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Il principio territoriale di Alberto Magnaghi (Bollati Boringhieri, 2020) è una summa della teoria, del progetto e dell’azione territorialista coltivati nella scuola fondata dall’autore. Intende mostrare, del «territorio» quale «ambiente dell’uomo», «il principio» generatore, ossia ciò che ne produce l’identità. Per il lettore che ancora non abbia avuto modo di compulsarlo, si rinvia sia all’eccellente esposizione dei contenuti essenziali che Giuseppe Dematteis ne ha dato in questa stessa rubrica (5 febbraio 2021) – improbabile raggiungere quel livello di precisione e chiarezza in un così breve spazio – sia ai contributi critici che ne sono seguiti nel corso dell’anno: di Giancarlo Consonni (12 marzo), Renzo Riboldazzi (14 maggio, in occasione del dibattito promosso dalla Casa della Cultura), Pancho Pardi (30 luglio) e Ottavio Marzocca (16 settembre). Inutile, dunque, tentarne un’ulteriore sintesi. Qui s’intende focalizzare l’attenzione su due concetti fondamentali: quello di identità e quello di produzione. Nonché sulla relazione tra questi che si lascia intravedere nell’espressione «identità dinamiche» usata dal nostro autore. Per entrambi i concetti, abbiamo a che fare con un senso fondamentale che ab origine non è affatto pacifico. Non può quindi esser dato per scontato, ne va della stessa capacità di comprendere nel profondo il perché del nostro tempo e – se così lo si sente – del suo dramma.
1. Identità
L’identità è la negazione dell’altro da sé. La negazione del proprio altro è l’originario costituirsi del significare (1). Il territorialismo ne è chiaro esempio empirico. La creatura di Magnaghi acquista il significato che le conferisce l’identità che le è propria, nell’atto in cui nega quell’altro da sé costituito da quel produrre che vuole rendersi autonomo dalla “natura” e dalla “storia”. A sua volta, il produrre della contemporaneità acquista il significato che gli conferisce la propria identità nell’atto del separarsi da “storia” e “natura”. Più precisamente – un approfondimento questo necessario perché ignorato dall’analisi territorialista – quel che il pensiero contemporaneo è giunto a negare è il senso tradizionale di “natura” e “storia” intesi come presupposti all’atto del pensiero che le pensa e così pensandole le pone. È necessario negarne il senso condizionante la creatività umana. Non può esservi autentica creazione – dice il pensiero del nostro tempo – se in linea di principio l’atto creativo non è assolutamente libero. Cosa significata esattamente? Che a livello empirico, nella concreta pratica, la creatività incontra sì limiti di vario tipo, ma che sono assolutamente contingenti e perciò, in linea di principio, oltrepassabili. Se vi fossero limiti invalicabili, quindi immodificabili, che si impongono all’umana creatività in forza di sé stessi, la nostra attività creativa sarebbe solo apparente. L’intera realtà, così come in effetti pensata e creduta per oltre due millenni dall’uomo metafisico-teologico, sarebbe duplice, costituita da due tipi di enti, gli eterni e i contingenti, dove la produzione dei secondi è predeterminata, guidata e dunque limitata dai primi. Si riconosce, a esempio, che il territorialismo è opera del suo artefice e del gruppo che con lui è andato collaborando. È, in altri termini, una creazione, in quanto c’è almeno qualcosa nella sua configurazione compiuta, nella sua propria identità, che prima del suo concepimento non esisteva, ossia era nulla. Questo significa che la sua propria perfetta identità nulla aveva di presupposto che ne condizionasse la creazione. Nel testo di Magnaghi, infatti, non c’è traccia di riferimenti ad enti eterni, al più «durevoli». Il progetto territorialista non si propone di tornare indietro a ciò che passando non è più. Non si propone di conservare ab aeterno gli ecosistemi cultura-natura già prodotti dalla storia pensata dal territorialismo come «coevolutiva». Ma di produrre ex novo, col medesimo principio “coevolutivo” (che è un pensato posto dal pensiero che attualmente lo pensa), ciò che non è ancora (quindi dal nulla) e che perciò chiama «neo-ecosistemi». Il pensiero di Magnaghi è del tutto omogeneo al pensiero del nostro tempo, ha il medesimo fondamento: la totalità del reale è assolutamente contingente, perciò, in linea di principio, nulla condiziona la creatività umana, neanche natura e storia intese come presupposti. Queste ultime sono poste dalla volontà creativa. Nell’assoluta libertà di determinare la compiuta, perfetta identità degli enti, innumerevoli sono le posizioni che i diversi progetti, tanto più antagonisti quanto più olistici, assegnano a natura e storia. Uno tra i molti che fioriscono come mai prima d’oggi è quello territorialista, dichiaratamente olistico e dunque radicalmente alternativo, dove l’identità è negazione assolutamente escludente l’altro da sé. Nel suo libro Magnaghi ricorre alcune decine di volte all’uso del prefisso ‘auto-’, dal greco αυτός (‘senza concorso di altri’, ‘che sta da sé’) e che nella forma ὸ αυτός (‘il medesimo’) nomina proprio l’identità. Ciò esprime la volontà di lasciare nel nulla il proprio altro, quindi di tenere assolutamente salda in sé stessa l’identità territorialista del territorio, e insieme di determinarne la produzione autonoma, ossia libera da ogni condizionamento altro dal proprio progetto.
2. Identità e fede
Il territorialismo non oltrepassa il senso dell’identità e del produrre proprio del pensiero contemporaneo, del quale vorrebbe liberarsi. Non solo. A causa di qualche ambiguità nel linguaggio e di alcune oscillazioni concettuali, sembra talvolta compiere passi indietro anche rispetto alla coerenza con i propri presupposti. Se nel nostro tempo la storia ha compiuto una svolta “catastrofica”, mettendo patologicamente in pericolo il nostro ambiente di vita, allora, senza avvedersene, il territorialismo sta approntando una cura che resta imbrigliata nella causa della malattia stessa. Non si riesce ad approfondire a sufficienza la comprensione degli eventi storici se non si volge insieme lo sguardo a quel mobile intreccio di fede e logica che è l’essenza del pensare. Il procedere degli eventi è conseguente al pensiero che dà significato alle cose e motiva l’azione. Nel suo commento già citato, Dematteis qualifica opportunamente come «fede» il territorialismo. Qualsiasi scienziato consapevole sa che la scienza è una determinata forma ragionata di fede. Implicitamente, lo stesso Magnaghi riconosce che sì il progetto territorialista è un’utopia, ma «concreta», perché capace di indicare la via per perseguire lo scopo: il progressivo maturare della «coscienza di luogo» degli «abitanti/produttori» di cui vi sono vari indizi testimoniati da esperienze in atto. Ciò significa che la concreta misura della realizzabilità del progetto dipende dal concreto grado di diffusione della fede che le cose abbiano il significato che va loro attribuendo il pensiero territorialista. Dematteis, infatti, afferma che tutto «dipenderà […] da quanti non saranno disposti ad accettare un futuro che sembra già scritto. E questi non mancano …». Ma la fede implica altre fedi che si contendono il medesimo dominio globale e locale in uno scontro pratico. Marx, a esempio, in consonanza col l’intero pensiero contemporaneo (dal quale il territorialismo vorrebbe prendere le distanze), esprime il senso e la ragione di tale contendere nella seconda tesi su Feuerbach: «La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. È nell'attività pratica che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere». Nella lunga epoca che precede la svolta contemporanea si ha fede che la potenza per sostenere vittoriosamente lo scontro pratico risieda in ultimo nell’ultraterrena onnipotenza divina, la cui conoscenza è perciò immutabile. L’esistenza dei popoli è stata così guidata – e perciò limitata nella capacità costruttiva distruttiva – da un apparto metafisico epistemico teologico (dove “epistemico” significa incontrovertibile, ossia assoluta verità del pensiero). Col tramonto degli immutabili (e se ne dovrà mostrare l’inevitabilità all’interno di determinati presupposti) il potere per tentare di sostenere vittoriosamente lo scontro pratico risiede nella potenza della tecnica guidata dalla razionalità scientifica che è, invece, ipotetica. Il dominio nella guida dell’esistenza si è trasferito da dio alla tecnica, ossia all’apparato scientifico ipotetico tecnologico. Un esempio pratico lampante. La Seconda guerra mondiale – un eminente scontro pratico – è stata vinta dagli USA e dall’URSS, in temporanea alleanza contro il nemico comune. Un’alleanza che ha mostrato nella pratica di possedere, sviluppare e saper usare l’apparato tecnico scientifico in funzione bellica più potente di quello del nemico. La vittoria non è stata determinata dal possesso di supposte verità frutto di costrutti teorici, quali capitalismo, comunismo, democrazia, liberalismo, nazifascismo; o fedi religiose ebraiche, cristiane, islamiche. A loro volta dei due paesi vincitori, uno è dominato dalla fede nel capitalismo, l’altro lo è stato da quella nel comunismo. Due identità escludentesi, l’una assoluta negazione dell’altra. Lo scontro pratico volto a rendere concreto l’annientamento del proprio altro, ossia la verità di fatto, che è perciò stesso pur sempre contingente, ha costretto entrambi ad assumere quale scopo primario il potenziamento dell’apparato scientifico tecnologico per poter accrescere la rispettiva potenza bellica. Oggi Stati Uniti e Russia, non più sovietica, detengono pariteticamente oltre il novanta per cento degli armamenti nucleari esistenti nel mondo, e la crescita non è ferma. Sono militarmente invincibili. Il perdurare di tale equilibrio duopolistico rende improbabile – anche se non impossibile in senso assoluto – una guerra mondiale, perché avrebbe come conseguenza una quanto mai rapida distruzione globale dell’ambiente di vita – o della totalità del «territorio» nel linguaggio territorialista(2). Ma anche qui, non sarà l’etica territorialista, o altre analoghe, che potranno concretamente tentare, con sufficiente credibilità, di impedire una più o meno rapida distruzione del territorio, quanto l’equilibrio di potenza tra le potenze mondiali e in ultimo la potenza globale dell’apparato scientifico tecnologico, il cui proprio scopo primario, ossia lo scopo che la tecnica ha in sé stessa, è la crescita illimitata della capacità concreta di realizzare scopi: qualsiasi scopo.
3. Fede e tecnica
È questa l’autentica globalizzazione del nostro tempo. Alla quale il territorialismo non si sottrae e inconsapevolmente vi contribuisce, ossia partecipa all’illimitata crescita costruttiva/distruttiva della potenza tecnica. Quando qualsiasi pensiero volto all’agire in vista di fini pone il proprio scopo primario, ossia ciò che dà il senso, che determina l’identità dell’azione, tale scopo sta nella mente di chi lo pone: è perciò ideale. Il passaggio da ideale a reale, ossia il procedere verso la realizzazione, implica una mediazione. Ciò che tradizionalmente è posto come mezzo è la tecnica. Ma cosa s’intende esattamente nominare con questa parola? «Nella storia dell’Occidente – scrive Saverino – la parola fondamentale che esprime il senso dell’ars è τέχνη, da cui deriva la parola “tecnica”. Ma mentre in ars viene esplicitamente nominata la connessione calcolata dei mezzi al fine, τέχνη nomina invece i vari modi e settori in cui questa connessione si realizza, a partire da quello originario, mediante il quale il mortale copre il suo corpo e gli dà un rifugio […]. Τέχνη è una forma astratta di τέκτων […] in generale, l’artista e l’artefice. Ma in τέκτων risuona innanzitutto il senso di tego (στέγω) che significa “coprire proteggendo” e quindi, principalmente la copertura ottenuta col tetto (τέγος) dell’abitazione»(3). La tecnica si appalesa dall’origine come vitale per il mortale. E tanto più il pericolo si presenta agli occhi del mortale come potenza annientante, tanto più la capacità annientante il pericolo va perseguita nella protezione in cui la tecnica coesiste. E il pericolo maggiore, ab origine, è l’uomo stesso. Il carattere uccisorio del vivente è del tutto esplicito nei testi arcaici e quindi sacri, oggi è invece in vari modi velato, nascosto all’esperienza diretta dei più, ma non meno attivo. Un esempio tra molti: «Se qualcuno viene per ucciderti, alzati e uccidilo per primo» recita un passo del Talmud babilonese(4). Nel rapporto tra mezzo e scopo si determina una situazione logica nella quale ciò che per perseguirlo è posto come mezzo (la tecnica) si rovescia in scopo; mentre lo scopo idealmente posto è costretto a porsi al servizio del potenziamento del mezzo (la tecnica). Nella preghiera, a esempio il “Padre Nostro”, ci si rivolge alla potenza divina (il primo grande tecnico, l’onnipotente artefice di tutto dal nulla) allo scopo di chiedergli: «dacci oggi il nostro pane quotidiano», ossia la sopravvivenza, e perciò stesso ci si dichiara suoi servitori: «sia fatta la tua volontà». Altro esempio, il denaro è una tecnica, e come tale è posto quale mezzo per perseguire un più potente scambio delle merci. Fin dall’antichità è noto il suo rovesciamento in scopo, frenato dalle varie fedi etico-morali della tradizione. Al tramonto di queste, il rovesciamento sfocia nella diffusione planetaria del capitalismo. Non a caso oggi si usa dire “il dio danaro”. E ancora, a un certo punto l’URSS, il grandioso tentativo di sperimentare in un paese, in un luogo, in un territorio, la realizzazione di una società comunista, scopo primario di quel progetto, si è trovata di fronte a un dilemma: o tener fermo lo scopo ideale, la sua identità assolutamente negante il proprio altro, ma al prezzo di indebolire il mezzo (l’apparato scientifico tecnologico), perché il puro uso senza potenziamento lo logora, mettendo in concreto pericolo lo scopo rispetto alla potenza del nemico mortale; o lasciar cadere lo scopo ideale perseguendo quale scopo primario il potenziamento del mezzo. La dirigenza sovietica ha pragmaticamente scelto la seconda opzione. La Russia ha così potuto continuare a potenziare l’apparato scientifico tecnologico, in particolare l’armamento bellico, mantenendolo in sostanziale equilibrio con quello USA. Trovarsi di fronte al dilemma tocca a qualsiasi scopo idealmente posto come primario, quanto più assoluta è la negazione del proprio altro. Perciò il declino spetta anche quell’agire che ha quale scopo primario il profitto privato, ossia il capitalismo(5). Per la sua stessa struttura è un agire che ha due nemici mortali da fronteggiare, uno interno, l’altro esterno, ossia qualsiasi agire determinato da fini altri dal profitto. Quello capitalistico è un agire concorrenziale tra privati, dove ciascun attore tende a dominare il mercato a discapito degli altri. Con la formazione di monopoli o oligopoli il capitalismo nega sé stesso. Il nemico esterno del capitalismo, in questo momento storico, è costituito soprattutto dalla crescente e sempre più diffusa convinzione, scientifica ed etica, che stiamo procedendo verso la distruzione del nostro ambiente di vita, ossia del «territorio». Proprio perché anche per il capitalismo il territorio è un fondamentale, insostituibile mezzo per perseguire il profitto, la coscienza che lo si vada logorando a un punto tale da ridurlo all’impotenza, costringerà quest’agire a subordinare il profitto allo scopo di salvare il territorio. È in base alla logica del rovesciamento del mezzo in scopo che il capitalismo si troverà di fronte al dilemma, e non perché qualche voce etico morale – e ve ne sono molte anche venerande e autorevoli – proclamando il territorio “bene comune” lo esorta a subordinare il profitto a tale bene, che è un po’ come il tentativo di persuadere qualcuno al suicidio.
4. Il rovesciamento del mezzo in scopo
Ma, di nuovo, una volta posto quale scopo ideale la salvezza del territorio, come lo si rende reale in concreto? Calcolando l’idonea connessione tra mezzi e scopo, ossia impegnandosi nel possesso e nell’opportuno potenziamento della tecnica, cercando di orientarla nella direzione voluta. Spesso, nelle analisi, capitalismo e tecnica vengono confusi e anche il territorialismo sembra confonderli. Ciò accade perché, tra le fedi etiche in competizione, quella capitalistica, di fatto (ed è un puro fatto storico, dunque contingente), va mostrando una capacità pratica maggiore delle avversarie nel possedere e usare la gran parte dell’apparto scientifico tecnologico per il proprio scopo primario. Le etiche in conflitto, ciascuna con la propria identità escludente l’altro da sé, determinata dal suo specifico scopo primario, sono tutte costrette a contendersi la potenza tecnica, ossia ad assumere quale scopo necessario l’entrare in possesso di frazioni sempre più consistenti dell’apparato scientifico tecnologico, potenziandone la capacità di realizzare scopi. Emerge allora che l’autentico «bene comune», autentico perché s’impone a tutti i contendenti in forza di logica e non perché qualcuno lo proclami tale, è proprio la potenza tecnica. Ciascuna fede etica intende porre la tecnica al servizio esclusivo ed escludente del proprio identitario scopo, ed è così costretta ad assumere quale scopo primario l’illimitato potenziamento della capacità tecnica di realizzare concretamente scopi. Tale processo di potenziamento dell’apparato scientifico tecnologico non esclude i singoli scopi propri delle varie etiche, non ne annulla l’identità, li include tutti, in quanto impone loro di servire il processo di potenziamento. Ciò mette in luce l’impossibilità che l’identità di ciascuna etica possa avere la capacità concreta di escludere assolutamente l’altro da sé e così imporre il proprio specifico scopo quale bene autenticamente comune nella strutturazione della società e nella configurazione del suo ambiente di vita: il «territorio».
5. Specializzazione tecnico scientifica
Il territorialismo mostra di aver presente il problema di entrare in possesso della potenza tecnica e scientifica del nostro tempo con l’intento di porla al servizio del proprio scopo. Come lo affronta? Nel suo approccio volutamente olistico immagina di radunare una vasta molteplicità di scienze e tecniche, dandosi una «impostazione multi- e trans-disciplinare». Ora, questo suo rivolgersi al “tutto”, che perciò non vuol lasciare niente al di fuori di sé che lo condizioni, e dove il “tutto” ha il senso, l’identità che il medesimo territorialismo dà a sé stesso, ha un forte odore di metafisica. La scienza contemporanea è certamente figlia della metafisica, che è morta di parto, ne porta i geni, ma insieme ne differisce. La scienza contemporanea non si rivolge, come la metafisica, al tutto (anche se in vari modi essa si pone filosoficamente il problema), guarda alla parte separata dal tutto in quanto concettualmente e operativamente dominabile dall’agire umano, ossia dalla tecnica. La scienza ha un’anima essenzialmente tecnica: non si tratta tanto di sapere come stanno eternamente le cose, ma di conoscerle ipoteticamente e di tentarne operativamente la manipolazione. Non mira alla theoria come contemplazione della dimensione eterna, ultraterrena, della realtà, ma ad aver potenza sulle cose, assumendo che l’interra realtà è contingente. Di qui l’illimitato progressivo specializzarsi in una moltitudine di discipline in cui la scienza consiste. Uno specializzarsi che è insieme un continuo ricomporsi e trasformarsi delle discipline stesse. E di qui il carattere consapevolmente ipotetico, statistico probabilistico, della razionalità scientifica. Quanto più si riesce a separare una parte dal tutto, tanto maggiore è la probabilità di poterla temporaneamente dominare. Temporaneamente, perché l’irrompere, prima o poi, di ciò che la separazione ha inteso lasciare fuori, non potendola certo annullare, smentirà in tutto o in parte il sapere e il potere tecnico raggiungo su quella parte. L’isolazionismo e l’ipoteticità sono i due tratti distintivi rispetto al sapere prescientifico, che hanno conferito alla razionalità scientifica del nostro tempo una potenza pratica inaudita. Ammesso che l’esperimento territorialista «multi- e trans-disciplinare» possa avere qualche esito, questo consisterà in niente di diverso dalla formazione di una qualche nuova micro-specializzazione condita di territorialismo, che non può aver niente di olistico.
6. Identità, luogo, memoria
D’altra parte, nonostante l’aspirazione olistica, l’isolamento di una parte dal tutto è implicito nel modo in cui il territorialismo intende il luogo. Nel pensiero territorialista il luogo è centrale ed è combinato col concetto altrettanto centrale di identità: «identità di luogo». In questo modo il limite in cui il luogo consiste non è inteso nel significato relazionale, ma come separazione di ciò che contiene dal proprio altro, ossia l’identità costituita dal suo specifico «patrimonio territoriale» e dal principio generativo del suo «neo-ecosistema»(6). Il luogo identitario, in altri termini, deve separare ciò che gli compete contenere da ogni possibile alterazione, perché il principio territoriale possa generare. Come s’è detto, l’identità è la negazione assolutamente escludente il proprio altro, è il separato, il medesimo senso del sacro, ossia ciò che è autonomo e libero da relazioni ad esso esterne e nemiche. Mentre il luogo è quella relazione di contiguità tra corpi, dove l’uno è il corpo contenente e l’altro (se luogo individuale) o gli altri (se luogo comune), ne costituiscono il contenuto. Il luogo, perciò, al contrario dell’identità è includente. E in quanto includente, include l’esclusione in cui l’identità consiste. Quando, come fa anche il territorialismo, si attribuiscono al luogo qualità, valori o qualsiasi identità, ci si riferisce propriamente a ciò che il luogo, in un determinato tempo, sta contenendo o è andato contenendo o si vuole che contenga in avvenire e non al luogo in quanto tale. Si dice, a esempio, una bottiglia d’acqua, assumendo come un tutto i due corpi, la bottiglia e l’acqua. Ma il limite interno della bottiglia è propriamente il luogo che, in quanto tale, può stare in relazione inclusiva, ossia contenere – contemporaneamente o in tempi diversi a seconda dei contenuti – una molteplicità di altri corpi: vino, aria, sabbia. A sua volta la bottiglia in quanto corpo può essere mossa da un luogo all’altro, ognuno dei quali ne include l’identità escludente l’altro da sé. Le relazioni sono molteplici, dinamiche, mutevoli, smentiscono la valenza assoluta dall’esclusione in cui l’identità consiste. Ridurre il luogo a identità è la sua più radicale negazione, è un non-luogo. Il luogo ha senso in relazione al movimento dei corpi e a ogni sorta di loro cambiamento, inclusi i mutamenti di identità e di significato. Senza mutamento non c’è luogo. Ed è nel senso della mobilità che il luogo ha un’eminente valenza memoriale. Le identità si avvicendano nel luogo che resta. Il contenuto della memoria è ciò che attualmente non sta più in relazione alla nostra esperienza nello stesso modo con cui lo è stato in un certo luogo o in più luoghi. Perciò, l’identità nella sua negazione escludente è un passato e dunque un ricordo. La permanenza del luogo o dei luoghi che quell’identità hanno incluso coadiuva la memoria individuale e intersoggettiva: il luogo non appare più all’esperienza attuale occupato dall’identità che passando è stata sostituita da un’altra, ma continua ad apparire il luogo che l’ha contenuta. Cosicché il luogo è comune in senso diacronico alle identità che vi si avvicendano e che è capace di includere. La memoria, a sua volta, è dinamica, è creativa in un duplice senso. È un intreccio tra ricordo e oblio, è selettiva, ricorda dimenticando e dimentica ricordando. La memoria o l’oblio assoluti sono patologie. La memoria per selezionare e trattenere ciò che passa deve interpretare, congetturare, formulare costrutti teorici ipotetici su ciò che non sta più nell’esperienza attuale, si muove all’interno della fede e dello scopo dalla fede posto. La memoria differisce perciò da individuo a individuo, da gruppo a gruppo, da scopo a scopo. Il territorialismo crea il contenuto della sua memoria interpretando le permanenze «identitarie» ritenute di «lunga durata» in modo tale da conferire al limite di luogo la valenza escludente l’altro da sé; mentre è proprio il luogo in quanto inclusivo a relativizzare l’assolutezza dell’esclusione. Dopodiché pensa l’olismo come una rete planetaria di luoghi territorialisticamente identitari, separati e separanti, chiusi negli stabili equilibri tra natura e cultura dei propri neo-ecosistemi autoriproducentisi sotto il controllo autogovernato delle neo-comunità locali di «abitanti/produttori». E questo “tutto”, se è tale, non lascia nulla fuori di sé, perciò è senza luogo, non ha luogo, ossia un tratto fondamentale dell’utopia, di qualsiasi utopia. Mirando a un “buon-luogo”, al luogo della «felicità» stabile e garantita, si annulla il luogo e la sua eminente valenza relazionale nello spazio e nel tempo.
7. La felicità territorialista
Mirare alla «felicità» degli «abitanti/produttori» ha una lunga tradizione nel pensiero occidentale. L’originaria struttura dell’agire individuale in vista di fini e dell’agire comunitario che, tramite l’ordinamento gerarchico delle diverse tecniche specialistiche, orienta per legge tutti i fini particolari allo scopo supremo costituito dalla felicità (εὺδαιμονία), risale ad Aristotele ed è argomentata e fondata nell’Etica nicomachea (gli architetti-urbanisti dovrebbero leggere e riflettere criticamente su questo testo decisivo). Nel nostro tempo la struttura dell’agire concettuale e operativo in vista di fini è la medesima. La differenza fondamentale sta nella posizione logica e nel significato della εὺδαιμονία. Questa parola si usa tradurre con “felicità”, ma tale termine, al contrario di quello greco nell’argomentazione aristotelica, nomina la felicità nel suo senso assolutamente contingente e non ciò che ha in sé stessa la capacità di connettere secondo necessità – e perciò subordinare – la molteplicità delle tecniche all’etica della polis. Non si tratta di una differenza puramente culturale prodottasi nella storia dei fluttuanti mutamenti o «cicli» ai quali le varie «civilizzazioni» sono fisiologicamente soggette e che, dunque, possono essere in qualche modo ricuperati e riproposti in declinazioni aggiornate. Nel corso di oltre due millenni l’attività logico-speculativa inaugurata dai greci ha messo in luce l’incoerenza dell’argomento col quale la εὺδαιμονία è stata originariamente fondata secondo un senso del fondamento assolutamente incontrovertibile, ossia “epistemico” (στήμη, ‘che sta’, επί, ‘su’, senza che né uomini né déi possano abbatterlo). Nel pensiero del nostro tempo questa coerentizzazione logico-filosofica, necessaria e inevitabile, ha trovato compimento. Sicché, l’agire in vista di fini che concretamente andiamo sperimentando (che piaccia o no) è conseguente a tale coerenza, dove l’originario senso della «felicità» (εὺδαιμονία) è ormai privo di fondamento.
Vediamo nei suoi tratti essenziali l’argomento fondante la εὺδαιμονία e poi in cosa consiste la sua incoerenza. Aristotele qualifica «architettoniche» (αρχιτεκτονικών) tutte quelle tecniche produttive e azioni che hanno la capacità di servirsi di una o più tecniche per orientarle verso uno scopo di ordine superiore ai loro singoli fini specialistici, dove perciò questi ultimi da fini sono ridotti a mezzi. Per esempio, la tecnica del timoniere è architettonica rispetto a quella del falegname. Il timoniere conosce la forma del timone al fine di governare la nave, il falegname conosce il legno e come lo si lavora al fine di modellarlo. La divisione sociale del lavoro consiste in una struttura gerarchica, dove la molteplicità delle tecniche specialistiche si ordina secondo una concatenazione di fini determinata dal grado di architettonicità di ciascuna tecnica produttiva o azione. L’esempio di Aristotele: «la fabbricazione delle briglie e di tutti gli altri strumenti che servono per i cavalli è subordinata all’equitazione, e quest’ultima e ogni azione militare sono subordinate alla strategia, così allo stesso modo, altre attività sono subordinate ad attività diverse. In tutte, però, i fini delle attività architettoniche sono da anteporsi a quelli delle subordinate: i beni di queste ultime, infatti, sono perseguiti in vista di quei primi»(7). Perfetta l’analogia con la volontà d’impostare l’azione «multi- e trans-disciplinare»: il territorialismo vuole darsi una struttura dell’agire in alto grado architettonico, indirizzata al bene supremo delle varie politeia autogovernate, ciascuna delle quali con la propria esclusiva «identità di luogo». Qual è l’argomento aristotelico che dà fondamento allo scopo della polis, ossia l’ultimo “fine” dove la concatenazione architettonica dei fini specifici si arresta come la freccia quando colpisce il bersaglio (σκοπός)? Argomenta Aristotele: «se vi è un fine delle azioni da noi compiute che vogliamo per sé stesso, mentre vogliamo tutti gli altri in funzione di quello, e se noi non scegliamo ogni cosa in vista di un’altra (così infatti si procederebbe all’infinito, cosicché la nostra tensione resterebbe priva di contenuto e di utilità), è evidente che questo fine deve essere il bene, anzi il bene supremo»(8). Per Aristotele è un assurdo pensare illimitata la concatenazione di fini. E nell’incipit aveva già anticipato, riferendosi implicitamente a Platone: «a ragione si è affermato che il bene è “ciò cui ogni cosa tende”»; infatti, «comunemente si ammette che […] ogni arte» e «ogni azione compiuta in base a una scelta» mirino a un «bene». Si tratta allora di determinare in cosa consista questo «bene supremo» e di quale scienza (επιστήμη) o capacità (δύναμις) sia oggetto. Questa scienza non può che essere «architettonica in massimo grado» e tale – per Aristotele – «è, manifestamente, la politica». È implicito, come già in Platone, che la capacità politica ha verità se possiede επιστήμη, ossia sapere incontrovertibile o ha il filosofo come consulente. Perché la prassi politica è «architettonica in massimo grado»? Perché «stabilisce quali scienze è necessario coltivare nella polis, e quali ciascuna classe di cittadini deve apprendere, e fino a che punto». Ed è la politica «che si serve di tutte le scienze e che stabilisce […] per legge che cosa si deve fare, da quali azioni ci si deve astenere, il suo fine abbraccerà i fini delle altre, cosicché sarà questo il fine dell’uomo. Infatti – evidenzia Aristotele – se anche il bene è il medesimo per il singolo e per la polis, è manifestamente qualcosa di più grande e di più perfetto perseguire e salvaguardare quello della polis», perché il bene di un popolo «è più bello e più divino»(9). Questa è musica gradita al territorialismo e alla gran parte degli architetti urbanisti pianificatori, dove la pianificazione spaziale è sostanzialmente etica e il governo del territorio è essenzialmente normativo. La struttura dell’agire sociale è esattamente la medesima definitivamente guadagnata al pensiero occidentale dall’indagine aristotelica. Ma il senso della «politica» nel pensiero greco non ha nulla a che vedere con la democrazia moderna nelle sue varie declinazioni. La democrazia nel nostro tempo è procedurale, una tecnica con la quale si tenta di evitare il taglio cruento delle teste, preferendo contarle (ma non sempre la preferenza è sufficientemente condivisa), riconoscendo il potere di governare protempore alla maggioranza numerica, perché vi è consapevolezza che il «bene» non è comunemente «supremo», ma oggetto di conflitto tra i suoi differenti significati e dove il diritto non è naturale, ma positivo, dal latino positum, ossia creato e ‘posto’ dalla volontà di chi riesce temporaneamente a imporlo agli altri.
Aristotele ha ben chiaro che la «felicità» ha molteplici sensi contingenti, soggettivi, particolari, la ricerca filosofica è volta a mettere in luce, e a dimostrare in un’argomentazione razionale, l’identità dei diversi sensi: cosa hanno in comune i differenti beni che andiamo producendo con le diverse tecniche specialistiche. Se c’è qualcosa di comune, questo non può essere un bene tra gli altri che andiamo ad arte producendo, dove ognuno è un fine in funzione di altro, ma un bene trascendentale, che non è perciò riconducibile all’esperienza, ma ne è la condizione: è il principio generativo (αρχή) di tutti i singolari beni producibili (medesima struttura logica del «principio territoriale»). A livello della polis, per Aristotele, tale bene, trascendete le felicità contingenti, che quindi tutti vogliamo per sé stesso e non in funzione di altro è, appunto, la εὺδαιμονία. Essa è incondizionata e condizionante, non è una creazione, è immutabile rispetto alla contingenza dei beni che sono producibili. La felicità che danno i diversi beni prodotti è veramente tale se l’agire tecnico è operato dai singoli («abitanti-produttori» nel linguaggio territorialista) conformemente al principio, altrimenti vi è doloroso danno e per la polis e per l’individuo. La felicità, infatti, nomina ciò che è l’opposto del dolore: l’angosciante dolore per l’annientamento del «territorio», ossia la morte del vivente, che è tanto più terrificante quanto meno se ne conosce il senso. L’originario «bene supremo» cui «ogni cosa tende» evocato da Aristotele è il Sommo bene o Idea del bene, il vertice della molteplicità delle idee che compongono la realtà intelligibile ed eterna nella dottrina di Platone. Sebbene Aristotele non sia d’accordo col maestro su come tale realtà produca o si dia in quella sensibile, e infatti la discute anche nell’Etica, la εὺδαιμονία quale σκοπός della πὸλις, è la traduzione del Bene intelligibile nella dimensione della realtà sensibile. Ed è per questo che non è contingente, come lo sono gli specifici beni di ciascuna particolare tecnica, nel senso che ciascun fine è rovesciato in mezzo in funzione della εὺδαιμονία. Siamo di fronte alla traduzione totale dell’immutabile nella εὺδαιμονία della πὸλις, che perciò è «bene comune».
8. Rapporto tra l’immutabile (identità assoluta) e il mutevole (identità relazionale)
Ma come giunge Platone, e in differenti declinazioni il pensiero razionale greco, alla fondazione logica di due dimensioni della realtà e al loro nesso necessario: una immutabile e solo intelligibile e l’altra mutevole appartenente a quella parte della realtà costituita dal mondo dell’esperienza sensibile? Per averne piena e chiara cognizione occorre guardare al senso originario della identità così come si presenta in forma decisiva nella parola di Parmenide, e che l’intero pensiero occidentale fino al nostro tempo tiene fermo. L’anticipazione arcaica dell’identità è costituita dal senso del sacro, che significa “separato”: la volontà di separare l’odine dal caos mortale, il profano, ciò che deve restare fuori; la volontà di affermarsi negando ed escludendo l’altro da sé. Ancora oggi concepiamo l’architettura secondo l’ordine del sacro(10). Parmenide radicalizza la separazione in cui il sacro consiste, portandola alla massima astrazione e usa il sostantivo Essere (εἶναι) per nominare la negazione assolutamente escludente l’altro da sé(11). Di esso afferma «che, in quanto è, ossia in quanto si separa dall’altro da sé, “non è possibile che non sia”. Non dice cioè semplicemente che l’essere è, ossia che il negare è un escludere, dice anche che, in quanto è (in quanto il negare è un escludere) non può non essere (non può includere) […]. Sì che non avendo assolutamente altro al di fuori di sé, l’essere è la perfetta identità che non conosce alterazione alcuna e “rimanendo identico e nell’identico, in sé medesimo giace, e in questo modo rimane là saldo”». Nella parola di Parmenide «al negare viene riconosciuto come proprio l’escludere, all’escludere viene riconosciuto come proprio di essere assoluto e nell’assolutezza dell’esclusione dell’altro viene riconosciuto il senso più proprio dell’identità come perfetta solitudine semantica»(12).
È questo il principio che sarà considerato il più fermo di tutti, principio di tutti i principi, sul quale è impossibile trovarsi in errore e che sarà chiamato “principio d’identità e non contraddizione”. Ma insieme alla potenza logica del principio emerge una robusta difficoltà che sembra senza uscita, nel linguaggio della filosofia ha preso il nome di “aporia del nulla” e da Parmenide in poi è oggetto della più ardua attività speculativa. La negazione si mostra come assoluta esclusione, ma insieme appare che al negare appartiene anche di includere ciò che esclude. La negazione è cioè tale che il negare include il negato nel momento stesso in cui lo esclude, perché escludendolo lo pone. Non può non porlo altrimenti cosa mai negherebbe? Probabilmente la difficoltà è presente già a Parmenide. Il suo poema, come d’uso all’epoca, s’intitola Sulla Natura (Περί Φύσεως); ma se solo il semplice, puro, incondizionato Essere è, per cui il proprio altro è lasciato nel nulla, allora la molteplicità delle cose e il loro incessante variare in cui lo spettacolo della “Natura” e della “storia” consiste restano prive di significato, ossia non hanno identità perché altro dall’Essere. Parmenide non potendo negare che “natura” e “storia” appaiono (lui stesso ne scrive), si limita a svalutare molteplicità e divenire delle cose ad apparenza meramente illusoria. E qui, l’emergere della struttura originaria dell’identità getta insieme il seme del nostro tempo: la negazione di “natura” e “storia” in quanto presupposti a ciò che, incondizionato, è condizione della loro esistenza. La prima grandiosa soluzione dell’aporia, che ha resistito in varie declinazioni e approfondimenti logici fino a due secoli fa, la dà Platone. Sì – rileva Platone – albero, casa, uomo, non significano Essere, sono altro dall’Essere, ma non in senso assoluto. La negazione assolutamente escludente il proprio altro in cui il principio d’identità consiste resta ferma, essa è la dimensione intelligibile della realtà alla quale appartengono gli enti immutabili. L’altra dimensione della realtà è costituita dagli enti mutevoli. Ciascuno di essi è quel che è, col medesimo senso dell’identità escludente il proprio altro, ma solo per il tempo che ognuno è dall’Essere così determinato. Platone qualifica gli enti mutevoli ὲπαμφοτερίξειν (un ‘essere di duplice natura’). Infatti, έρίξειν nomina la contesa e «l’espressione τὰ ὰνφότερα (‘l’uno e l’altro’) si riferisce all’essere e al niente. La cosa è un dibattersi, un rimanere incerta tra l’uno e l’altro […]. L’ente in quanto ente è conteso dall’essere e dal niente»(13): può essere o non-essere, partecipa o dell’uno o dell’altro. Sicché, per Platone l’Essere (είναι) non è altro che δυναμις, ossia “potenza” di far essere temporaneamente le cose del mondo, che perciò si chiamano “essenti” o “enti”. È appropriato in un certo senso, come fa Dematteis, considerare il territorialismo una «ontologia». Nell’espressione magnaghiana «identità dinamiche» vi è l’eco – forse inconsapevole – della voce di Platone.
9. Il senso greco della produzione dominante nel nostro tempo
È sulla base delle categorie dell’essere e del niente (non-ente) guadagnate dal pensiero greco che Platone costruisce, e pone come evidenza assoluta dell’esperienza, quel senso inaudito della produzione degli enti contingenti destinato a divenire dominante. Ecco perché Severino usa dire che la Repubblica di Platone non è un’utopia ma il mondo in cui viviamo oggi. Nascita e morte, generazione e corruzione, creazione e distruzione (divina, naturale o tecnica) afferma Platone, sono un uscire e ritornare nel niente: «Ogni causa, che faccia passare una qualsiasi cosa dal niente all’essere, è produzione, cosicché sono produzioni anche le azioni che vengono compiute in ogni arte e tutti gli artefici sono produttori» (14). Aristotele lo ribadisce: «Ciò che può essere diversamente da come è, può essere sia oggetto di produzione, sia oggetto di azione» e definisce la tecnica come «disposizione ragionata secondo verità alla produzione. E ogni tecnica […] riguarda il far venire all’essere e il progettare, cioè il considerare in che modo può venire all’essere qualche oggetto di quelli che possono essere o non essere»(15). Dove sta l’incoerenza di questo senso greco del produrre, del divenire delle cose del mondo, messa in luce nella forma più rigorosa e radicale dal pensiero degli ultimi due secoli? Se è un’evidenza che il produrre e il distruggere le cose consiste nel portarle dal niente all’essere e nel riportarle nel niente, quindi un agire assolutamente libero, perché niente lo condiziona, allora è insostenibile, è fuori da ogni evidenza, che la potenza ultima che fa essere le cose che possono essere o non essere, risieda un una qualche dimensione eterna della realtà ultramondana. Significherebbe che tutte le cose stanno già da sempre e per sempre nell’eterno e il loro darsi temporale nell’esperienza avvenga secondo la sua immutabile legge, dove la potenza creativa dell’uomo è solo apparente. La posizione platonica dell’Essere parmenideo come δυναμις (‘potenza’) è la negazione dell’evidenza, così come è insostenibile il puro essere parmenideo assolutamente separato dal mondo lasciato nel niente. Tra i numerosi pensatori degli ultimi due secoli che hanno portato a compimento la confutazione della metafisica, i tre considerati più rigorosi e radicali sono Giacomo Leopardi, Friedrich Nietzsche e Giovanni Gentile. La potenza sta nella volontà umana rileva, a esempio, Nietzsche: ««se vi fossero degli déi, come potrei sopportare di non essere dio! Dunque, non vi sono déi [...]. Via da Dio e dagli déi mi ha allettato questa volontà; che cosa mai resterebbe da creare, se gli déi – esistessero!»(16). Non si tratta della rilevazione di un semplice mutamento culturale costituto dalla fisiologica fluttuazione della fede religiosa in Dio; se la fede è un dono, l’adesione ha un andamento variabile nel tempo. Ma dell’impossibilità che esista qualsiasi immutabile di fronte all’evidenza dell’uscire e ritornare nel niente di tutte le cose. L’intera realtà è costituita da enti mutevoli, contingenti. Se esistono questi – ritenuta evidenza dai greci in poi – non possono esistere gli enti immutabili nei quali gli antichi hanno riposto le loro illusioni di sicurezza e stabilità. Quel che nel linguaggio di Nietzsche è «volontà di potenza», in quello di Gentile è «spirito» in cui l’atto del pensare consiste, non il pensiero in quanto pensato, ma il pensiero pensante, che ha coscienza di sé medesimo, il pensiero in atto (ecco perché la filosofia gentiliana ha l’etichetta di attaulismo). Adesso va rilevato e tenuto presente, che la semantica dell’essere parmenideo, in quanto è l’incondizionato, ossia l’identità come negazione assolutamente escludente l’altro da sé, è ancora tenuta ferma, traslocata però nell’atto del pensare e dell’agire dell’uomo. Dove il darsi, il procedere negli enti della volontà di potenza o spirito è un compito infinito, è potenza e continua attività di conservazione della potenza stessa. Dice a esempio Gentile: «L’uomo non ha guanciale su cui posare il capo. Eterno insonne, sublime artiere, lavora senza posa, per costruire il mondo, e per costruire nel mondo sé stesso. Il mondo della sua verità, che è pure il mondo del suo essere, è l’opera sua. Non però come έργον, sì come ενέργεια: non opus, ma opera»(17). Cosa significa? Che l’opera prodotta dall’agire, pensata dal pensiero, in quanto così oggettivata deve essere negata, perché non si costituisca come condizione della creatività che è proprio e solo della volontà di potenza, dell’atto del pensare. Se il passato (natura e storia) sono concepiti come presupposti all’agire e al pensare in cui la volontà di potenza consiste, questa non sarebbe più creativa, non c’è creazione dove non c’è libertà, dove i condizionamenti non siano nulli: la creazione è processo continuo dal nulla all’essere e dall’essere al nulla(18).
10. Il dominio della tecnica
Solo se si tiene presente il pensiero filosofico contemporaneo e la coerentizzazione del senso greco degli enti si riesce a cogliere la tendenza fondamentale del nostro tempo, che vede la progressiva liberazione della tecnica dalla subordinazione alle etiche(19). Ma già agli albori della modernità Leon Battista Alberti nel prologo del De re aedificatoria pone in primo piano la tecnica come architettonica in massimo grado e non la politica, pur ribadendo la medesima struttura dell’agire in vista di fini definitivamente guadagnata da Aristotele, afferma qualcosa di inaudito, che la causa dell’unione degli uomini in comunità è l’architettura «considerando quanto un tetto e delle pareti siano […] indispensabili» (si rammenti il senso di tego = ‘coprire proteggendo”), ossia l’arte di edificare che nel pensiero dell’umanista è un campo vastissimo tanto quanto oggi lo è quello delle ingegnerie e delle discipline scientifico tecnologiche. Ciò non significa che la tecnica sia destinata ad avere l’ultima parola. Essa è ormai guidata dalla razionalità scientifica che è consapevolmente ipotetica, smentibile, falsificabile. Non può quindi garantire in senso assoluto che le sue progressive e potenti conquiste pratiche siano irreversibili, ossia non possano andare perdute da un momento all’altro. La potenza tecnica già adesso ha un duplice volto: si presenta quanto mai utile alla sopravvivenza e insieme quanto mai inquietante negli effetti indesiderati. Perciò neanche il territorialismo può ragionevolmente garantire in senso assoluto quel che il suo progetto e le sue pratiche promettono: la salvezza del «territorio».
11. Tecnica e poesia
D’altra parte, il pensiero territorialista sta all’interno della persuasione che le cose vengono dal niente e vi ritornano e che il divenire costituisca la totalità del reale. È Leopardi che ha anticipato il pensiero contemporaneo, portando per primo a coerenza il senso greco del divenire come totalità. Il grande poeta, tenendo fermo il senso greco del divenire liberato dagli immutabili, ha anche prospettato «l’intreccio di poesia e filosofia» come l’apertura «all’ultima possibilità dell’uomo, alla fine dell’età della tecnica»(20). Va tenuto presente che ποιεσις, etimo di ‘poesia’, vuol dire ‘produzione’. Cinquant’anni prima di Nietzsche, Leopardi ha proclamato la morte definitiva di dio: «In somma, il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ec.». Prosegue Leopardi (con buona pace del “principio territoriale” con valenza olistica), «Un primo ed universale principio delle cose, o non esiste, né mai fu, o se esiste o esistè, non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi né potendo avere in menomo dato per giudicare delle cose avanti le cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale. [...] La necessità di essere, o di essere in un tal modo, e di essere indipendentemente da ogni cagione, è perfezione relativa alle nostre opinioni ec. Certo è che distrutte le forme platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio»(21). Per Platone i poeti mentono molto e perciò vanno cacciati dalla polis. Leopardi è d’accordo sul mentire dei poeti, ma a differenza di Platone afferma che la menzogna poetica è vitale per l’uomo, perché distoglie lo sguardo da quella verità di ragione che mostra la nientità di tutte le cose rendendolo folle di dolore, gettandolo nella più profonda angoscia. Che Magnaghi sia un poeta della configurazione dello spazio possono esservi pochi dubbi. Il territorialismo col suo principio territoriale è una grande menzogna poetica, in senso leopardiano, volta e lenire l’angosciante terrore causato dalla persuasione che stiamo procedendo all’annientamento del «territorio» quale «ambiente di vita dell’uomo».
11. Interrogativi aperti
Ma tutto ciò è pacifico, è assodato? No. Cosa va mettendo in discussione il pensiero contemporaneo? Due significati: la semantica dominante dell’ente come ciò che esce e ritorna nel niente – discussione che tiene però fermo il senso dell’identità e lo fa anzi valere nel modo logicamente più rigoroso – e quella dell’identità dell’ente come negazione assolutamente escludente il proprio altro. Il pensiero di Emanuele Severino è la confutazione più radicale e rigorosa del senso greco del divenire dell’ente come uscire e ritornare nel niente di tutte le cose, argomentata con una logica potente e raffinatissima. Muove dalla rigorizzazione del principio di non contraddizione che chiama «struttura originaria», ossia la «struttura anapodittica del sapere», la cui negazione si nega da sé, perché per poterla negare la si deve presupporre. Una nuova strutturazione che va oltre quella (grandiosa, ma fallace) di Aristotele. Qui ci si limita a dare una cognizione empirica, estremamente semplificata e succinta, del perché il senso greco del divenire, che sta alla base del nostro agire, non è un’evidenza. Quando si dice che qualcosa non è più, ossia il passato compiuto, così come quando si dice che non è ancora, ossia il futuro, questo qualcosa sta fuori dall’esperienza, fuori dal modo in cui la cosa appare ed è percepibile nella presenza. Ciò implica che l’esperienza non può dirci nulla intorno a ciò che non è esperibile nel modo in cui lo è stato o lo sarà. Ma che l’esperienza non possa dir nulla non implica che il qualcosa sia nulla, ossia sia altro da sé. Tutto ciò che diciamo intorno al qualcosa fuori dall’esperienza è una congettura, un costrutto teorico, una fede e non un’evidenza esperibile. A questo punto Severino fa valere il principio di identità e non contraddizione, in una rinnovata e rigorosissima strutturazione logico filosofica (la «struttura anapodittica del sapere», la «struttura originaria») in base al quale è impossibile che l’ente, qualsiasi ente, sia altro da sé, ossia diventi il proprio altro: tutte le cose, in questo senso, sono eterne. Lo spettacolo della variazione, della storia, è l’apparire e scomparire dell’eterno – un apparire non illusorio come nella parola di Parmenide. Lo stare eterno delle cose Severino lo chiama «destino», che non è il fato, il prefisso ‘de-‘ ha valenza rafforzativa dello stare. Tutto ciò che noi riteniamo di volere nel pensare, agire, produrre, è voluto dal «destino», incluso il nostro volere e decidere, incluso l’errore in cui il senso greco del divenire consiste, ossia quel che Severino considera la grandiosa follia dell’Occidente e che è l’essenza di ogni forma di nichilismo(22). Tutto ciò che è destinato ad apparire, appare così come appare e mai potrebbe apparire diversamente da come appare. Sotto il profilo storico «la riflessione di Severino è affermazione della via logicamente mancante al cammino della filosofia. Sulla scacchiera logica vi sono tre possibili alternative: 1. esistono enti eterni e divenienti; 2. esistono solo enti divenienti; 3. esistono solo enti eterni. La mossa filosofica di Severino è l’ultima. Qui l’eterno ha un senso completamente nuovo, perché non coesiste con il diveniente: è affermato sulla base dell’impossibilità del diveniente»(23). Il pensiero di Severino, come quello di altri grandi pensatori, quali Platone, Aristotele, Kant, Hegel, costituisce un’ampia apertura filosofica, fondata su una rigorosa struttura logica; perciò, ha davanti a sé un lungo futuro di studi, riflessioni, confutazioni.
Sia nella persuasione che esistano enti eterni ed enti divenienti (pensiero tradizionale), sia che esistano solo questi ultimi (pensiero contemporaneo) o solo i primi (pensiero severiniano), il senso (parmenideo) dell’identità come negazione assolutamente escludente l’altro da sé è tenuto fermo ed è secondo questo senso che si è continuato a pensare la determinazione degli enti: il significato delle cose. Ma è davvero logicamente possibile la negazione del proprio altro come assolutamente escludente, dove ogni ente è determinato nella propria identità dall’assoluta separazione dall’altro? Vanno emergendo da più ambiti della cultura e delle scienze riflessioni critiche sul senso dominante del concetto di “identità”. Nella fisica quantistica(24), a esempio, così come tra alcuni studiosi di antropologia. In quest’ultimo ambito l’identità è rivisitata criticamente anche per i suoi risvolti triviali nella vita sociale, quali razzismo, xenofobia, varie forme di intolleranza anche violenta verso l’altro(25). Per comprendere in profondità la radice del problema occorre rivolgersi il pensiero logico speculativo. La filosofia non è una disciplina tra le altre, riflette su tutto, sul linguaggio e sulle stesse discipline in cui il sapere va articolandosi. Una delle indagini in fieri, rigorosa e che sembra promettente, la sta conducendo il già citato Emanuele Lago(26). La negazione del proprio altro, in cui l’identità consiste, è escludente, in questo non c’è arbitrio. Ma, pur mostrandosi «come assoluta esclusione, al negare appartiene anche di includere quello stesso altro che esso esclude». Il negare, infatti, «include il negato nel momento stesso in cui lo esclude», perché «escludendolo […] lo pone». Questo non significa che l’esclusione scompaia, lasciando solo spazio all’inclusione, «ma si rivela includente proprio perché essa è escludente». Il pensiero occidentale ha teso a separare il momento logico escludente da quello includente e a rilevare poi l’inclusione, pretendendo di tener ferma l’assolutezza dell’esclusione. Assunte come separate, esclusione e inclusione entrano così in contrasto, apparendo come aporia. L’indagine di Lago muove dalla constatazione che non c’è alcun momento logico in cui l’esclusione sia slegata dall’inclusione. La cosiddetta «aporia del nulla» è originariamente «oltrepassata». Perciò si tratta di mostrare che la «natura profonda del negare» è costituita dal «legame dell’includere con l’escludere inteso come oltrepassamento della pura esclusione da parte dell’inclusione». Lago chiama questo legame «intreccio originario» tra l’escludere e l’includere. Sta proprio in questo l’oltrepassamento dell’assolutezza, ossia il significato suo proprio: «l’inclusione dell’esclusione è l’oltrepassamento dell’assolutezza dell’esclusione. La quale viene oltrepassata appunto in quanto viene inclusa». Proseguendo nell’indagine Lago arriva a introdurre il senso non parmenideo del legame tra “essere” e “pensiero” e quindi tra “essere” ed “essente”. Non parmenideo, perché in Parmenide ‘essere’ e ‘pensiero’ sono identici, sono l’assoluta identità. Ed ecco l’argomento: «Se “essere” è il nome dell’esclusione dell’altro da sé, “pensiero” è il nome dell’inclusione dell’altro da sé. Lago, cioè, riconosce al “pensiero” la natura includente, laddove l’“essere” ha quella escludente: «Nel suo significato essenziale, il pensiero non è un’operazione “mentale”, ma la natura includente della negazione, cioè il suo costitutivo aprirsi al proprio altro». Per cui si determina ulteriormente la natura dell’intreccio originario: «L’intreccio di essere e pensiero è “ciò che è”, dove il “ciò che” è il pensiero». E l’“essente” = “pensiero” è l’oltrepassamento dell’“essere”, quindi il ciò che include l’“essere”: Come tale, l’essente è l’oltrepassamento dell’essere da parte del pensiero. In conclusione, Lago fa emergere la natura eminentemente relazionale dell’identità, dove «ogni essente si apre agli altri in quanto include il proprio chiudersi agli altri, che è il suo passato. Includendo gli altri, esse include il modo in cui gli altri lo includono». E «In questo reciproco includersi da parte degli essenti, l’alterità dell’essente che viene incluso non è qualcosa che l’essente che lo include possa risolvere e consumare». Sicché «ogni essente è un lasciare sempre un altro essente dentro sé. Lo è, appunto perché è un includere il suo essere dall’altro incluso. Cioè perché è un intreccio di essenti». Si addice a questo diverso senso dell’ente ciò che Dante dice dell’ultimo cerchio del Paradiso – citato da Lago – che pare “inchiuso da quel ch’elli ‘nchiude”»(27).
In conclusione, credo si possa affermare che la scuola territorialista ha il medesimo fondamento di ciò che intende negare: il senso dell’identità e del produrre che nel nostro tempo è ormai comune a tutti i popoli della terra – costituendo così un’autentica “globalizzazione” – e che nasce col pensiero razionale greco. Questo è stato diffuso a livello di massa soprattutto dalla teologia e dalla catechesi delle religioni che hanno integrato il grande mito della Bibbia con la metafisica platonico-aristotelica.
Francesco Ventura
Note 1) I tratti essenziali sul senso originario dell’identità, che risalgono alla parola di Parmenide, sono mutuati da un testo in fieri, non ancora pubblicato, di Emanuele Lago, Oltre l’identità. L’aporia del nulla del nulla e il suo oltrepassamento, novembre 2018. 2) «Le due superpotenze nucleari accumularono nel corso del tempo circa 5000 testate nucleari strategiche (e un arsenale di più di 15.000 altre testate nucleari su missili a corto raggio) con una forza distruttiva in totale di circa 20 EJ. Tutto ciò è eccessivo in modo del tutto irrazionale. Come notò Victor Weisskopf (1983, 25), «le armi nucleari non sono armi da guerra. L’unico scopo per cui ha senso costruirle è quello di scoraggiare il loro uso da parte del nemico e per questa funzione ne bastano molte meno di quelle che esistono». Eppure, questa disponibilità di armi in eccesso è servita all’Occidente davvero come eccezionale deterrente che ha impedito lo scoppio di un conflitto termonucleare globale senza alcun vincitore», citato da Vaclav Smil, Energia e civiltà, Hoepli 2021, p. 442. 3) Emanuele Severino, Destino della necessità, Adelphi, pp. 283-284. 4) Ronen Bergman, Uccidi per primo. La storia segreta degli omicidi mirati di Israele, Mondadori. 5) Emanuele Severino, Il declino del capitalismo, BUR 1993. 6) Nel glossario del Principio territoriale (primo capitolo) compaiono anche le voci «spazio» e «luogo», territorialisticamente intese. Nella prima a un certo punto Magnaghi afferma che il pensiero di Aristotele oscilla «fra spazio – chora – e luogo - topos», mostrando così di non conoscere o di non aver letto con sufficiente attenzione il IV Libro della Fisica, dove lo stagirita argomenta sul concetto di luogo nominandolo, senza alcuna oscillazione, con la parola topos e distinguendolo nettamente da “spazio” (chora), ma anche e soprattutto da “corpo” (soma): il luogo non può essere un corpo, quindi non è né forma né materia, per quanto abbia come i corpi estensione: è una mutevole relazione tra corpi. Questa di Aristotele è considerata la prima, più rigorosa, approfondita e tuttora insuperata argomentazione su cosa s’intende per luogo. Ora, che nel compilare un glossario con la voce «luogo» si ignori (pur citandolo) ciò che ne scrive Aristotele, anche per prenderne le distanze o confutarlo come sarebbe legittimo e scientificamente corretto, fa sì che il senso di quella voce risulti del tutto inconsistente, quasi incomprensibile. Anche se si volesse evitare di addentrarsi nella logica del pensiero filosofico, c’è da chiedersi se sia questo il modo di tener conto della storia – la fondamentale storia del pensiero – su cui peraltro intenderebbe fondarsi il territorialismo. Si rinvia, a esempio, alla tesi di dottorato di Henri Bergson, Quid Aristoteles de loco senserit (Cosa pensa Aristotele del luogo, o L’idea di luogo in Aristotele). Per un’esposizione analitica del IV Libro della Fisica, anche in relazione ai temi della pianificazione e dello statuto dei luoghi, vedi Francesco Ventura, Statuto dei luoghi e pianificazione, Città Studi Edizioni 2000, il capitolo 2, Il luogo nella tradizione del pensiero occidentale. 7) Aristotele, Etica nicomachea, 1094a, 10-15. 8) Idem, 1094a, 20-25. 9) Idem, 1094a, 25 – 1094b, 1-10. pp. 73-74. 10) Emanuele Lago e Francesco Ventura, La casa che pensa, su Città Bene Comune. 11) «All’alba dei tempi, il linguaggio e i suoi referenti salirono dal concreto all’astratto attraverso i gradini della metafora, o addirittura, potremmo dire, crearono l’astratto sulle basi della metafora. Questa importantissima funzione della metafora non è sempre evidente. Ciò si deve al fatto che i metaferenti concreti sono stati oscurati nel corso del mutamento fonemico, e le parole sono rimaste in vita nude e sole. Persino una parola così poco metaforica come il verbo inglese to be, «essere», fu generata da una metafora. Esso deriva infatti dal sanscrito bhu, «crescere o far crescere», mentre le forme inglesi am, «io sono», e is, si sono evolute dalla stessa radice del sanscrito asmi, «respirare». Fa piacere scoprire che la coniugazione irregolare del verbo inglese più banale conserva un ricordo del tempo in cui l’uomo non possedeva una parola a sé per «esistenza» e poteva dire solo che qualcosa «cresce» o «respira». Ovviamente noi non siamo coscienti che il concetto di essere è generato in tal modo da una metafora riguardante la crescita e la respirazione. Le parole astratte sono antiche monete le cui immagini concrete sono state logorate dall’uso nel continuo scambio del discorso», Julia Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi 1984, 12) Emanuele Lago, Oltre l’identità …, op. cit. 13) Emanuele Severino, Destino della necessità, Adelphi 1980, p. 22. 14) Platone, Simposio, 205 b-c. 15) Aristotele, Etica nicomachea, 1140a 0-15. 16) Friedrich Nietzsche, Così parlò Zaratustra, Adelphi, 2003, pp. 95-96 17) G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, Vol. II, Le Lettere, 1987, Parte Terza, cap. VIII, par. 3. 18) Emanuele Lago, La volontà di potenza e il passato. Nietzsche e Gentile, Bompiani 2005. Questo libero è interessantissimo, perché mette in luce che il senso tradizionale del passato è immutabile secondo due sensi. Nietzsche ne vede e confuta uno, all’altro provvede Gentile. Ma le due soluzioni si escludono a vicenda, mostrando che «La vetta dalla coerenza della volontà di potenza con sé stessa porta quindi il suo non poter essere, cioè il suo essere qualcosa di impossibile. Porta cioè innanzi l’essenziale impotenza della volontà di potenza», p. 296. Il ché implica alla necessità di mettere in discussione e il senso greco del divenire e del produrre e il senso dell’identità. 19) Emanuele Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi 2008. 20) Emanuele Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, BUR 1990, Prefazione. 21) Giacomo Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura (Zibaldone di pensieri, 1341-1342, luglio 1821. 22) Emanuele Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi 1982. 23) Nicoletta Cusano, Emanuele Severino, la lezione infinita, Il Corriere della Sera, 17 febbraio 2020. 24) Vedi a esempio Jim Barggott, Massa, Adelphi 2019; oppure Carlo Rovelli, Helgoland, Adelphi 2020. 25) Vedi a esempio Francesco Remotti, Contro l’identità, Editori Laterza 2001 e L’ossessione dell’identità, Editori Laterza 2017; vedi anche Maurizio Bettini, Hai sbagliato foresta. Il furore dell’identità, il Mulino 2020. 26) Emanuele Lago, Oltre l’identità. L’aporia del nulla e il suo oltrepassamento, in fieri, non ancora pubblicato. 27) Dante Alighieri, Divina Commedia, Par. XXX 10-13.
N.d.C. - Francesco Ventura, già professore ordinario di Urbanistica all'Università degli Studi di Firenze, ha pubblicato tra gli altri: L'istituzione dell'urbanistica. Gli esordi italiani (Libreria Alfani Ed., 1999); Statuto dei luoghi e pianificazione (Città Studi Edizioni, 2000); Sul fondamento del progettare e l'infondatezza della norma, in P. Bottaro, et al. (a cura di), Lo spazio, il tempo e la norma (Ed. Scientifica, 2008); La verità del falso ("Area, n. 105-2009); Il monumento tra identità e rassicurazione, in G. Amendola (a cura di), Insicuri e contenti (Liguori, 2011); La tutela e il recupero dei centri storici, in L. Gaeta, et al., Governo del territorio e pianificazione spaziale (Città Studi, 2013); La progettazione del passato ed il ricordo del futuro, in A. Iacomoni (a cura di), Questioni sul recupero della città storica (Aracne, 2014).
Per Città Bene Comune ha scritto: Urbanistica: tecnica o politica? (14 febbraio 2016); Lo stato della pianificazione urbanistica. Qualche interrogativo per un dibattito (1 aprile 2016); Urbanistica: né etica, né diritto (30 giugno 2016); Più che l'etica, è la tecnica a dominare le città (16 febbraio 2017); Antifragilità (e pianificazione) in discussione (28 luglio 2017); Così non si tutela né il suolo né il paesaggio (1 dicembre 2017); Su "La struttura del paesaggio": inutile le polemiche, riflettiamo sui contenuti (12 gennaio 2018); Sapere tecnico e etica della polis (28 settembre 2018).
Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: Giuseppe Dematteis, Il territorio tra coscienza di luogo e di classe (5 febbraio 2021); Giancarlo Consonni, La coscienza di luogo necessaria per abitare (12 marzo 2021); Renzo Riboldazzi, Fare politica con l’urbanistica (e viceversa) (14 maggio 2021); Pancho Pardi, Dal territorio una nuova democrazia (30 luglio 2021); Ottavio Marzocca, L’ambiente dell’uomo e l’indifferenza di Gaia (16 settembre 2021).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 13 SETTEMBRE 2021 |