azioni di ricomposizione insediativa da gestire con gli strumenti della composizione architettonica e urbana che ha un ruolo fondamentale nel processo di controllo delle trasformazioni dello spazio fisico. Anche se è vero che il termine rigenerazione coinvolge quadri estesi del sapere, essa, nelle pratiche prevalenti, finisce per tenere a margine e a volte per escludere l’ambito proprio della composizione architettonica.
Perché il processo delineato nel libro possa avere successo è certamente necessario accompagnare e sostenere i progetti che emergono dai luoghi ma, per ricostruire compiutamente le condizioni di abitabilità del territorio, è altrettanto necessario un impegno di infrastrutturazione ambientale e morfologica alla grande scala, cioè capace di legare insieme territori complessi. Questo non è un tema progettuale da affidare al solo sapere di ingegneri, geologi, idraulici, agronomi, ecc., ma è esattamente un problema di architettura e di progettazione architettonica alla grande scala, da orchestrare in sintonia con i contributi dei diversi saperi coinvolti. Per questo ritengo che non sia possibile separare la grande scala dalla piccola scala. Gli autori, invece, propongono tale distinzione perché la prima dovrebbe essere di competenza di altri saperi; mentre la seconda dovrebbe rappresentare il campo privilegiato di azione della progettazione architettonica che sarebbe così chiamata a sviluppare una sensibilità artigiana nelle attività di presa in cura e di manutenzione, lavorando per piccole-medie progettualità, in una logica di qualità diffusa opposta a quella delle grandi opere. La progettazione dovrebbe poi lavorare sull’interpretazione delle preesistenze, piuttosto che sulla loro trasformazione-costruzione.
Intanto dobbiamo precisare che il risultato di una interpretazione delle preesistenze non può che dare luogo a una realtà diversa, frutto di un adattamento coerente con le dinamiche del nostro tempo e “instabile” come lo è da sempre il rapporto uomo/natura. Penso poi che un programma di tale portata debba comprendere insieme la piccola e la grande scala e che quest'ultima non possa essere delegata ad altri saperi e ad altri organismi (Corpo Forestale, Genio Civile, Istituto di Economia Agraria), importanti e necessari ma, secondo me, da convogliare in processi da gestire con gli strumenti della progettazione-composizione. Se, come sostengono De Rossi e Mascino, il lavoro progettuale deve intrecciare le dimensioni sociali, culturali ed economiche, non si capisce perché debba aprire non al lavoro dell’architetto, definito “tradizionale” e nella sostanza respinto, ma a un nuovo operatore indicato come progettista bricoleur, mediatore, dotato di sensibilità artigiana adatta a realizzare gli spazi contemporanei per costruire manufatti capaci di contribuire all’insieme di cui entrano a fare parte.
Qui ovviamente si apre un mondo. Affrontando la questione in modo semplice non si può non evidenziare che queste proposizioni sembrano condizionate dalla preoccupazione di evitare il rischio che il nuovo intervento possa determinare una perdita di valore dell’esistente (luogo comune piuttosto diffuso), al punto da manifestare una sostanziale paura di cimentarsi con le preesistenze, per dare spazio solo a piccoli interventi, magari “delicati”, meglio se “reversibili”. Interventi informati al criterio della precarietà che, accarezzando la pratica della rinuncia a priori, sembrano voler riproporre le, ben diversamente motivate, azioni trepide e timorose proprie della civiltà contadina e finiscono per alimentare “l’epoca del provvisorio” e la “tirannia dell’effimero” (5). Posizioni che rendono impossibile il rapporto critico con le preesistenze; cioè quel rapporto disponibile, da un lato, a farsi carico della conservazione dei valori storici e, dall’altro, di recuperare nella logica del progetto del nuovo le ragioni del manufatto antico, al fine di coinvolgerle nel quadro delle necessità simboliche e rappresentative del nostro tempo (6). Il problema del rapporto con le preesistenze richiede infatti di orientare il progetto e l’atto del costruire tra la rinuncia - come ragionevole, responsabile e perciò logica astensione dai gesti fuori tempo e fuori luogo - e la necessità ineluttabile che anche il nostro tempo possa tradurre in fatti costruiti la propria cultura dell’abitare. Non vorrei essere frainteso: il rapporto con l’esistente deve essere attento e rigoroso ma, al contempo, capace di riaprire il passato sull’avvenire, cioè di coltivare la memoria con la volontà di arricchirla, per non lasciarla scivolare nell’oblio o per evitare che essa sia ossessivamente presente, perché in entrambi i casi vorrebbe dire rinunciare al progetto.
Non ritengo poi sostenibile l’idea che il progettista, definito “tradizionale”, non avrebbe mai costruito opere destinate a entrare a fare parte o ad avviare la composizione di insiemi. Sembra quasi che si voglia impedire al progettista di essere portatore di un suo sapere, il sapere che ha prodotto l’architettura, i borghi e le città, che costituiscono gli “insiemi” del patrimonio, fino al punto di propugnare la sua dissoluzione in un ruolo di mediatore di altre competenze e saperi, dimenticando che la capacità di elaborare la sintesi di saperi diversi è proprio la competenza specifica della composizione architettonica. Il limitare l’intervento degli architetti alle piccole operazioni puntiformi evoca il desiderio di fare prevalere la base artistico-culturale di quelle che oggi sono definite performance, secondo alcuni orientamenti che sembrano attecchire anche nelle grandi città, come le attuali operazioni milanesi di “riqualificazione” di alcune piazze (fra le quali piazzale Loreto) che affidano alla Street Art il compito di risolvere problemi di struttura urbana mediante sgargianti “performance cromatiche”. Dubito che facendo i baffi al territorio (Duchamp - Gioconda) sia possibile migliorare gli insediamenti.
Riflettendo su questi argomenti non posso non ribadire che i temi e gli oggetti di peculiare pertinenza dell’architettura investono direttamente gran parte delle azioni con cui l’umanità organizza lo spazio per abitare la terra e privilegiano quelle volte ad adattare lo spazio e la natura alle proprie necessità. Di fronte ai processi di globalizzazione, oggi l’architettura deve perseguire gli obiettivi di contenere e governare la prepotenza delle trasformazioni urbane; bloccare l’urbanizzazione del territorio agricolo; costruire edifici in grado di massimizzare l’impiego di risorse energetiche rinnovabili con materiali riciclabili; riutilizzare il patrimonio abbandonato; costruire nuovi “patrimoni”. Rispetto alle incursioni del capitale internazionale, l’architettura deve riaprire e controllare quel campo di simulazione che permette di perseguire il difficile adattamento degli interessi contrapposti che si coagulano intorno ai processi di trasformazione dello spazio fisico. È necessario che l’architettura operi per rendere evidenti gli interessi e i conflitti in essere intorno alle trasformazioni insediative, in modo da rendere inequivocabile il confronto atto a garantire il riconoscimento e la tutela degli interessi più generali della società, della città e del territorio che da sempre costituiscono un campo a cui contribuisce il sapere del progetto architettonico, nella sua complessità di senso e di composizione dei molteplici apporti disciplinari.
In questa prospettiva dobbiamo riflettere di nuovo sulla declinazione dello sviluppo sostenibile, oggi prevalentemente condizionata dalla matrice ecologico ambientale, che ha orientato verso un’interpretazione della sostenibilità interamente finalizzata alla conservazione delle potenzialità eco-sistemiche del pianeta, senza alcuna attenzione al fatto che un progetto per essere sostenibile deve essere "buono" e che un buon progetto è sempre sostenibile. Accanto all’impegno etico di non compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni, penso che l’architettura debba porre anche il problema del contributo che, con la loro attività, le generazioni attuali possono, ed eticamente debbono, cercare di mettere a disposizione di quelle future. Se il progetto delle trasformazioni, muovendosi in coerenza con i principi di equità (geografica e tra le generazioni), deve perseguire bassi consumi, energetici e di materiali, con procedimenti ecologici legati alla rigenerazione dei processi, deve anche dare luogo ad adattamenti, dello spazio costruito e della natura, funzionali alla creazione di valori e di “patrimoni” di cui potranno beneficiare le generazioni future.
La sostenibilità deve cioè farsi carico anche della realizzazione di opere appartenenti a quel tipo di investimenti detti a “fecondità differita”. Il recupero dei “ritmi lenti”, per darsi di nuovo il tempo di riflettere e ricordare e per godere il rapporto con i luoghi in cui si svolge la nostra esistenza, deve cioè operare in sintonia con la consapevolezza che il risultato delle nostre azioni sarà necessariamente un nuovo adattamento, coerente con le dinamiche della contemporaneità. Ribaltando lo sguardo e assumendo la base degli interessi delle aree interne e marginali, si tratta di progettare nuovi adattamenti attenti alla costruzione di nuovi patrimoni portatori di quella sobrietà nella quale possano trovare composizione razionale i molteplici apporti del progetto di trasformazione, fra cui in particolare quelli di natura estetica e formale attraverso i quali si esprime la convivenza civile. Il tema della sobrietà, peraltro, impone di mettere in campo nuovi paradigmi per governare il progetto con l’obiettivo di conseguire la maggiore efficacia nell’uso di risorse che sono scarse. Non si tratta di perseguire risultati “interessanti” mediante la manipolazione di materie e tecniche molto semplici che incidono solo su aspetti superficiali; piuttosto si tratta di perseguire effetti adatti a incidere sugli aspetti strutturali, con grande sobrietà di mezzi. Per l’architettura ciò può determinare un cambiamento radicale che potrebbe orientarla ad operare sull’appropriatezza delle forme, verso la quale porta la pratica rigorosa della selezione delle decisioni in base alla loro efficacia.
Un programma di lavoro sulle aree interne deve quindi accettare la sfida della piccola e della grande scala, ponendosi il problema del contributo che le generazioni attuali debbono cercare di mettere a disposizione di quelle future. Dobbiamo cioè lavorare perché la pratica dei principi della sostenibilità, per cambiare i nostri modi di abitare la terra, oltre alla conservazione delle potenzialità eco-sistemiche del pianeta, non vada nella direzione di omologare città e campagna – una città che diventa verde più di quanto è conveniente per diventare un po’ campagna e una campagna che si attrezza per avvicinarsi troppo ai modi d’essere della città – perché sarebbe rovinosa per entrambe. Dobbiamo operare per esaltare le specificità proprie della città e della campagna, come in modo esemplare ci ricorda l’affresco dell'Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti. Se la pandemia e la rivoluzione informatica oggi rendono possibile coniugare insieme lavoro e natura non possiamo dimenticare che l’abitare in campagna accentua la vocazione all’isolamento, che alimenta la bruttezza o la prossimità soffocante. L’individuo isolato in mezzo alla natura, come spiegava Adolf Behne negli anni Venti del Novecento, è libero e non ha alcun problema di forma. Il problema della forma sorge insieme a quello dell’unione di più individui, “anzi la forma è la condizione che rende possibile la convivenza”(7).
Anche in campagna diventa dunque necessario trovare i modi dello stare insieme, realizzando luoghi d’incontro – in questo i borghi potranno svolgere un ruolo straordinario – in cui sperimentare nuove forme di urbanità. Si tratta di capire e rispettare il senso della storia dei luoghi, che la ricerca deve documentare in tutte le sue manifestazioni, e, al contempo, di non rinunciare a migliorare le condizioni d’uso, a coinvolgere diverse scale e modalità d’intervento, dal progetto di nuovi edifici fino al progetto di conservazione, con la sua scala ravvicinata e le sue tecniche specifiche; e di sperimentare, rispetto alla facile rinuncia, il difficile esercizio della ricerca delle forme del nostro tempo. Come diceva Leonardo da Vinci si tratta di “assecondare la natura”, per promuovere la creazione di nuovi valori e di nuovi patrimoni di cui potranno beneficiare le generazioni future (8). Si darebbe così spazio alla ricomposizione e alla cura dei territori, alimentando la ricerca di nuove urbanità, in aggiunta a quelle delle città, dell’abitare contemporaneo.
Raffaele Pugliese
Note 1) Significativa a questo proposito la Strategia Nazionale Aree Interne (SNAI), nell’ambito dell’Agenzia per la Coesione Territoriale, che rappresenta un riferimento importante delle attività di ricerca che hanno alimentato il libro. 2) In Atti del 1° Congresso internazionale - Rete Vitruvio “Il progetto di architettura fra didattica e ricerca”, Bari 2- 6/5/2011, p. 191-201. 3) Ricerca coordinata presso il Polo di Mantova del Politecnico di Milano, del quale sono stato presidente dal 1997 al 2003. 4) In Mincio Parco Laboratorio, a cura di Raffaele Pugliese, Unicopli, Milano 2003. 5) Cfr. Zygmund Bauman, Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, Il Mulino, Bologna 2009. 6) Cfr. il mio Cultura e tecniche di manutenzione e valorizzazione del paesaggio. In: R. Pugliese, a cura di, Mincio Parco Laboratorio, cit. p. 14-35. 7) A. Behne, Der moderne Zweckbau (1923) tr. it. L’architettura funzionale, Il Vitruvio Vallecchi, Firenze 1968, 8) Indirizzi che dovrebbero alimentare i progetti italiani per Next Generation EU.
N.d.C. – Raffaele Pugliese, architetto, già professore ordinario di Composizione architettonica e urbana al Politecnico di Milano, è stato fra l’altro coordinatore della Sezione di Progettazione Architettonica del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, presidente del Centro per lo Sviluppo del Polo di Mantova, fondatore e direttore della collana Mantovarchitettura e presidente del Consiglio Scientifico della Società Navigli Lombardi. Ha coordinato la giuria del concorso internazionale “Casa per tutti” (Triennale di Milano) e promosso il confronto sui fondamenti teorici disciplinari mediante i colloquidiarchitettura. Al centro dei suoi contributi scientifici – volti a legare l'architettura e l'abitare alla cultura della città – ci sono studi sulla casa popolare, sull’architettura urbana e sui paesaggi.
Tra i suoi libri: La città e la ragione. Norme morfologiche e costruzione della città (Guerini, 1997); a cura di, Mincio parco laboratorio. Cultura e tecniche di manutenzione e valorizzazione del paesaggio (Unicopli, 2003); a cura di, La casa popolare in Lombardia: 1903-2003 (Unicopli, 2005); a cura di, La casa sociale. Dalla legge Luzzatti alle nuove politiche per la casa in Lombardia (Unicopli, 2005); con Cristina Bergo, a cura di, L' abitazione sociale. Un anno di colloqui (Unicopli, 2007); con Gianni Ottolini, I centri di accoglienza per soggetti in condizione di marginalità sociale. Linee guida per la definizione di standard strutturali e gestionali (Osservatorio regionale sulla condizione abitativa, 2007); con Marco Lucchini, a cura di, Milano città d'acqua. Nuovi paesaggi urbani per la tutela dei Navigli (Alinea, 2009); con Stefano Levi Della Torre, a cura di, Occupanti, 1963 – 1968. Gli esordi della moderna Facoltà di architettura nelle fotografie di Walter Barbero (Alinea, 2011); con Cristina Bergo e Francesca Serrazanetti, Sperimentazione o dell'architettura politecnica. Origini e sviluppi della cultura moderna dell'architettura nella ricerca e nella didattica al Politecnico di Milano (Maggioli, 2013); con Cristina Bergo (a cura di), Sui fondamenti della composizione (Maggioli, 2014); a cura di, Progetti per la Piazza d'Armi. Il sistema delle caserme milanesi. Architettura e riqualificazione urbana (Maggioli, 2016).
Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: Alberto Clementi, Un progetto per i centri minori (13 dicembre 2019); Lidia Decandia, Saper guardare il buio (9 gennaio 2020)
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 09 LUGLIO 2021 |