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SPAZI APERTI TRA INNOVAZIONE E BANALIZZAZIONE
Commento al libro curato da Marco Mareggi
Marialessandra Secchi
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Spazi aperti. Ragioni, progetti e piani urbanistici, a cura di Marco Mareggi, è un libro uscito lo scorso anno in edizione digitale per i tipi di Planum Publisher. Si tratta di un'antologia di saggi che argomenta la perdurante necessità di un'attenzione specifica al progetto dello spazio aperto nella costruzione della città e, allo stesso tempo, introduce un pubblico ampio alla complessità dei temi sollevati dalla trasformazione del progetto dello spazio pubblico a partire dalla lettura di alcune significative esperienze. Il saggio introduttivo del curatore, a questo scopo, rivede la "questione" degli spazi aperti all'interno della cultura architettonica e urbanistica italiana degli ultimi trent'anni. Il quadro complessivo ricostruito mette in luce il ruolo inaugurale dell'intenso dibattito che nei primi anni '90 si svolge sulle due principali riviste dell'epoca (Casabella diretta da Vittorio Gregotti e Urbanistica nelle direzioni di Bernardo Secchi e di Patrizia Gabellini). Quindi si sofferma sulla produzione di alcuni piani ritenuti significativi tanto per il ruolo strutturante che viene attribuito al disegno degli spazi aperti (Siena, Torino) quanto per l'introduzione, con un ruolo rilevante all'interno del piano urbanistico generale, dei temi ambientali e paesaggistici trattati con il supporto di esperti (Reggio Emilia 1994). Il testo, infine, sottolinea il ruolo che alcune esperienze internazionali hanno avuto nell'offrire modelli e temi di confronto (Barcellona e Lione).
La discussione delle pratiche del progetto, è affiancata dalla presentazione dell’intenso lavoro – condiviso con una ambiente disciplinare più ampio – che ha riguardato lo spazio aperto in quanto spazio pubblico: riflessioni sulle pratiche d'uso che lo connotano e sulla capacità dei luoghi di fornire le condizioni per l'interazione sociale(1). Da ultimo e più recentemente, si osserva, sono "le ragioni ambientali ed ecologiche" che legittimano e rendono necessario il progetto: lo spazio aperto è innanzitutto infrastruttura ecologico- ambientale che deve assolvere il difficile compito di tutelare (ma sarebbe meglio dire ricostruire) la capacità del territorio di far fronte alle alterazioni dell'equilibrio ecosistemico. Si profila così uno scenario ampio di riflessioni non sempre convergenti, anzi in molti casi probabilmente contraddittorie, dove gli spazi aperti si propongono come oggetto comune e prioritario di osservazione, capace di innescare un percorso di avvicinamento allo studio della città e del territorio e dei suoi processi di trasformazione. In un contesto di sostanziale revisione del ruolo del progetto urbanistico, non più supporto per la crescita urbana, almeno in Europa, ma piuttosto strumento di ridisegno dei territori urbanizzati, il progetto dello spazio aperto si pone dunque come strumento di modificazione privilegiato e contemporaneamente chiave di ingresso alla comprensione delle trasformazioni necessarie e delle strategie attuabili.
Al di là degli scopi dichiarati da questa complessa ricostruzione, il senso generale di questa raccolta di saggi appare più complesso e ci pone alla fine di fronte ad un interrogativo: ha ancora senso una riflessione che ponga al proprio centro il ruolo degli spazi aperti nella costruzione della città? Un interrogativo che può forse essere meglio articolato: nella sua fase inaugurale la nozione di "spazi aperti", sembra aver sospinto una quantità non indifferente di ricerche sulla idea stessa di urbanità, consentendo di spostare l'attenzione dalla sola attenzione all’oggetto architettonico e dalla sola attenzione alla città consolidata verso un campo più esteso(2). Ma è oggi possibile cogliere ancora in quella stessa vaga nozione un chiaro oggetto di studio per un'azione riformatrice dello spazio urbano? O siamo piuttosto di fronte ad una involuzione delle ricerche, ad un ripetersi, a volte stanco, delle stesse formule ben collaudate, dove nozioni non sempre ben definite quali "spazio aperto" e "spazio pubblico" "infrastrutture verdi e blu", con i loro attributi di sostenibilità, resilienza, inclusività, si sovrappongono e si confondono in una sorta di slang delle "buone intenzioni"?(3) E se invece, al di là delle parole, il senso delle molteplici ricerche sviluppate è ancora attuale, in quali direzioni e con quali nuove consapevolezze possiamo imparare dalle esperienze dei decenni appena passati? Nel rispondere a tali quesiti vorrei proporre una duplice osservazione. In primo luogo, nell’insistente sforzo di definizione di tipologie sempre più codificate di spazi aperti viene quasi inevitabilmente elusa una riflessione di più ampio respiro sulla forma e sulla struttura della città e del territorio; per contro, la apparente "banalizzazione" della prassi progettuale che riguarda gli spazi inedificati è forse la spia di una raggiunta normalizzazione che determina l'inclusione del progetto dello spazio aperto nella prassi corrente dell'architettura.
Materialità dello spazio e forma del territorio
Una parte non secondaria della riflessione sul progetto urbanistico si è specificata soprattutto attraverso l'immagine dello spazio aperto come infrastruttura: "ancora oggi gli spazi aperti sono infrastruttura per eccellenza - sia essa verde blu o grigia. Sono struttura, spina dorsale che organizza, dà senso e ricompone città e territori diversi e frammentati" si dice nell'introduzione al libro(4). Lo spazio aperto dà forma alle relazioni tra le cose ed in questo risiede il suo valore infrastrutturale: non si costruisce come sfondo su cui si posano gli oggetti ma è principio ordinatore, struttura soggiacente capace di organizzare e gerarchizzare lo spazio, capace di costruire in maniera significativa le relazioni tra elementi di natura differente che costruiscono il nostro spazio di vita (edifici, suoli, vegetazione, acque etc.). In questa prospettiva, la consapevolezza del carattere di maggiore “apertura” dello – che è proprio della città della seconda metà del secolo scorso – ha costituito per diversi anni un punto di convergenza di molte riflessioni volte a indagare la struttura e la specificità dei caratteri spaziali della città contemporanea, letti in sé o per differenza rispetto alla città di antico regime(5). Come osserva Antonio Longo riprendendo il testo di Kevin Lynch, the Openess of Open Space, affermare l’apertura dello spazio è innanzitutto un modo per immaginare un potenziale di interpretazione e di riformulazione, di tali caratteri spaziali che richiama l'immagine più volte espressa del progetto urbanistico in quanto "opera aperta"(6).
Ma il carattere "aperto" della città del secondo Novecento, evidenziato attraverso il dibattito di fine secolo, non è solo metafora interpretativa. È anche un dato materiale e specifico: il Novecento ha portato a termine la revisione di alcuni rapporti storicamente dati – ad esempio tra strada ed edificio e tra edificio e lotto – evidenziando la necessità di rimettere in discussione idee ben radicate di cosa sia l'urbanità, ovvero di quali modelli di spazio associamo all’idea di vita urbana: se infatti è luogo comune osservare come l’urbanizzazione abbia assunto una dimensione planetaria, è anche vero che le differenti aree urbanizzate non corrispondono ai medesimi modelli di vita urbana. Questi ultimi necessitano di essere continuamente reinterpretati smantellando letture coprenti ed omologanti e mettendo in luce il legame, spesso sottile, tra processi di costruzione e caratteri spaziali(7). Il valore "infrastrutturale" degli spazi aperti, risultato del dibattito di fine secolo sulle trasformazioni delle città del Novecento, fa riferimento ad un principio che ordina e gerarchizza i processi di costruzione e gli spazi che ne sono esito. Ma è stato forse inteso in modi troppo riduttivi che si esauriscono in singole e specifiche prestazioni: il corridoio ecologico, la pista ciclabile, il sistema di raccolta e riciclo delle acque piovane, etc. In una tale interpretazione lo spazio aperto assume gli aspetti più duri dell'infrastruttura, tende cioè ad essere spazio monofunzionale il cui senso è tutto risolto nella prestazione tecnica, eludendo la necessità di essere contemporaneamente ripensamento e riscrittura dello spazio abitabile nella sua generalità e nei suoi valori simbolici.
Il limite di questa immagine dello spazio aperto è dunque di farsi spesso promotrice di un progetto urbanistico sempre più dominato da logiche settoriali infrastrutturali tra loro sovrapposte: la gestione delle acque, dei corridoi ambientali, delle connessioni per la mobilità, etc. Il progetto di territorio finisce così per accomodare la "macchina nel giardino" molto più che ricomporre territori. Tende cioè a privilegiare una lettura del territorio sotto forma di problemi di ingegneria delle reti e del suolo, fornendo una risposta di natura tecnocratica che si confronta direttamente con la costruzione del paesaggio secondo un'immagine di conciliante adattamento(8). Per questo lo spazio aperto “infrastruttura” è oggi fonte di molte ambiguità, dagli esiti non sempre condivisibili.(9) Con una maggiore precisione dovremmo guardare al progetto urbanistico come intersezione di preoccupazioni differenti che non sono esclusivamente riconducibili a far funzionare la "macchina" del controllo climatico o il "metabolismo" dei territori. Ma per fare questo è necessario, io credo, tornare a parlare più apertamente della "forma del territorio" e dei modelli di urbanità che le corrispondono e che i progetti immaginano nel plasmare lo spazio quotidiano.
Manutenzione, ricerca e normalizzazione
Il lavoro di rigenerazione della città contemporanea è forse oggi meno eccezionale e più ordinario di qualche decennio fa. Costruisce in parte una prassi professionale consolidata di manutenzione della città esistente che professionisti e amministrazioni "anonimi" portano avanti, con esisti più o meno efficaci(10). È forse una versione non eclatante ma autentica della "cura" nei confronti della città contemporanea vissuta non come un manifesto ma come una necessità quotidiana. Il testo di Chiara Merlini (11) pone l'accento su questo aspetto. Nei due decenni appena conclusi, si sostiene, il progetto dello spazio pubblico ha percorso rapidamente una strada fatta di ricerche sperimentali capaci di innovare la qualità e la tipologia degli spazi della città e di riflettere tanto sulle pratiche d'uso e di appropriazione dello spazio urbano quanto sulla costruzione di un linguaggio e di un immaginario della città contemporanea, specifico e distinto rispetto ai luoghi qualificanti della città ottocentesca o novecentesca, riscattando lo spazio pubblico dal ruolo di mero residuo(12). Ma a questa ricerca, si osserva, si sono accostati progetti di routine sempre meno capaci di innovare: dare cioè nuovo senso agli spazi "senza nome"(13) e sempre più appiattiti nella riproduzione del già fatto e del già visto. Il rapido passaggio dalla sperimentazione all'emulazione sta configurando, secondo l’autrice, una sorta di nuovo "International style" potenzialmente pervasivo e spesso figurativamente chiassoso che sposta l'attenzione del progetto sulla sola manipolazione dei codici estetici(14).
C'è senz'altro del vero in questa osservazione e tuttavia vorrei spendere qualche parola a favore di questa progettazione che appare poco interessante e di routine. La città contemporanea, si è detto tante volte, ha bisogno di tempo: il tempo di sedimentare pratiche d'uso e aggiustamenti progressivi dello spazio che lo rendano più comodo e confortevole, che riscrivano con le parole di un linguaggio comune talvolta anche banale e "internazionale" gli spazi dell'esperienza quotidiana. Le riviste e le pagine web si riempiono di nuovi spazi aperti – giardini, piazze, playgrounds e strade – spazi colorati e spesso troppo disegnati; spazi teatrali che mettono in scena, magari ingenuamente, il desiderio di riscatto delle periferie urbane e la volontà di un nuovo inizio per quartieri a lungo trascurati. Si tratta spesso di spazi non particolarmente sperimentali né necessariamente interessanti, che ripetono soluzioni tecnologiche e scelte figurative correnti e sperimentate. Ciò non è tanto il sintomo di un calo di tensione nei confronti del progetto dello spazio aperto, ma forse piuttosto l'affermarsi e il prevalere di un'attenzione disincantata conquistata nel tempo e ora infine normalizzata.
Se ripensiamo alla “esemplare” trasformazione degli spazi pubblici di Barcellona possiamo comprendere il filo che lega quella esperienza ai molti lungomari e alle passeggiate a lago, alle molte piazze di quartiere o di paese - anonime e magari anche un po’ kitsch – che svolgono però il loro compito di riappropriazione dello spazio urbano e di riconquista di luoghi da tempo abbandonati. Un processo che si è attuato in parte attraverso l'opera di norme, linee guida e regolamenti edilizi, che hanno prodotto veri e propri manuali di buone pratiche – come giustamente Chiara Merlini suggerisce – spesso a ridosso di richieste prestazionali difficili da conciliare: il drenaggio sostenibile, il contrasto all'isola di calore, la sicurezza nelle pavimentazioni di gioco, l'eliminazione delle barriere architettoniche, l'illuminazione quale fonte di sicurezza, la protezione contro atti di vandalismo, la scelta di specie arboree non allergizzanti, etc.
In modo ancora più pervasivo la normalizzazione, e la globalizzazione della norma, è avvenuta attraverso la ripetizione di pochi progetto modello, alcuni dei quali presenti all'interno di questo stesso volume, come ad esempio l'intera opera dello studio Topotek 1.(15) Il ruolo dei nuovi media in questa opera di globalizzazione dei modelli di riferimento è ancora da valutare pienamente. Contemporaneamente la "banalizzazione" del progetto di spazi aperti testimonia anche della mole del lavoro fatto: del faticoso e incessante processo di cura dello spazio della città e del territorio, nei quartieri più periferici, nei luoghi significativi dei piccoli centri, nelle moltissime frazioni, nei luoghi più anonimi della città diffusa che si è almeno in parte attuato negli ultimi anni. I progetti di routine possono essere efficaci e belli, oppure un po' meno riusciti e alle volte anche decisamente brutti, ma quasi sempre, almeno per qualche aspetto, producono un miglioramento di una situazione esistente, quantomeno in termini d'uso. Si tratta a mio modo di vedere di una vasta opera di manutenzione della città esistente, operata in modo senz’altro parziale e frammentario da numerose amministrazioni comunali, spinte spesso dalla volontà di esprimere attraverso la piazza o il giardino o il playground una nuova capacità di appropriazione dello spazio.
Va infine osservato che l'innovazione tipologica, degli spazi aperti così come dei luoghi dell'abitare, è sempre un processo di lenta trasformazione, che necessita non solo di tempi lunghi ma anche di un numero elevato di occasioni e di progetti(16). Per questo gli esempi che affollano le riviste e le pagine web non devono trarre in inganno: sono ancora lontani dall'aver pienamente conquistato la prassi comune. Ancora oggi non è facile convincere le amministrazioni pubbliche a sobbarcarsi l’onere – economico e progettuale – di una riqualificazione minuta e capillare degli spazi aperti. Non è raro infatti girando per quartieri in costruzione imbattersi in opere di urbanizzazione – strade, marciapiedi, piazze – ove ancora oggi visibilmente manca una qualsiasi capacità di affrontare problemi progettuali semplici come la gestione di un piccolo dislivello, la gerarchizzazione di percorsi differenti, la scelta di materiali ed essenze di non elevata manutenzione. Spazi non riusciti che fanno supporre la necessità di interventi di riqualificazione e rigenerazione in un futuro molto prossimo.
L'antologia di testi qui raccolti e la ricerca didattica che l’ha sospinta hanno ancora un compito importante da svolgere: formare una nuova generazione di architetti capaci di affrontare con scioltezza il progetto degli spazi aperti. Ecco perché ha ancora senso “mettere lo spazio aperto al centro del progetto urbanistico”.
Marialessandra Secchi
Note 1) Un tema da sempre caro all'urbanistica - già nelle riflessioni di Camillo Sitte sulla mutata natura dello spazio pubblico tardo ottocentesco - ma che si ripresenta periodicamente in forme nuove come una riflessione specifica sul presente della condizione urbana. 2) Privileggio, Nicolò “La citta come testo critico" in Privileggio, Nicolò (a cura di) La città come testo critico, Franco Angeli, Milano, pp. 127-141. 3) È noto come Colin Rowe liquidi molta dell'esperienza delle avanguardie del Novecento e molta della spinta riformatrice nei confronti della spazialità propria della città del ventesimo secolo come urbanistica “delle buone intenzioni". Rowe, Colin "The Present Urban Predicament: Some Observations." ora in Rowe, Colin As I Was Saying-Recollections and Miscellaneous Essays: Urbanistics. Vol. 3. Mit Press, 1999, pp.165-20. 4) Mareggi, Marco “Perché mettere (ancora) lo spazio aperto al centro del progetto urbanistico per il territorio contemporaneo” in Mareggi, Marco ( a cura di) Spazi aperti. Ragioni, progetti e piani urbanistici, Planum publisher, 2020, p.13. 5) Come nel caso di Collage City, ove il carattere di apertura è visto come altamente problematico e non definitivo. 6) Longo, Antonio “Spazi aperti e paesaggio delle metropoli contemporanee” in Mareggi, Marco ( a cura di) Spazi aperti. Ragioni, progetti e piani urbanistici, Planum publisher, 2020, p.177-186. 7) Si veda ad esempio Schmid, Christian, et al. "Towards a new vocabulary of urbanisation processes: A comparative approach." Urban Studies 55.1 (2018): 19-52. 8) Marx, Leo “ American ideology of space”. In Denatured Visions—Landscape and Culture in the Twentieth Century, 62–78. New York: MOMA., 1991. 9) Più recentemente un nutrito dibattito si è acceso a ridosso della nozione di "paesaggio come infrastruttura" a partire da Belanger, P. (2009). Landscape as Infrastructure. Landscape Journal 28(1): 79–95. Si veda anche Juel Clemmensen, Thomas. (2014). "The Garden and the Machine", In Daniel Czechowski, Thomas Hauck, Georg Hausladen (eds) Revising Green Infrastructure - Concepts Between Nature and Design (pp.137-152) CRC Press. Ed. 10) Baccarelli, Marco Manutenzione. Un progetto della città oltre la crisi, tesi di dottorato, Politecnico di Milano, 2013. 11) Merlini, Chiara “Il disegno dello spazio pubblico, tra requisiti ambientali ed esperienza estetica. Verso un nuovo International Style?” in Mareggi, Marco ( a cura di) Spazi aperti. Ragioni, progetti e piani urbanistici, Planum publisher, 2020, p. 71 -87. 12) Koolhaas, Rem “The generic city” in Koolhaas, Rem S, M, L, XL, 010 Publisher, 1995, pp 1238-1267. 13) Boeri, Stefano., Lanzani, Arturo, & Marini, Edoardo. “Nuovi spazi senza nome”. Casabella, 1993, 597-598. 14) Lo slittamento del progetto degli spazi aperti verso una ricerca di esperienze estetiche sempre nuovi per classi di oggetti sempre più codificati è argomentata da Cristina Bianchetti, già in Bianchetti, Cristina “Contrassegni e ricorrenze. Il riarticolarsi di problemi morali nel progetto urbanistico e in quello di paesaggio” in Ferrario, Viviana; Sampieri, Angelo e Viganò, Paola (a cura di) Landscape of urbanism – Quaderno del Dottorato in Urbanistica n°5, officina edizioni, 2011. 15) Rein-Cano, Martin “Le strategie progettuali di Topotek1 per gli spazi (aperti) contemporanei” in Mareggi, Marco (a cura di) Spazi aperti. Ragioni, progetti e piani urbanistici, Planum publisher, 2020, pp. 47-70. 16) si veda a questo proposito la recente ricostruzione della nascita del boulevard parigino in: Alonzo, Éric L'architecture de la voie. Histories et théories. Éditions Paréntheses, Maresille, 2018 pp.125-144, o anche la ricostruzione della genesi del parco pubblico in: Panzini, Franco Per i piaceri del popolo, Zanichelli, Bologna 1993 o il più recente studio sulla pratica e codificazione degli orti urbani in: Panzini, Franco Coltivare la città. Storia sociale degli orti urbani nel XX secolo, Derive e Approdi, Roma, 2021.
N.d.C.- Marialessandra Secchi, architetto, Phd, è ricercatrice in Urbanistica al Politecnico di Milano (Dipartimento di Architettura e Studi Urbani). La sua attività progettuale si colloca all'intersezione tra architettura, città e paesaggio e si caratterizza per lo scambio continuo tra professione, insegnamento e ricerca universitaria. Ha fondato nel 1998 lo studio Privileggio-Secchi insieme a Nicolò Privileggio.
Tra i suoi libri recenti: con Chiara Nifosì, Territori in divenire. Scenari e progetti per la laguna di Karavasta (LetteraVentidue, 2020).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 03 DICEMBRE 2021 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
in redazione: Elena Bertani Luca Bottini Oriana Codispoti Filippo Maria Giordano Federica Pieri
cittabenecomune@casadellacultura.it
iniziativa sostenuta da:
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2017: Salvatore Settis locandina/presentazione sintesi video/testo integrale
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- cultura urbanistica:
- cultura paesaggistica:
Gli autoritratti
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Le letture
2015: online/pubblicazione 2016: online/pubblicazione 2017: online/pubblicazione 2018: online/pubblicazione 2019: online/pubblicazione 2020: online/pubblicazione 2021:
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