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IL DECLINO DI TORINO: UNA LEZIONE PER LE CITTÀ
Commento al libro di A. Bagnasco, G. Berta e A. Pichierri
Antonio Calafati
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Nella prefazione a Chi ha fermato Torino? Una metafora per l’Italia (Einaudi, 2020) gli Autori – Arnaldo Bagnasco, Giuseppe Berta e Angelo Pichierri – si chiedono se il titolo del libro sia appropriato. Non sarebbe stato meglio domandarsi “Cosa ha fermato Torino?”. Giustificano la scelta affermando che il ‘cosa’ avrebbe focalizzato l’attenzione “sulle condizioni generali, dalle quali dedurre quanto è successo, necessariamente, per forza di cose”, mentre il ‘chi’ la focalizza sul ruolo e le responsabilità degli attori locali (p. VIII). Una scelta che è un modo per suggerire come concausa ancora inesplorata del declino di Torino le scelte di chi ha governato la città negli ultimi venti anni – il periodo esaminato nel libro. E di escludere che le condizioni generali – ad esempio, la natura e la forza degli shock esogeni subiti dall’economia della città – possano da sole spiegarlo. Gli Autori riconoscono che le condizioni generali “ovviamente contano e molto”, e il lettore si predispone all’incontro con un modello interpretativo che integra il ‘chi’ e il ‘cosa’ nella spiegazione della traiettoria economica della città.
Le città che in Europa il XX secolo ci ha lasciato in eredità dipendono nella loro capacità di generare reddito dalle condizioni dei mercati – macro-regionali, nazionali e internazionali – sui quali le imprese che vi operano acquistano e vendono. Vi dipendono attraverso l’ordinamento istituzionale, ovvero l’insieme di norme che regolano la produzione, gli scambi e il consumo. L’ordinamento istituzionale è la ‘struttura che connette’ le città al loro contesto relazionale – i mercati nazionali e internazionali.
L’ordinamento istituzionale muta nel tempo come esito di decisioni politiche e cambiamenti culturali, e mutando modifica la relazione tra le città e il loro contesto relazionale. L’adesione dell’Italia alla moneta unica europea, ad esempio, ha profondamente mutato la ‘struttura che connette’ l’economia nazionale all’economia globale e ciò ha mutato la posizione competitiva delle città e degli altri sistemi territoriali.
Il controllo della struttura che connette l’economia nazionale all’economia internazionale è stata una delle sfere di azione fondative degli Stati nella fase del consolidamento del capitalismo, dalla fine del Settecento fino a tempi recenti. Negli anni Novanta, sotto l’influenza dal paradigma neoliberale, l’ordinamento istituzionale del capitalismo europeo è stato modificato, attraverso accordi transnazionali, per ridurre il potere di controllo degli Stati sugli effetti delle dinamiche dei mercati internazionali – obiettivo che dagli anni Trenta è al centro dell’agenda neoliberale(1). In Europa l’obiettivo è stato raggiunto con un ‘doppio movimento’. Dapprima, le economie nazionali si sono integrate attraverso la creazione del mercato unico europeo. Successivamente, il mercato unico europeo si è dissolto integrandosi in quello internazionale.
La valutazione complessiva dei costi e benefici del nuovo ordinamento economico è complessa, ma non si può evitare di chiedersi quali siano i suoi effetti territoriali, in particolare sulle traiettorie economiche delle città, sistemi con un ‘grado di apertura’ molto elevato.
Che il nuovo ordinamento istituzionale avrebbe condotto a profondi mutamenti della base economica delle città e modificato le loro traiettorie economiche è subito diventato un tema di riflessione(2). La Commissione Europea e alcuni Stati membri – ma non l’Italia – hanno iniziato a monitorare lo stato delle città, come mai era accaduto nei decenni precedenti. Nel nuovo ordinamento del capitalismo europeo, il modello europeo di città e la coesione territoriale, entrambi cardini del progetto europeo alla fine degli anni Novanta, sembravano a rischio.
Il nuovo ordinamento istituzionale non veniva messo in discussione: era visto come un ‘dato di natura’. Di conseguenza, erano un dato di natura anche l’intensità e la tipologia degli shock esogeni ai quali le città sarebbero state sottoposte. Da questa prospettiva, esce di scena il nesso causale tra ordinamento istituzionale e shock esogeni, e il focus della riflessione diventa la risposta strategica che le città sono in grado di esprimere di fronte al manifestarsi di un disequilibrio. La resilienza delle città diventa il tema centrale del nuovo paradigma urbano e territoriale dell’Unione Europea.
Il passaggio successivo è stato considerare la resilienza un attributo intrinseco della città. Un’ipotesi da corroborare caso per caso – la resilienza di un sistema concreto è sempre ‘contingente’ – è stata trasformata in una tautologia: gli effetti degli shock sarebbero stati riassorbiti perché le città sono sistemi resilienti. I disequilibri che si manifestavano nelle città – nei sistemi territoriali in generale – che il nuovo ordinamento istituzionale generava sarebbero stati transitori.
Per un’organizzazione umana – una città o un’impresa – alla quale si attribuisce una razionalità procedurale la resilienza si esprime per tattiche e strategie: sequenze di azioni sinergiche nello spazio e nel tempo. La ‘pianificazione strategica’ diventa la categoria chiave del discorso sulla città europea, la manifestazione concreta della sua intelligenza.
Torino sta dentro questa narrazione in modo emblematico. Il 1° Piano Strategico approvato nel 2000 era il prodotto di un nuovo regime di regolazione che la città era riuscita a realizzare, diventando un modello di come si debba procedere per reagire efficacemente a una crisi della propria base economica. Un modello di valore generale: in condizioni simili si trovavano, o si sarebbero presto trovate, molte altre città in Italia e in Europa. Nel capitolo iniziale del libro, Bagnasco, che a quel Piano ha contribuito, presenta i fondamenti metodologici e le basi teoriche del regime di regolazione che la città aveva progettato e realizzato (pp. 3-11). Mostrando attraverso quale percorso Torino diventa una città intelligente.
Il nuovo regime di regolazione alla quale la città aveva affidato il suo futuro si sfalda con un’inattesa rapidità. Inizia a indebolirsi, nella valutazione di Bagnasco (p. 30), già nel 2006 con il varo del 2° Piano strategico, fino a dissolversi con lo scioglimento, nel 2016, dell’Associazione Torino Internazionale, il dispositivo istituzionale creato per governare il processo di pianificazione strategica.
Lo sfaldamento del regime di regolazione – il tema di fondo del libro – impone agli Autori di riflettere su chi lo abbia determinato. Dove cercare la risposta Bagnasco lo indica – ed è una prospettiva che Berta e Pichierri condividono: “la mancanza di una chiara matrice istituzionale di regolazione per la governance urbana non può essere considerata solo a carico della politica” (p. 31). All’origine dello sfaldamento del progetto di regolazione della città c’è chi è stato eletto per governare Torino, ma ci sono anche i comportamenti degli agenti privati e delle organizzazioni intermedie. L’intera configurazione di attori che con le loro scelte influenzavano la traiettoria economica della città deve ritenersi responsabile del declino di Torino.
Nel libro questo tema – la rete di attori coinvolti nella pianificazione strategica e il loro potere relativo nel processo decisionale – resta inesplorato. Non ci si sofferma a chiarire quali fossero gli attori più importanti della rete e chi di essi abbia avuto la maggiore responsabilità nello sfaldamento del regime di regolazione che aveva generato il 1° Piano strategico. Su questo tema gli Autori mostrano un riserbo che non aiuta il lettore.
Un attore che riceve attenzione è la FIAT. Nel declino di Torino si è obbligati a considerare – come ricostruisce Berta nel secondo capitolo del libro – gli effetti sulla città delle sue scelte strategiche. Ma come valutare le scelte delle imprese in un’economia capitalistica dalla prospettiva della società locale?
L’urbanizzazione in Europa coincide con la formazione di sistemi urbani nei quali i dispositivi di crescita sono determinati dalle logiche delle imprese manifatturiere; successivamente, per le città che si terziarizzano, dalle logiche delle imprese di servizi avanzati. Nella forma di capitalismo che si è imposta negli ultimi decenni è ricorrente una domanda: le scelte delle imprese – le scelte di territorializzazione dei processi produttivi, in particolare – sono determinate dall’obiettivo di un profitto soddisfacente oppure dal massimo rendimento del capitale azionario?
Nel rispondere a questa domanda, si può sostenere che siano stati i caratteri del nuovo ordinamento istituzionale introdotto dalle scelte dei governi nazionali e dell’Unione Europea – in definitiva, dalla globalizzazione – a costringere la FIAT a de-territorializzare la produzione e, più in generale, a ri-orientare le sue attività per sopravvivere. Oppure, si può sostenere che anche nelle nuove condizioni la Fiat avrebbe potuto continuare ad avere un ruolo chiave nell’economia di Torino se non avesse assunto come obiettivo la massimizzazione del rendimento del capitale azionario.
L’analisi condotta nel libro della vicenda FIAT dalla fine degli anni Novanta non permette di valutare la responsabilità dell’azienda nel declino di Torino. Non permette di affermare se tra ‘chi ha fermato Torino’ vi sia la FIAT che, con le sue scelte di territorializzazione, avrebbe depotenziato la base economica della città. Le sue scelte potrebbero essere state obbligate, dato il sistema di prezzi relativi che il nuovo ordinamento istituzionale aveva determinato sui mercati globali. Forse non si poteva più permettere la ‘lealtà territoriale’ che aveva mostrato di avere in altri momenti della sua storia – come Berta richiama nel suo contributo(3).
Nel riflettere sulle cause che nella seconda metà degli anni Duemila hanno fermato la transizione strutturale di Torino – per provare a spiegare la “metamorfosi interrotta” (p. 70) –, a un certo punto del libro l’attenzione ritorna sul livello di analisi evocato nell’introduzione e si chiamano in causa le “condizioni generali”, fattori che rientrano nella categoria del ‘cosa ha fermato Torino’. Le politiche di ‘austerità finanziaria’ dell’Unione Europea, la forte riduzione dei trasferimenti ai Comuni da parte del Governo centrale, l’elevato stock di debito che la città aveva accumulato per realizzare gli interventi di trasformazione urbana degli anni precedenti sono proposti nel libro come concause dell’arresto della ripresa economica che si era manifestata nei primi anni Duemila fino alle Olimpiadi invernali del 2006. Sono tutti fattori riconducibili agli effetti della crisi economico-finanziaria del 2007-08.
Gli effetti locali della crisi si manifestano quando avrebbe dovuto iniziare a crescere la domanda per i beni e servizi delle nuove economie che si stavano consolidando per effetto delle azioni del 1° Piano strategico. Per Torino la crisi globale sarebbe arrivata nel momento sbagliato. Inoltre, ha coinciso con l’inizio dello sfaldamento del regime di regolazione della città. Ma perché si sfalda proprio in una fase che richiedeva una riformulazione della strategia? Nel libro non si risponde a questa domanda. Credo che la risposta la si debba cercare nella difficoltà a ricomporre il conflitto nell’allocazione delle risorse che la gravità della crisi economica di Torino stava generando. Che non era non riconducibile, però, agli effetti della crisi economico-finanziaria del 2007-08.
Lo spostamento del focus su ‘cosa ha fermato Torino’ avrebbe dovuto suggerire agli Autori di ampliare la sfera di analisi oltre i fattori collegati alla crisi globale. Nella seconda metà degli anni Duemila iniziano a consolidarsi gli effetti dei cambiamenti dell’ordinamento istituzionale del capitalismo europeo, destinati ad avere un impatto molto profondo sull’economia italiana. L’entrata dell’Italia nell’euro, avvenuta mentre l’economia europea si globalizzava, stava radicalmente modificando la competitività del settore manifatturiero italiano sul mercato nazionale e internazionale. Il nuovo ordinamento del mercato del lavoro, con i suoi effetti di riduzione delle retribuzioni reali di ampi settori della forza lavoro e l’aumento delle disparità di reddito e di ricchezza, stava modificando i pattern di consumo e investimento delle famiglie, già gravati dalla trasformazione di beni pubblici in beni semi-privati o privati. (A contribuire alla crisi vi erano poi dinamiche endogene, come l’invecchiamento demografico e l’obsolescenza del capitale edilizio.)
Gli effetti depressivi sull’economia locale dei cambiamenti dell’ordinamento istituzionale erano meno visibili di quelli diretti e indiretti della crisi finanziaria ed economica globale. Più lenti a manifestarsi e di più difficile interpretazione, hanno ricevuto minore attenzione, ma erano profondi e duraturi. Alla loro sottovalutazione ha contribuito l’interpretazione ‘naturalistica’ del nuovo ordinamento.
Spostare il focus dal ‘chi’ al ‘cosa’ equivale a spostare il focus dalla ‘resilienza’ alla ‘resistenza’: sugli effetti che gli shock esogeni producono sulla città e sull’entità dei disequilibri che ne conseguono – e che i dispositivi di resilienza dovrebbero ricomporre. Discutere della capacità di una città di ritornare su una traiettoria economica di equilibrio, dopo che da essa si è allontanata, senza confrontarsi con le condizioni generali – il ‘cosa’ – è ingiustificato per un sistema con un elevato ‘grado di apertura economica’ – come Torino. Per le città, la capacità di resilienza non può essere ricondotta esclusivamente alla qualità della risposta strategica di chi le governa. Finché la natura e la forza degli shock esogeni e gli effetti che essi producono non entrano nel modello esplicativo non si è in grado di dire se riuscirà a ritornare su una traiettoria di equilibrio come effetto delle strategie di regolazione, attraverso i dispositivi di resilienza che si attivano.
La resilienza è sempre relativa. Lo shock esogeno che un sistema riceve potrebbe essere troppo forte rispetto alla capacità di resistenza del sistema, producendo disequilibri che i dispositivi di aggiustamento non saranno in grado di compensare. Ci si può chiedere “chi ha fermato Torino”. Ma ci si dovrebbe anche chiedere se la città disponeva del potenziale economico per realizzare l’aggiustamento strutturale necessario. È un tema da tenere distinto dalle carenze politico-organizzative o dalle distorte preferenze di chi ha governato la città. Rimanda alle questioni dimenticate della ‘resistenza’ dei sistemi – dei danni causati alla loro struttura dagli shock esogeni – e della contingenza della resilienza(4).
Trovare un equilibrio tra il ‘chi’ e il ‘cosa’ – tra il ruolo della resilienza e della resistenza – nella spiegazione della traiettoria economica di una città non è semplice. Nel libro non si prova comunque a farlo, preferendo insistere sulla ricerca delle responsabilità degli attori individuali e collettivi coinvolti nel governo della città nello sfaldamento del regime di regolazione che era stato costruito nella seconda metà degli anni Novanta.
All’origine del ‘cosa’ c’è quasi sempre un ‘chi’: gli shock esogeni con i quali Torino – e molte altre città – si è dovuta confrontare sono stati indirettamente prodotti da scelte politiche nazionali. I loro benefici netti prendono forma quando se ne valutano gli effetti alla scala nazionale. Resta che per alcune città, regioni e macro-regioni i costi possono essere superiori ai benefici – e anche di molto.
La traiettoria economica di Torino – e di altre città – ha subito profondi effetti negativi come conseguenza dei cambiamenti dell’ordinamento istituzionale del capitalismo italiano ed europeo realizzati dagli anni Novanta. Non era la prima volta che veniva modificata dagli ‘effetti collaterali’ di scelte politiche nazionali. Le politiche di riequilibrio territoriale condotte negli anni Ottanta – gli incentivi alla localizzazione degli impianti produttivi nel Meridione, ad esempio – hanno re-indirizzato spazialmente gli investimenti del settore manifatturiero di Torino – in particolare, gli investimenti in capitale fisso della FIAT. Frenando, se non fermando, la traiettoria di crescita estensiva della città. Senza quel sistema di incentivi, lo stabilimento di Melfi sarebbe stato realizzato a Torino o nella sua area metropolitana.
Che le traiettorie economiche delle città debbano essere osservate anche negli effetti collaterali prodotti dalle scelte dei governi nazionali solleva il tema della responsabilità politica degli effetti locali delle politiche nazionali impone una domanda: cosa dobbiamo a Torino, sullo sfondo dell’impatto negativo del nuovo ordinamento istituzionale sulla sua traiettoria di crescita?(5)
Chi governa Torino non vede la crisi arrivare. Non solo non pone l’attenzione – come sottolinea Berta – sulle scelte strategiche della FIAT: “Debole, troppo debole è stata la replica di Torino alla lunga metamorfosi della sua grande impresa storica”(p. 70). Non la pone neppure, come richiama Pichierri, sull’evoluzione del sistema nel suo complesso: “il declino che dura da decenni è dovuto a una diagnosi mancata o tardiva, che non ha riconosciuto per tempo segnali che pure esistevano” (p. 93). Torino perde definitivamente l’orientamento dopo la crisi del 2007-08: si disfa il suo regime di regolazione – come sottolinea Bagnasco (pp. 29-43)– e non riesce a definire un’agenda urbana – come mostrano Berta (pp. 70-74) e Pichierri (pp. 105-121). L’immagine di un profondo stallo politico-amministrativo prende forma mentre si conclude la lettura del libro.
La possibilità di evitare il declino di una città non dipende soltanto dalla qualità della risposta cognitiva. La città europea – come ci ricorda Pichierri riprendendo Max Weber – è un attore collettivo in grado di condurre “processi decisionali in qualche senso democratici” (p. 84). Che tali processi possano avere gli esiti desiderati anche ‘in condizioni avverse’ – indipendentemente dalla natura e forza degli shock esogeni – è però un’ipotesi che il caso di Torino certo non corrobora. Su questa ipotesi continua a essere fondato il discorso sulla città europea, ma l’evidenza empirica suggerisce altre prospettive di analisi.
Lo stato delle città europee – che esprime lo stato della società europea – solleva domande che dovremmo di nuovo iniziare a porci, come ha suggerito Tony Judt in un libro di alcuni anni fa: Quale sarebbe la razionalità di un ordinamento istituzionale che genera economie instabili e drammaticamente insostenibili sul piano ambientale, sociale, personale?(6). Ci saranno anche fattori locali all’origine del declino economico di Torino e di tante altre città e territori in Europa, ma non si può continuare a ignorare che come causa dei drammatici disequilibri del nostro tempo c’è l’ordinamento istituzionale che sotto l’egemonia culturale del paradigma neoliberale è stato dato al capitalismo, e che dovremmo ora profondamente modificare. Per salvarci – e per salvare il capitalismo(7).
Antonio Calafati
Note 1) Questa interpretazione del paradigma neoliberale è stata di recente proposta in Slobodian (2018). 2) Le città hanno una ‘base economica’ sulla quale poggia la sua intera economia. Ne ho discusso in Calafati (2015). 3) Per descrivere l’erraticità della localizzazione delle imprese nel neocapitalismo il reportage è ancora lo strumento migliore (Meek, 2017, 2021). 4) Ho sottolineato l’importanza di valutare il potenziale di sviluppo di una città in un background paper preparato per la Commissione Europea (Calafati, 2011). 5) Con riferimento a Torino, ho sollevato il tema della responsabilità politica (e morale) degli effetti territoriali delle politiche nazionali in Calafati (2003). 6) Mi riferisco alla riflessione condotta in Judt (2010). Per una rilettura della globalizzazione come ‘scelta ideologica’, attribuibile alle consapevoli decisioni dei governi nazionali, vedi: Masulli (2014). 7) Come suggerito in Reich (2020) e Reich (2016).
Riferimenti bibliografici
- Bagnasco, A., Berta, G., & Pichierri, A. (2020). Chi ha fermato Torino? Una metafora per l’Italia. Torino: Einaudi.
- Calafati, A. (2003). Socialised Development Trajectories: The Case of Turin. Italian Journal of Regional Science, 1.
- Calafati, A. (2011). European Cities' Development Trajectories: A Methodological Framework. Brussels: European Commission - Regional Policy.
- Calafati, A. (2015). The Economic Base of European Cities. In C. Bianchetti, & et alii, (a cura di.), Territories in Crisis, Berlin: Jovis Verlag.
- Judt, T. (2010). Guasto è il mondo. Bari-Roma: Laterza.
- Masulli, I. (2014). Chi ha cambiato il mondo? Bari-Roma: Laterza.
- Meek, J. (2017). Somerdale to Skarbimierz. London Review of Books, 39(8).
- Meek, J. (2021). Who Holds the Welding Rod? London Review of Books, 43(14).
- Reich, R. (2016). Saving Capitalism. London: Icon Book.
- Reich, R. (2020). The System. Who Rigged It, How We Fix It. London: Picador.
N.d.C. - Economista di formazione, Antonio Calafati ha studiato e a lungo insegnato alla Facoltà di Economia "Giorgio Fuà" (Ancona), che ha lasciato nel 2013 per assumere l’incarico di coordinare – nei primi tre anni sperimentali – l'International Doctoral Programme in Urban Studies del Gran Sasso Science Institute (L'Aquila). Dal 2016 al 2020 è stato professore di Studi urbani all’Accademia di architettura di Mendrisio. Ha inoltre avuto incarichi di insegnamento all'Università di Macerata (1992-1995) e all'Università "Friedrich Schiller" di Jena (2000-2009). Ha trascorso lunghi periodi di studio presso il St. Antony's College (Oxford), l'Università di Freiburg i.B. e il Max-Planck-Institut di Economia di Jena. Ha condotto studi e ricerche, tra gli altri, per la Commissione Europea, la Banca Europea per gli Investimenti, l'OCSE e il Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica.
Ha recentemente curato i volumi Milano: città e territorio. Uno studio di caso (Mendrisio Academy Press 2020), Un'agenda urbana per l'Italia (Donzelli 2014) e Le città della Terza Italia (FrancoAngeli 2011) – e redatto le monografie Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia (Donzelli, 2009) e, con F. Mazzoni, Città in nuce nelle Marche (FrancoAngeli 2008). Il suo sito web è: www.antonio-calafati.it
Per Città Bene Comune ha scritto: Neo-liberali tra società e comunità (30 settembre 2017).
N.b. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 22 OTTOBRE 2021 |
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A. Bonomi, Quali politiche per la città di oggi?, commento a: C. Tajani, Città prossime (Guerini, 2021)
L. Marescotti, L'Urbanistica innanzitutto, commento a: C. Sambricio, P. Ramos (a cura di), El urbanismo de la transición (Ayuntamiento de Madrid, 2019)
M. Ruzzenenti, Il territorio dopo il Covid (e prima del PNRR), commento a: A. Marson, A. Tarpino (a cura di), Abitare il territorio al tempo del Covid, “Scienze del territorio”, numero speciale 2020
R. Pavia, Le città di fronte alle sfide ambientali, commento a: Livio Sacchi, Il futuro delle città (La nave di Teseo, 2019)
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G. Consonni, Il passato come risorsa del progetto, commento a: A. Lanzani, Cultura e progetto del territorio e della città (FrancoAngeli 2020)
F. Indovina, Urbanistica? Bologna docet, commento a: R. Scannavini, Al centro di Bologna, 1965-2015 (Costa Editore, 2020)
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F. Erbani, Casa e urbanità, elementi del diritto alla città, commento a: G. Consonni, Carta dell’habitat (La Vita Felice, 2019)
P. Pileri, Il consumo critico salva territori e paesaggi, commento a, A. di Gennaro, Ultime notizie dalla terra (Ediesse, 2018)
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