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PER UN'ETICA AMBIENTALE INTERGENERAZIONALE
Commento al libro di Ferdinando G. Menga
Mario Vergani
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La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Glasgow e le numerose proteste (e proposte) di Youth4Climate di queste settimane ma soprattutto le condizioni dell’ambiente in cui viviamo rendono di assoluta attualità il libro di Ferdinando G. Menga, L’emergenza del futuro. I destini del pianeta e le responsabilità del presente (Donzelli, 2021). Si tratta di un libro agile, che si legge con passo leggero, in cui tuttavia l’impegno teoretico sotteso è intenso. Vi entrano gli studi di filosofia politica e di filosofia del diritto di Menga, in particolare riguardo al tema della comunità, e in questo libro l’autore porta a compimento un lungo lavoro che si articola in una sorta di trilogia che comprende Lo scandalo del futuro, per una giustizia intergenerazionale (Ed. di Storia e Letteratura, 2017) e Etica intergenerazionale (Ed. Morcelliana, 2021).
Partiamo dal titolo. L’emergenza ha a che fare col futuro, i destini sono quelli del pianeta, la responsabilità, invece, si colloca nel presente. Al centro del libro si trova un’idea paradossale e contraria al senso comune: la responsabilità ha le sue ragioni nella distanza e nell’estraneità. Esplicitamente, non nell’autonomia, né soprattutto in quella forma estrema dell’autonomia che chiamiamo sovranità. In un certo senso oggi siamo chiamati a pensare la responsabilità secondo i paradossi che si generano quando questa responsabilità è per i futuri. Una responsabilità centrata sull’idea di estraneità, non sull’autonomia né sull’idea di sovranità, anzi addirittura secondo l’idea di una cessione di sovranità.
A partire da questa idea centrale, si snoda la dimensione critica del testo che vorrei semplicemente abbozzare a grandi linee. Si parte da una disamina di una serie di modelli tradizionali per pensare l’etica intergenerazionale: di tipo contrattualista, di tipo utilitarista, cioè, diciamo così, legati alla figura dell’homo oeconomicus. Questi modelli ‒ come pure quelli ontologico-metafisici alla Jonas ‒ anche nelle versioni più raffinate si schiacciano inevitabilmente – tanto per quanto attiene la dimensione temporale quanto la dimensione spaziale – sempre sul presente e sul prossimo. Ma oggi la responsabilità da pensare è per i remoti. La tesi di Menga – che condivido – è che tali approcci, discussi nel testo, mancano del movente motivazionale. Siamo nella prima parte del libro dedicata alla dimensione etica del problema, cui segue, nella seconda parte, la dimensione politica del tema della responsabilità e giustizia intergenerazionale, ovvero il rapporto con il potere e con la comunità o l’in-comune (oggetto quanto mai pericoloso). Nella prima parte il tema è come pensare una responsabilità che motivi l’agire anche nei confronti dei remoti. Per sviluppare l’idea controintuitiva di una responsabilità che contempli una cessione di sovranità ‒ forse, meglio, facendola finita con la figura della sovranità ‒ dobbiamo pensare in che modo si dà una responsabilità imposta, ingiunta, dall’estraneità, dai remoti, o, come si dice qui, dai “futuri”.
Non è semplice descrivere il tono di questo libro. Dire ottimistico è troppo. Certo è attraversato dalla speranza, rispetto all’occasione. Non è un tono ingenuo. Per tornare al titolo, viene menzionata la questione della destinalità: i destini del pianeta. Si tratta di comprendere le nuove figure della destinalità tecnica oggi, o quando la natura diviene ambiente sociale, e come sia necessario illuminare gli inediti automatismi che riguardano innanzitutto la sfera economica e il modello neoliberista. Accanto all’avvertimento riguardo alla pericolosità di tali automatismi, direi che, di contro, qualcosa emerge, secondo una figura, ripresa da Levinas, che è quella della resistenza etica. L’emergenza del futuro si interroga appunto sull’istanza, l’“aver-luogo”, nel suo come, oltre e preliminarmente rispetto al dove e quando di questa emergenza. Il termine “emergenza” viene collegato sia alla questione dell’emersione sia alla questione dell’urgenza: l’emergenza diventa un problema di emersione, qualcosa che finalmente si dà a vedere, mi fa vedere. O meglio, che si lascia intravvedere, ma secondo una figura rovesciata dello sguardo. E dall’altra parte anche il tema dell’urgenza. L’emergenza accade come una sorta di atto d’accusa. Qui Menga dispiega il modello filosofico di riferimento, un modello fenomenologico che si spinge verso la direzione delle filosofie dell’alterità; sulla base di questo, la coscienza morale nasce da un’ingiunzione di giustificazione. La resistenza etica ha a che fare con l’emergenza di un appello di responsabilità che proviene dai remoti e che si presenta come una richiesta di giustificarsi. «How dare you?», «Come osate?», secondo l’espressione di Greta.
Nel paragrafo intitolato Lacrimae rerum lacrimae posterorum leggiamo: «D’altronde è già lo stesso Virgilio, qualche millennio prima, ad aver perfettamente inteso tale natura “iperfenomenica” delle cose, allorché, a Enea che guarda le raffigurazioni della guerra di Troia scolpite nel tempio di Giunone mette in bocca il lamento “Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt”. Espressione che alla lettera potremmo così tradurre “Sono le lacrime delle cose, e le vicende mortali toccano la mente”». L’immagine è classica. Il tema viene ripreso da Simone Weil, la quale definisce Niobe come la figura della sventura, del malheur, o della vulnerabilità, nella cui passività riposa l’emergenza e l’ingiunzione etica. Scrive la Weil ne L’iliade o il poema della forza: «Dal potere di tramutare un uomo in cosa facendolo morire procede un altro potere, e molto più prodigioso: quello di tramutare in cosa un uomo, un uomo che resta vivo. È vivo, ha un’anima; è nondimeno una cosa […] Una pietra che piange». L’immagine che raddoppia il viso pietrificato dal dolore in una pietra che piange viene ripresa da Benjamin, Derrida, Butler, Stiegler. Lacrime del malheur, per la distruzione, lacrime della vulnerabilità. Le figure della sventura, del disastro, della catastrofe, sono ricondotte al tema di quella che oggi chiamiamo giustizia climatica. Con Waldenfels, uno dei riferimenti maggiori del libro di Menga, il rapporto con le cose viene definito un rapporto iperfenomenico: «Fenomeni che in quanto fenomeni eccedenti indicano oltre se stessi». È come se attraverso le cose e la distruzione delle cose si facessero vedere spettralmente i futuri. Come scrive Menga: «Non si tratta delle tracce depositate in oggetti ereditati ma piuttosto di quelle impresse fantasmaticamente in ambienti naturali devastati oppure in paesaggi urbani straniati dal re-insinuarsi della natura». Ora, per chi sono le lacrimae rerum? La risposta immediata suonerebbe: per i futuri. In realtà la presenza spettrale dei futuri che avanzano un appello di responsabilità nel presente non è il pianto delle cose per i futuri, piuttosto sono i futuri che piangono in questi resti. Ma allora si tratta evidentemente di pensare un rapporto con i futuri, di pensare il frammezzo tra le generazioni, smarcandosi da alcuni possibili fraintendimenti: la responsabilità per le generazioni future non ha a che fare con la compassione, non ha a che fare con una teoria dei sentimenti morali, non fa ricorso all’immaginazione (immaginarsi nel mondo futuro). Non sono questi i moventi motivazionali di cui va alla ricerca Menga. Al contrario, si tratta di pensare in senso fenomenologico la generazione e il rapporto con i futuri come se questi futuri in qualche modo fossero già presenti in questo mondo distrutto, e attraverso questo mondo distrutto rispondere alla presenza spettrale dei posteri che ci osservano in questi resti.
Siamo osservati, da dietro uno schermo che ci separa per sempre. Qui avviene il passaggio alla seconda dimensione del libro, quella più politica, che si apre con la questione della testimonianza. Se l’emergenza etica piomba dall’alto, se, come scrive Levinas, «si tratta qui di una relazione non con una resistenza grandissima, ma con qualcosa di assolutamente Altro: la resistenza di ciò che non ha resistenza ‒ la resistenza etica», allora chi ne sarà testimone e qual è il potere del testimone ‒ tenuto conto che la responsabilità richiede una deposizione di potere ‒ e come questo si traduce nelle forme e nell’esercizio del potere politico? Come modulare l’idea di potere e pensare la figura della comunità, tenendo conto di questa interferenza etica dei remoti? Da un lato, attraverso lo sviluppo del tema della rappresentanza responsiva, grazie a Waldenfels e a Lindahl, che permetterebbe la traduzione in termini non di pura testimonianza dell’appello alla responsabilità che proviene dal futuro (al riguardo mi permetto di suggerire un altro importante lavoro di Menga: Potere costituente e rappresentanza democratica. Per una fenomenologia dello spazio istituzionale, Ed. Scientifica 2009). Quindi, quale secondo tema ‒ questa volta sviluppato con la Arendt ‒ si ha un’elaborazione fenomenologica dell’in-between del rapporto tra le generazioni: né comunità di destino, né comunità morale, ma comunità quale esperienza di libertà che si fa in comune. L’in-comune è l’esperienza della libertà, cioè l'esperienza una pluralità d’inizialità che ha la sua ragion d’essere nella natalità, nella venuta dei nuovi nati, stranieri, estranei in questo mondo. Sono queste dense questioni teoriche che entrano in risonanza in modo evidente con alcuni temi all’ordine del giorno, anche quest’oggi, anche a Milano. Chi sono i testimoni? Come rispondere loro responsivamente in termini politici, cioè senza esautorarli, senza sostituirsi a essi, o, come direbbe Levinas, «sostituendo ciò che è irrimpiazzabile»? Ancora: come agire, esercitare il potere che la politica comporta, cedendo potere? Chi parla per chi? I potenti o i giovani che sono fuori rispetto alle discussioni che si producono all’interno delle stanze del potere?
Un’ultima considerazione. Si è detto giustamente che abbiamo la percezione che il futuro ci sfugga dalle mani, e per questo oggi il futuro è il tema: ecco la questione dell’emergenza del futuro. Forse Menga sarebbe d’accordo nel dire che dobbiamo rovesciare questa idea. Se la responsabilità va pensata a partire dall’estraneità, allora dobbiamo dire che siamo responsabili se non stringiamo il futuro in pugno. Questo non significa rinunciare alla responsabilità o rinunciare all’impegno. Significa non pregiudicare l’avvenire, non anticiparlo; attenderlo invece e da esso lasciarsi interrogare. In un certo senso ci è necessaria una deposizione di potere del presente rispetto al futuro. Ecco perché, per un’etica intergenerazionale, le posizioni all’insegna della sovranità e non della pluralità sono inevitabilmente dannose.
Idolatri, non abbiamo fiducia nell’altro. Quando invece pensiamo l’assenza come operativa nel cuore del presente, quando pensiamo all’intimità dell’estraneo, se concepiamo il tempo delle generazioni come spezzato e punteggiato di nuovi inizi, allora la responsabilità fronteggia l’inevitabilità del destino cui sembriamo consegnati.
Mario Vergani
N.d.C. – Mario Vergani è professore ordinario di Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Milano Bicocca. È vicedirettore del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione "Riccardo Massa".
Tra i suoi libri: Fatticità e genesi in Edmund Husserl. Un contributo dai manoscritti inediti (La Nuova Italia Ed., 1998); Jacques Derrida (Bruno Mondadori, 2000); Dell’aporia (Il Poligrafo, 2002); Dal soggetto al nome proprio. Fenomenologia della condizione umana tra etica e politica (Bruno Mondadori, 2007); Levinas fenomenologo. Umano senza condizioni (Morcelliana, 2011); Separazione e relazione. Prospettive etiche nell'epoca dell'indifferenza (ETS, 2012); Responsabilità. Rispondere di sé, rispondere all’altro (Raffello Cortina, 2015); Nascita. Una fenomenologia dell’esistenza (Carocci, 2020).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 26 NOVEMBRE 2021 |
CITTÀ BENE COMUNE
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