Corrado Diamantini  
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LA CITTÀ NELLA TELA DEL RAGNO


Commento al libro di Rachel Keeton e Michelle Provoost



Corrado Diamantini


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Palma fino a poco tempo fa era un piccolo centro di pescatori Mwani situato lungo la costa di Cabo Delgado, in Mozambico. La scoperta di giacimenti di gas naturale, in acque aperte, e la realizzazione nell’antistante promontorio di Afungi di una piattaforma logistica ne ha mutato rapidamente la fisionomia. Questa piattaforma pare destinata, come è indicato nel libro di Rachel Keeton e Michelle Provoost, To Built a City in Africa: A History And A Manual (nai010 publishers, 2019), a trasformarsi in una new town con una popolazione di 250.000 abitanti.

Palma Natural Gas Town, questo il nome con cui compare nell’accurata ricerca svolta dalle due autrici, è solo una tra le più recenti new town realizzate o in fase di realizzazione nel continente africano. Il quale ne conta, in un periodo compreso tra 1960 e il 2017, 148 per una popolazione, già presente o prevista, di circa 47 milioni di abitanti. Per dire che la new town non rappresenta un aspetto inconsueto nella recente evoluzione della città in Africa. E tanto meno un aspetto riconducibile a un unico stereotipo, considerato che il succedersi di queste città segue, come argomentato da Keeton e Provoost, traiettorie diverse che dipendono principalmente da tre fattori: il clima politico che fa seguito all’indipendenza, la pressione demografica che si esercita sulle maggiori città e l’arricchimento di alcuni paesi esportatori di materie prime. Questi tre fattori corrispondono ad altrettante scansioni temporali. Per cui nel corso degli anni sessanta e settanta del secolo scorso assistiamo alla creazione di new town con cui i governi formatisi dopo l’indipendenza intendono smarcarsi, anche fisicamente, dal colonialismo e dalle divisioni tribali. Ne sono un esempio nuove capitali come Dodoma, tassello della visione di nuova società inseguita da Nyerere e Abuja, sorta per spostare il baricentro dello sviluppo della Nigeria verso l’interno del paese ma anche città come Tema, fortemente voluta da Nkrumah, che chiama per progettarla Doxiadis, per imprimere una svolta industriale al paese. Gli anni settanta vedono invece sorgere, esclusivamente nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, new town create in funzione del decongestionamento dei maggiori centri urbani, una tendenza questa che si consolida nei trent’anni successivi. La prima di queste città a essere costruita, 10th of Ramadan, viene pensata da Sadat come una sfida al deserto, in funzione dell’estensione di un sistema urbano fino ad allora racchiuso all’interno delle superfici alluvionali del Nilo. Un’eccezione in tal senso è costituita delle città costruite in Sudafrica per i soli coloured.

Oltre due terzi delle new town sorgono però nel corso degli ultimi vent’anni, concentrandosi prevalentemente, tolte le città dell’area mediterranea, in paesi come la Nigeria, l’Angola, il Kenya e il Sud Africa che presentano tassi di crescita del prodotto interno lordo tra i più elevati dell’Africa subsahariana. Queste ultime new town capovolgono totalmente gli schemi di quelle precedenti, proponendosi, tranne un paio di eccezioni, come prodotti commerciali capaci di interpretare funzioni, dal commercio all’industria fino alla ricerca e allo sviluppo tecnologico, che si ritiene non possano essere svolte adeguatamente dalle città esistenti. E tra queste funzioni spicca quella residenziale, con riferimento in particolare alla domanda abitativa di quanti si sono arricchiti con la crescita delle esportazioni.

Il libro fornisce, oltre a un completo inventario delle new town, anche dei city passport, ossia delle schede relative a una trentina di città scelte sulla base della loro collocazione geografica, dei destinatari, dei promotori, dei progettisti e della forma urbana. Vi compaiono anche cinque interessanti casi di studio, da quello di Tema, in Ghana a quello di BuraNest in Etiopia, accompagnati a loro volta da interviste agli attori coinvolti nella loro ideazione oppure nella loro progettazione.

Keeton e Provoost svolgono attività di ricerca presso l’International New Town Institute di Almere, in Olanda e, prima di questo libro, Keeton ha pubblicato Rising in the East: Contemporary New Towns in Asia (SUN publisher, 2011). Ed è proprio guardando alla Cina, all’India e alla Corea del Sud che osserva come le new town non siano un esito dell’impennata delle economie asiatiche ma vi concorrino in quanto scelte di investimento molto remunerative. Ed è proprio following the money che le due autrici finiscono con l’imbattersi in alcune new town africane. A quest’ultime il libro offre anche se in forma non sistematica – Keeton e Provoost sottolineano che la loro attenzione è prevalentemente rivolta agli approcci progettuali – riflessioni puntuali svolte direttamente dalle autrici oppure contenute in brevi contributi di altri autori. Le riporto, in sintesi, di seguito.

Le recenti new town esprimono a tutti gli effetti una sostanziale rinuncia, da parte dei governi coinvolti, ad affrontare i problemi che pongono oggi le città africane e in particolare quelle dell’Africa subsahariana. Una rinuncia che viene mascherata dalla partecipazione dello Stato alla loro realizzazione che, seppure trascurabile, finisce però con il togliere risorse agli interventi sull’esistente. I capitali investiti nelle new town sono soprattutto privati. L’Africa è oggi la nuova frontiera degli investimenti in edilizia di imprese private e parastatali, soprattutto di Cina, Corea del Sud e Singapore, che dopo aver sperimentato con successo l’offerta di città chiavi in mano nei loro paesi la ripropongono in Africa a un particolare segmento di domanda, quella rappresentata dalla fascia più alta del ceto medio che solo di recente ha fatto la sua comparsa nel continente. È affare privato anche la loro progettazione in quanto lasciata interamente alle consulting e alle diverse società di ingegneria le quali si ritrovano spesso anche nella redazione dei piani urbanistici. L’uniforme banalità di queste città è dovuta al loro carattere commerciale. Si tratta come sottolineano Keeton e Provoost di iniziative marcatamente capitalistiche, per cui si impone un prodotto standardizzato e adattato alla clientela. Ma tale banalità è dovuta anche al coinvolgimento di progettisti quasi sempre estranei al mondo africano e poco propensi a mescolarvisi, i quali riducono il proprio lavoro al “taglia e incolla” di soluzioni progettuali sperimentate altrove.

L’esito più appariscente delle new town è l’esasperazione delle disuguaglianze, in quanto la dotazione di servizi delle nuove enclave ne fa una realtà distante anni luce dalla città esistente. Anche se, osservano, viverci non risulta molto appagante – vi è assente quella socialità che si riscontra nella città da cui vengono prese le distanze - così come vengono generalmente disattese questioni ambientali ed ecologiche. Da qui l’esigenza di una inversione di tendenza, anche sul fronte progettuale, cui le autrici pongono mano inserendo nel libro un manuale o meglio una sorta di decalogo rivolto non solo ai progettisti ma anche agli studenti, avendo constatato che questi ultimi si trovano spesso ad esercitarsi con piccoli frammenti di città, perdendone lo sguardo d’insieme.

Tra i principi contenuti in questo decalogo, tutti molto ragionevoli e adatti anche alla progettazione di città satelliti e di nuovi quartieri oltre che a interventi di rinnovo urbano, tre in particolare appaiono conformi a tale inversione di tendenza. Il primo è che nessun nuovo insediamento può essere pensato come una realtà a sé stante; il secondo è che ogni nuovo insediamento necessita, dentro di sé, di diversità, il terzo è che ogni nuovo insediamento non può prescindere da una rete di infrastrutture blue-green. Il superamento dell’unidimensionalità dell’enclave richiede secondo le autrici l’affermarsi del diritto alla città pianificata, in una prospettiva di inclusione in un unico ambiente urbano, interagente con funzioni ecologiche, di tutte le dimensioni di cui si compone oggi la città africana. A partire da quella, preponderante, della povertà e delle forme di sostentamento di cui si avvale comprendendovi anche l’autocostruzione.

Keeton e Provoost sono consapevoli del fatto che tali principi non possono venire applicati al vacuum. Per cui si appellano alla good governance ossia, interpreto, a processi di decisione e di attuazione delle decisioni improntati alla responsabilità. Dove la responsabilità si riferisce all’attenzione rivolta a soddisfare le esigenze della maggioranza della popolazione e non di cerchie ristrette di privilegiati. Si tratta di un appello che manca però di interlocutori. Di good governance non si trova infatti neppure l’ombra in tante città africane. La privatizzazione della città, ossia la sua consegna in toto agli investitori privati ai quali viene delegata la sua radicale trasformazione, è la conseguenza di una scelta di campo soprattutto delle élite al governo cui concorrono, nel migliore dei casi una fallimentare visione dello sviluppo – più improntata a una modernizzazione autoritaria che alla sequenza per stadi preconizzata da Rostow – ma più frequentemente l’interesse personale e la corruzione. Quanto ai pochi amministratori che intendono seriamente occuparsi dei problemi della propria città, si devono arrendere di fronte al duplice ostacolo rappresentato dalla mancanza cronica di risorse finanziarie e dalla radicata inefficienza amministrativa. Per dire che la prospettiva della città inclusiva da sperimentare anche attraverso la progettazione di new town non offre in realtà alcuna scappatoia dalla ragnatela nella quale si trova impigliata la città africana. Una ragnatela che si compone di un intrico di questioni, alcune delle quali compaiono solo marginalmente nel libro di Keeton e Provoost.

Provo a indicarne tre, a partire da una piccola nota contenuta nel libro che richiama senza commento un saggio di Nnamdi Elleh, Perspectives on the Architecture of Africa’s Underpriviliged Urban Dwellers, comparso nel 2013, in cui l’autore afferma che le condizioni abitative di tante città africane non sono dissimili da quelle rinvenibili nelle città europee durante la rivoluzione industriale. In saggi successivi Elleh richiama il ruolo determinante giocato dalla popolazione più povera nella trasformazione della città, alludendo al fatto che, come in Europa durante la rivoluzione industriale, i conflitti di cui si intravede la presenza anche in Africa, a partire dalle primavere arabe, potrebbero cambiare il corso delle cose.

Se guardiamo, in Europa, all’evoluzione della condizione abitativa delle famiglie operaie, questa dipende principalmente da due fattori: in primo luogo da un processo di industrializzazione pressoché ininterrotto che crea, assieme a ricchezza, una grande massa di salariati e dall’altro da politiche distributive attuate con altrettanta continuità, di cui l’edilizia sociale costituisce un elemento portante. Queste politiche distributive sono effettivamente ascrivibili a una storia di lotte condotte dalla massa dei salariati la quale trova rappresentanza politica, rimanendo nell’ambito dell’edilizia sociale, nel socialismo municipale che s’impone tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento. In Africa, ma mi soffermo da qui in avanti sull’Africa subsahariana, l’industrializzazione e il conflitto sociale che ne scaturisce sono notoriamente assenti. Ma è assente soprattutto uno sviluppo che faccia presagire l’ingresso, nel settore moderno dell’economia, di una parte rilevante della popolazione e il conseguente insorgere di forme incisive di protagonismo politico. Attualmente questa popolazione è composta soprattutto da persone che vivono nelle campagne con la produzione di sussistenza e nelle città con il reddito di tante piccole attività economiche, con evidenti effetti di frammentazione sociale. Si dirà, mancano i proletari ma non certo i poveri. Ma non è la stessa cosa. Ora, non è che questi poveri siano estranei al conflitto, visto che hanno alle spalle esperienze di lotta armata contro il colonialismo. Solo che i movimenti anticolonialisti degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, spesso guidati da leader marxisti che prefiguravano una società che garantisse a tutti uguali diritti, hanno perduto in fretta la loro spinta al cambiamento finendo con l’identificarsi con quegli stessi partiti che, al governo o all’opposizione, esprimono oggi le élite al potere e controllano le comunità urbane e rurali imbrigliandone ogni forma di rivendicazione. Non a caso è nel solo Sud Africa, uscito di recente dalla lotta contro l’apartheid, che si segnalano in diverse città moti di protesta della popolazione più povera.

Se è l’assenza del conflitto sociale o, se si vuole, di una adeguata rappresentanza politica della maggioranza della popolazione, quella più povera, che provoca ed è destinata a mantenere le disuguaglianze che connotano la condizione urbana in Africa, si tratta di coglierne le ragioni andando però oltre uno scontato riferimento a una democrazia incompiuta. E qui vengo alla questione inserendo tra queste ragioni quella per cui l’urban divide, con riferimento alla condizione di vulnerabilità e privazione in cui versa la popolazione più povera, non rappresenti tanto una situazione inaccettabile per quest’ultima quanto una condizione associata alla sussistenza urbana. Per cui modi di sopravvivenza, stili di vita e condizioni abitative sono perpetuati, anche in un contesto spesso segnato dall’incertezza del diritto, dalla sopportazione di una massa di poveri in cambio dell’indifferenza di chi governa. Tanto che in diverse indagini emerge che gli abitanti delle parti più degradate delle città temono soprattutto di risultare visibili, di entrare cioè nel mirino delle politiche di risanamento urbano e quant’altro. Il che non significa che gli stessi abitanti non accolgano con favore la costruzione di una rete di drenaggio delle acque superficiali, di una strada, di una scuola e più in generale interventi anche incisivi di upgrading, a patto però che non vengano toccate loro prerogative a partire dall’intangibilità del luogo in cui vivono.

La seconda questione mi viene suggerita da un breve contributo di Edgar Pieterse, che compare sempre nel libro. Si tratta di “Debunking Myths about African Urbanisation”, in cui tra i miti da sfatare si trova quello per cui la recente accelerazione dell’urbanizzazione in Africa sarebbe dovuta in larga parte a una accelerazione dell’esodo rurale. Pieterse ci dice invece che la crescita di popolazione delle città, oggi, è dovuta in buona parte all’incremento naturale. Ora, si può constatare che effettivamente, in molti paesi dell’Africa subsahariana, la forte crescita di popolazione nelle città è accompagnata da un incremento della popolazione rurale. Ragion per cui diminuisce il tasso di popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà ma aumenta in assoluto il numero dei poveri. Ma questo è un altro discorso. Qui mi interessa sottolineare il fatto che la popolazione rurale, nonostante sia proprio nelle campagne che cresce la povertà – l’urban-rural divide si è accentuato negli ultimi due decenni - non si riversa nelle grandi città. A questo fa riscontro una crescita delle città minori più sostenuta di quella fatta registrare dalle città maggiori, a conferma del fallimento delle teorie liberiste che preconizzavano il ruolo nevralgico delle grandi città nella diffusione dello sviluppo. La crescita delle città minori è sostenuta dalla costruzione di reti di relazioni locali tra città e campagna, il rural-urban exchange, a partire dal ruolo svolto proprio da città di piccole e medie dimensioni a prescindere dalle politiche territoriali degli stati, rivolte invece in larga misura a favorire gli investimenti stranieri. Ora, queste politiche statali che rimandano allo sfruttamento delle risorse agricole e minerarie da parte di grandi concessionari cui è delegata anche la realizzazione delle più importanti infrastrutture se non la creazione di città come appunto Palma natural gas town, hanno un impatto traumatico sulla popolazione rurale che viene spossessata della terra senza averne in cambio nulla. Il contrasto tra queste politiche e le relazioni urbano-rurali che si sono instaurate in molte regioni dell’Africa subsahariana è stridente – si pensi solo alla totale mancanza di infrastrutture per l’interscambio locale – e pregiudica l’unica prospettiva di sviluppo che si presenta oggi realisticamente alle campagne del subcontinente africano. Con conseguenze ovvie, in un futuro immediato, sull’inurbamento nelle maggiori città.

Qualche paese, tra cui l’Etiopia, sta cercando di consolidare la presenza della popolazione nelle campagne attraverso la creazione di piccoli centri urbani capaci di attrarre, con l’offerta di servizi, le famiglie contadine. A questo tema Keeton e Provoost dedicano una particolare attenzione, richiamando l’esperimento di BuraNest, una new town che sta sorgendo nelle campagne etiopi – siamo a ovest del Lago Tana – sulla base di un progetto cui hanno lavorato tra gli altri Franz Oswald dell’ETH di Zurigo, Fasil Ghiorghis e Zegeye Cherenet entrambi dell’Università di Addis Abeba. BuraNest rappresenta il punto di incontro tra un approccio visionario – soprattutto di Oswald – e il disegno governativo cui ho accennato, sostenuto in questo caso dalle autorità regionali. Un disegno che ha però alle spalle una storia di fallimenti, a partire dalla villagization imposta nella stessa Ethiopia da Menghistu Hailé Mariàm. L’esperimento di BuraNest parte però da una premessa diversa, in quanto viene data ai contadini la facoltà di aderirvi o meno. E infatti la mole maggiore del lavoro, durato alcuni anni e per certi versi ancora in corso, è stata richiesta dalle pratiche di convincimento e di coinvolgimento dei contadini. L’incognita è duplice: che dopo un’adesione iniziale l’esperimento si esaurisca nel tempo, come si è già verificato in altre situazioni; che BuraNest, per l’impegno richiesto dal processo partecipativo, rimanga un esperimento isolato e che le altre migliaia di insediamenti simili promossi dal governo centrale ripercorrino la strada nefasta della villagization forzata. Pure augurando successo a BuraNest ritengo che assecondare il più possibile l’evoluzione del rural-urban exchange in tanta parte dell’Africa subsahariana, senza operare forzature sia nel senso della sottrazione della terra sia nel senso della creazione artificiale di comunità urbane, costituisca un aspetto ineludibile dell’attenzione alla città africana. Si scoprirebbe peraltro che le città piccole e medie che stanno conoscendo una crescita rapidissima grazie a un inurbamento spontaneo, presentano caratteri singolari di ibridazione urbano-rurale che favoriscono forme di inclusione e di omologazione sociale, a indicare che l’urban divide è prerogativa soprattutto della grande città.

L’ultima questione mi viene suggerita dal frequente riferimento di Keeton e Provoost all’informal economy che sostengono essere, a ragione, una componente non solo stabile, ma anche vitale della città africana. Ora non voglio certo addentrarmi in questo tema, ma limitarmi a qualche osservazione. Cominciando con lo sfatare un altro mito, cui Keeton e Provoost sono però estranee, in aggiunta a quelli elencati da Pieterse. Il mito è quello, assai diffuso, che attribuisce all’inadeguatezza della grande città, parlo ancora dell’Africa subsahariana, il mancato assorbimento di nuovi abitanti tanto da spingerli nell’informal economy e relegarli negli informal settlement. Parto da questi ultimi. I cosiddetti informal settlement sono insediamenti che nascono con la città coloniale e sono tutto, tranne che luoghi costruiti arbritrariamente in cui gli abitanti sono sopravvissuti inventandosi un lavoro. Prendiamo uno dei più noti di questi informal settlement, ossia Kibera. L’insediamento è sorto ai margini di Nairobi per dare casa e terra a soldati nubiani che avevano combattuto nelle fila dei King’s African Rifles. Si tratta di un insediamento non pianificato ma autorizzato. Non c’era infatti la necessità per le autorità coloniali di spendersi in progetti e opere quando i nuovi arrivati potevano impiegare, adossandosene i bassi costi, modalità insediative, materiali costruttivi e tipologie edilizie trasferiti dal mondo rurale. In questo caso si tratta di soldati, ma in altri casi di addetti agli scali portuali e ferroviari e in genere di coloro che nelle città coloniali svolgevano lavori manuali o prestavano servizi alle persone. Per non parlare delle città di fondazione africana, come Addis Abeba, esito di un cluster di insediamenti spontanei anch’essi sorti con modalità, materiali costruttivi e tipologie edilizie trasferiti dal mondo rurale. Del resto, il mondo rurale in Etiopia, alla fine dell’ottocento, era il solo esistente.

La forte espansione di questi insediamenti, inizialmente esito nella città coloniale di segregazione razziale e di incuria, è iniziata subito dopo l’indipendenza e non in modo arbitrario – a meno che per arbitrario non si intenda estraneo al mercato – dal momento che gli abitanti hanno potuto avvalersi in molte città del diritto consuetudinario, per intenderci quello che consente ai contadini di entrare in possesso della terra nelle zone rurali. E per almeno un paio di decenni tali insediamenti hanno concorso da soli alla crescita della città nell’Africa subsahariana fino a diventarne una parte preponderante. E questo perché la loro realizzazione è intervenuta in una fase di stagnazione dell’economia per cui, per anni, in molte città gli edifici moderni sorti accanto a quelli eretti durante il colonialismo si sono contati sulle dita. Questa realtà urbana si è sorretta grazie a una propria economia mutuata dal mondo rurale ma capace di interagire in ogni circostanza con l’economia moderna. A questa economia è stato dato in modo improprio il nome di informal economy. Dico in modo improprio perché il termine, alla pari di quello da esso derivante, informal settlement, allude a una sorta di condizione irregolare o di non conformità a categorie spesso estranee ai contesti di cui si parla. Quando invece questa economia, alla pari degli insediamenti urbani sorti spontaneamente, ha rappresentato nelle città a sud del Sahara la regola. E anche oggi, pure in un momento di profonda trasformazione urbana, continua a rappresentare una condizione imprescindibile, alla pari degli insediamenti spontanei, al fine della sopravvivenza di tanta parte della popolazione. Ricordo a questo proposito che il termine informal sector – da cui deriva informal economy – è comparso per la prima volta nelle indagini svolte negli anni settanta del secolo scorso in Africa dall’ILO, al fine di dare un nome a tutte quelle attività produttive condotte a piccola scala che non erano riconducibili, per un insieme di caratteristiche, al settore moderno. E nonostante si trattasse di attività largamente diffuse se non prevalenti, il fatto di non essere omologabili al settore moderno è bastato per relegarle in un mondo residuale: quello in cui ci si arrabatta per sopravvivere.

Uno sguardo ravvicinato agli informal settlement rivela peraltro che essi non sono delle realtà separate, se non addirittura dei luoghi di esclusione, rispetto alle altre parti della città tanto che si possono cogliere forme di interdipendenza se non di commistione. Per dire, negli informal settlement abitano in gran numero impiegati governativi e operai dell’industria moderna, che si approvvigionano dei beni e accedono ai servizi della informal economy. E questo in ragione dei loro bassi salari che li assimilano ai poveri. Si tratta, ripeto, di una presenza del tutto regolare, mentre non pochi esponenti della media borghesia e comunque di quanti dispongono di un reddito sufficiente occupano, spesso abusivamente o avendoli ottenuti con un qualche sotterfugio, terreni periurbani dove costruiscono, avvalendosi di piccole imprese appartenenti alla informal economy, la loro casa unifamiliare in cemento. Segnalo a questo proposito il libro che mi era stato proposto in un primo momento per la recensione, quello di Armelle Choplin, Matière gris de l’Urbain: la vie du ciment en Afrique (MétisPress, 2020) che racconta della rincorsa, in Africa, di una moltitudine di persone a questo materiale da costruzione in quanto veicolo di realizzazione, in proprio, del sogno di una nuova condizione di vita. Segnalo che uno degli esiti di questa rincorsa è, visibilmente, l’inadeguatezza della dicotomia planned-unplanned per indicare una sorta di polarizzazione delle modalità insediative nell’Africa a sud del Sahara.

Ma c’è dell’altro. Tante costruzioni residenziali erette in periodo coloniale sono oggi abitate, in condizioni di evidente degrado, da una popolazione povera. E questo perché in molte città alla nazionalizzazione del patrimonio edilizio seguita all’indipendenza è seguita la sua occupazione da parte dei nuovi abitanti. Un luogo paradigmatico in tal senso è Grande Hotel Beira, situato nel centro dell’omonima città, che da simbolo di grandeur coloniale è diventato, a partire dall’indipendenza, dimora stabile di famiglie a basso reddito che l’hanno trasformato in una realtà che poco ricorda l’ambiente urbano, a partire dalle donne che vanno a raccogliere l’acqua attingendo alla perdita delle condotte idriche della piazza antistante, con taniche di plastica, esattamente come avviene nelle campagne con i pozzi. Per cui anche in ragione dell’inefficacia, a partire dalla fine del colonialismo, dei piani urbanistici utilizzati spesso per le parti che convenivano e oggi ridotti a mera cornice dei progetti di investimento di imprese multinazionali, dobbiamo considerare le città dell’Africa subsahariana come l’esito, per molti inatteso, di processi anche discontinui e contradditori, il più rilevante dei quali appare quello rappresentato dalle scelte di tante persone prive di mezzi che anche nel caso dell’adattamento a una realtà che a ognuno parrebbe inaccettabile sono parse funzionali a prospettive di vita. Un esito che trovo assai problematico voler replicare artificialmente, una volta rivisto e corretto nei suoi aspetti più negativi, con un piano. Oggi le new town, alla pari dei tanti quartieri dormitorio che stanno sorgendo sempre più ai margini delle città africane, rappresentano un momento di discontinuità nell’evoluzione della città a sud del Sahara, poiché rispetto al recente passato si sta affermando un’offerta abitativa sorretta da grandi investimenti di capitale con cui si intendono pilotare anche coercitivamente – si vedano a proposito le belle interviste raccolte da Tiziana Panizza Kassahun nei condomini di Addis Abeba – le scelte abitative di intere fasce di popolazione.

Termino dicendo che i problemi che sollevano oggi le città dell’Africa subsahariana vanno affrontati con cautela. Nel caso dei piani poi dovrebbe valere il richiamo, più che alla prefigurazione di un mondo desiderabile, al confronto con una realtà che non è esattamente ciò che appare e in cui, paradossalmente, le condizioni presenti potrebbero essere preferibili alle condizioni future.

Corrado Diamantini

 

 

 

N.d.C. – Corrado Diamantini, già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica insegna Progettazione integrata dell’ambiente e degli insediamenti nei paesi in via di sviluppo presso il Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Meccanica dell’Università di Trento ed è membro del Comitato scientifico della Cattedra Unesco in Ingegneria per lo sviluppo umano e sostenibile della stessa Università.

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

23 LUGLIO 2021

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti
Filippo Maria Giordano
Federica Pieri

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
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2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
2021: programma/1,2,3,4
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021:

L. Carbonara, Riappropriarsi delle origini (di Mogadiscio), commento al catalogo della mostra curata da K. M. Abdulkadir, G. Restaino, M. Spina

E. Scandurra, Roma, e se non capitasse niente?, commento a: W. Tocci, Roma come se (Donzelli, 2020)

G. Demuro, Custodire la bellezza insieme, commento a: G. Arena, I custodi della bellezza (Touring Club Italiano, 2020)

A. Casaglia, L'invenzione (e l'illusione) dei confini, commento a: L. Gaeta e A. Buoli (a cura di), Transdisciplinary Views on Boundaries (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2020)

R. Pugliese, Comporre nuove urbanità, commento a: A. De Rossi (a cura di), Riabitare l'Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste (Donzelli, 2018)

L. Bonesio, Dall'uso-consumo all'uso-cura del mondo, commento a: O. Marzocca, Il mondo comune (Manifestolibri, 2019)

G. Amendola, La città è fatta di domande, commento a: A. Mazzette e S. Mugnano (a cura di), Il ruolo della cultura nel governo del territorio (FrancoAngeli 2020)

C. Bianchetti, Incoraggiare rotture e nuovi germogli, commento a: Camillo Boano, Progetto Minore (LetteraVentidue, 2020)

M. Balbo, La città pensante, commento a: A. Amin, N. Thrift, Vedere come una città (Mimesis, 2020)

G. Pasqui, La ricerca è l'uso che se ne fa, commento a: P. L. Crosta, C. Bianchetti, Conversazioni sulla ricerca (Donzelli)

R.R., L'Urbanistica italiana si racconta, introduzione al video: E. Bertani (a cura di), Autoritratto di Alberto Magnaghi (Casa della Cultura 2020)

S.Saccomani, La casa: vecchie questioni, nuove domande, commento a: M. Filandri, M. Olagnero, G. Semi, Casa dolce casa? (il Mulino, 2020)

G. Semi, Coraggio e follia per il dopo covid, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei Sociologi e delle Sociologhe dell’Ambiente e del Territorio sulle Città e le Aree Naturali del dopo Covid-19, (Ledizioni, 2020)

R. Riboldazzi, Per una critica urbanistica, introduzione a: Città Bene Comune 2019 (Ed. Casa della Cultura, 2020)

M. Venturi Ferriolo, Contemplare l'antico per scorgere il futuro, commento a: R. Milani, Albe di un nuovo sentire (il Mulino, 2020)

S. Tagliagambe, L'urbanistica come questione del sapere, commento a: C. Sini, G. Pasqui, Perché gli alberi non rispondono (Jaca Book, 2020)

G. Consonni, La coscienza di luogo necessaria per abitare, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

E. Scandurra, Nel passato c'è il futuro di borghi e comunità, commento a: G. Attili – Civita. Senza aggettivi e senza altre specificazioni (Quodlibet, 2020)

R. Pavia, Roma, Flaminio: ripensare i progetti strategici, commento a: P. O. Ostili (a cura di), Flaminio Distretto Culturale di Roma (Quodlibet, 2020)

C. Olmo, La diversità come statuto di una società, commento a: G. Scavuzzo, Il parco della guarigione infinita (LetteraVentidue, 2020)

F. Indovina, Post-pandemia? Il futuro è ancora nelle città, commento a: G. Amendola (a cura di), L’immaginario e le epidemie (Mario Adda Ed., 2020)

G. Dematteis, Il territorio tra coscienza di luogo e di classe, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

M. Ruzzenenti, Una nuova cultura per il bene comune, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei sociologi e delle sociologhe dell’ambiente e del territorio sulle città e le aree naturali del dopo Covid-19 (Ledizioni, 2020)

F. Forte, Una legge per la (ri)costruzione dell'Italia, commento a: M. Zoppi, C. Carbone, La lunga vita della legge urbanistica del '42 (didapress, 2018)

F. Erbani, Casa e urbanità, elementi del diritto alla città, commento a: G. Consonni, Carta dell’habitat (La Vita Felice, 2019)

P. Pileri, Il consumo critico salva territori e paesaggi, commento a, A. di Gennaro, Ultime notizie dalla terra (Ediesse, 2018)

 

 

 

 

 

 

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