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LE CITTÀ SI COSTRUISCONO (ANCHE) CON L'ARTE
Commento al libro di Paolo Coen
Gianni Contessi
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È un libro per taluni versi singolare, questo Il recupero del Rinascimento – il cui sottotitolo recita: Arte, politica e mercato nei primi decenni di Roma capitale (1870-1911) – edito per i tipi di Silvana Editoriale nel 2020. Ne è autore Paolo Coen, docente di Storia dell’arte moderna all’Università di Teramo. Cospicua la mole del libro che, con i nutriti apparati, sfiora le seicento pagine. La scrittura è densa e l’indice dei nomi fitto: un ricco repertorio di personaggi e circostanze anima la narrazione descrittiva e cumulativa che, pur a fin di bene, tale è e rimane. Un repertorio, lo ripetiamo, ricchissimo che, a futura memoria, varrà quale prezioso giacimento cui attingere per chi anche con altri obbiettivi intenderà avventurarsi in territori storiografici affini. Che poi continuano ad essere ancora quelli mai abbastanza investigati come dimostra, oltre al libro di cui ci stiamo occupando, il saggio intitolato Vedere per credere. Il racconto museale dell’Italia unita, pubblicato, anch’esso nel 2020, per Viella da Massimo Baioni, docente di Storia contemporanea all’Università di Milano. Due opere molto differenti ma convergenti su un approdo comune: analizzare le vicende italiane, la storia dunque, avvalendosi di materiali che, per i vari ricercatori, costituiscono con maggiore o minore intensità una sorta di altro da sé, ovvero chiamano in causa temi e soggetti pertinenti a discipline diversa dalla propria. Nella fattispecie uno storico dell’arte (Coen) che agisce ai limiti di una storia sociale dell’arte che facilmente trascorre nelle stanze della storia civile, della storia tout court, ed uno storico puro (Baioni) che affronta un aspetto comunque attinente alla sfera della visualità museografica, quando addirittura non pertenga direttamente – e accade pure questo – all’ambito dell’arte figurativa ovvero alla critica, ovvero all’architettura che, fra l’altro, di musei ed allestimenti si occupa istituzionalmente, anzi, per sua natura.
Il titolo del cospicuo libro di Paolo Coen non tragga in inganno: di Rinascimento nelle centinaia di pagine del saggio se ne parla ma non poi così tanto, se non per quanto l’entità storica e culturale, come tale nota, grava sull’intera civiltà moderna italiana, con ampi riverberi internazionali, diciamo così “a monte”. In ogni caso, pare di qualche evidenza che la stessa nozione di Rinascimento (altro le “Rinascenze” di cui alle lezioni di Erwin Panofsky) non riguarda solo il mondo dell’arte o delle arti propriamente dette ma, piuttosto, un’intera arcata temporale degli studi storici e di quella loro declinazione che vede coniugarsi filologia e storia. Ma, avrebbe detto un grande giornalista scomparso: “alle corte!”. Nel suo libro Paolo Coen affronta, con consapevolezza di storico questioni che attengono alle condizioni largamente e gravemente pre-moderne in cui nei tardi anni del pontificato di Pio IX versava la città di Roma, ormai dimentica di un primato artistico durato quanto meno fino alla conclusione del non breve soggiorno di Canova. E poiché l’arte è anche produzione e la seconda metà del IX secolo, dopo la epocale Grande Esposizione londinese del 1851, registra lo sviluppo in tutta Europa di un forte dibattito sull’industria artistica e sulla promozione di scuole adeguate per la formazione dei futuri artieri, una via di mezzo fra l’artista e l’artigiano. Negli anni fra le due guerre mondiali il Bauhaus, al centro dell’Europa, avrebbe rappresentato un tentativo glorioso di unificare le arti visive secondo una sintesi progettuale superiore. Non più le accademie ma appunto le scuole di arti applicate, gli istituti d’arte, maggiormente in grado di cogliere un rinnovato spirito dei tempi, la modernità, insomma. Con i loro manuali di disegno, destinati appunto ai futuri addetti alle arti applicate John Ruskin, Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc e il nostro Camillo Boito avrebbero derubricato l’idealismo sostanziale del tirocinio delle Accademie per indirizzare i giovani praticanti alle discipline di un “utile” ampiamente inteso. Boito, appunto, e l’Italia, dunque, sullo sfondo di qualsiasi accadimento che vede coinvolto il cosiddetto sistema delle arti.
Boito, invece, non compare immediatamente nelle pagine di Paolo Coen. Il maestro arriverà con il terzo capitolo, a proposito della tormentata vicenda del Vittoriano, meglio noto come Altare della Patria. Da subito, invece, l’autore entra nel merito delle cosiddette “arti applicate” rilevando come Roma fosse città in cui “grave risultava la mancanza dell’industria”. Dell’industria vere e propria, ovviamente, ma anche di un tessuto produttivo minore che andasse oltre le piccole imprese artigiane a gestione semi-famigliare. E a questo proposito Coen dispiega una conoscenza capillare dell’argomento. Grazie a lui ci imbattiamo in personaggi di varia caratura e ruolo che mettono in luce come a Roma, dopo la sua assunzione a città capitale del regno d’Italia, malgrado le premesse sfavorevoli, in realtà una certa circolazione di idee ed una certa attivazione del collezionismo non abbiano mancato di manifestarsi.
Figure sicuramente centrali della rinascita i principi Caetani e Odescalchi anche per i ruoli pubblici rivestiti nella città capitale. Significativo che due esponenti di famiglie storiche spingessero il loro sguardo fino a farsi consapevoli della necessità di istituire a Roma, come nel caso di Baldessarre Odescalchi un museo che nello stesso tempo valesse come istituzione preposta alla didattica sull’esempio di quanto stava accadendo in altri paesi europei. Le arti applicate, in sostanza, sarebbero diventate veicolo di una trasformazione complessiva del gusto agendo attraverso qualcosa – le industrie artistiche, appunto – che avrebbe altresì rappresentato un capitolo non irrilevante dell’economia. Questo secondo un modello che dall’Inghilterra, via Gottfried Semper, era ben presto transitato nell’Europa centrale e, segnatamente, a Vienna. Il ruolo del grande storico dell’arte austriaco Alois Riegl non si spiegherebbe diversamente.
Vasta la materia, vasto il programma, vasta la trattazione del libro di Paolo Coen che, per la completezza, trova conferma dalla ricchezza degli apparati. Ma, al di là dell’acribia filologica e della vastità dei riferimenti (talvolta oltre il necessario), va precisato che lo studioso ha uno sguardo mobile e attento e non trascura la vera circostanza cruciale che domina il panorama storico artistico o più propriamente storico architettonico ed urbanistico romano, fatto di un intenso andirivieni di collezionisti, antiquari, mercanti di reperti archeologici e gioielli, libri preziosi e dipinti e un non meno intenso andirivieni internazionale di conoscitori, anche illustri (da Berenson ad Adolfo e Lionello Venturi) e di attribuzioni talvolta soggette a qualche mobilità. La circostanza cruciale è la grandiosa “pensata” del Vittoriano “da idea a progetto 1878-1882” come recita il titolo del terzo capitolo.
Adesso scagliarsi contro l’abnorme costruzione che ospita la statua di Vittorio Emanuele II, solo in parte assorbita visivamente dall’abitudine dell’occhio che la inquadra, sarebbe non si sa se più banale o più ingenuo. Lì il Rinascimento si esprime nella lingua di Giuseppe Sacconi, capace di orchestrare a freddo, anche se con eleganza, tutte le possibili retoriche di un classicismo che il fuori scala contestuale condanna e nello stesso tempo esalta. E oggi proprio quel violento fuori scala si e ci esalta morbosamente. È una pagina di storia civile italiana ed anche uno specchio in cui si riflette un profondo disagio nazionale: una fondamentale Nazione Culturale (nel senso di kulturnation) dell’intero Occidente, anzi una, se non la nazione fondatrice, anche quando non era Stato unitario che una divenuta tale si accorge di essere provinciale e povero, alle prese con problemi enormi e animato da spinte imperialistiche coloniali tardive sproporzionate. Troppe arretratezze per la rappresentazione abnorme di una potenza che non c’è. Ciò a prescindere da ogni valutazione sul talento di Sacconi.
Dell’ampio dibattito relativo all’erigendo Vittoriano (quinta architettonica e statua del sovrano) faceva parte anche un’altra questione, squisitamente boitiana: quella di uno stile nazionale dell’architettura, identitario per una nazione già “culturale”, s’è detto, ma ora anche statuale. A fronte, inoltre, del fatto che l’eclettismo, variamente declinato era il non stile, lo stile polistilistico dell’intera Europa non che del continente americano. Ora, quale lingua dell’architettura poteva dirsi squisitamente e prettamente italiana se non quella del Rinascimento, nostra gloria e tragedia?
L’opzione bramantesca per Boito, quella giusta e conclusiva, sarebbe stata adeguatamente incarnata e sontuosamente rappresentata dal progetto di Giuseppe Sacconi e qui, va detto, Paolo Coen ha un grande colpo d’ala, collegando in arcata geopolitica e, appunto, nei termini di una storia sociale e dunque politica dell’arte, deliberazioni e realizzazioni relative alla costruzione dell’abnorme e biancheggiante, marmoreo manufatto: siamo al quinto capitolo del libro intitolato “Il Vittoriano nell’Italia coloniale (1882-1908)”. Un capitolo serrato che spiega benissimo (nel contesto dell’arte) i ragionevoli sussulti “imperialisti dell’ancor giovanissimo stato unitario, ampiamente proteso nel Mediterraneo e dunque lontano dagli orizzonti subalpini e alpini della originaria nazione sabauda. Il non avere potuto proiettarsi sulla contigua Tunisia e le scarse simpatie di Francia e Inghilterra spiegano più cose di quanto sembri. E aggiungiamo: la Neue Hofburg viennese sarebbe valsa in un periodo di tramonto già in atto della monarchia austro-ungherese quale simmetrico, impotente ruggito.
Ampia la prospettiva, ampia la tastiera argomentativa del libro di Paolo Coen, monumentale quanto i temi cui si applica con straordinario controllo della materia e con la capacità di cogliere così l’insieme come gli interstizi del fitto intreccio di dinamiche pubbliche e circostanze private. Alle velleità nazionaliste ed espansioniste dello Stato dal 1870 laicamente romanizzato avrebbero trovato un paradossale contrappunto sviluppando e incrementando ciò che ai tempi del Grand Tour era appena agli albori: un imperialismo alla rovescia, appunto, di tipo mercantile che avrebbe depauperato il patrimonio artistico nazionale dando origine e arricchimento alle grandi collezioni straniere e soprattutto statunitensi. Bernard Berenson ne sarebbe stato protagonista.
Gianni Contessi
N.d.C. Gianni Contessi, già professore ordinario di Storia dell’arte contemporanea nel Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Torino, ha insegnato altresì nell’Accademia di Brera, del cui patrimonio librario e grafico è stato conservatore negli anni 1990, nell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, nell’Università di Udine e nella Facoltà di architettura del Politecnico di Milano.
Tra i suoi libri: Tre Morandi e un Fontana. Perlustrazioni critiche di confine (2020); Torino controcanto. Saggio sulla “Lettera all’amico collezionista” 1993 di Paolo Fossati (2020); Lo sguardo reticente. Vittorio Sereni critico d’arte (2016); Sulle Tracce della metropoli. Testi e scenari 1895-1930 (2006); Vite al limite. Giorgio Morandi, Aldo Rossi, Mark Rothko (2004); Écritures dessinées: art et architecture de Piranèse à Ruskin (2002); Scritture disegnate: Arte, architettura e didattica da Piranesi a Ruskin (2000); Il Saggio, l’architettura e le arti (1997); Il Luogo dell’immagine. Scrittori, architetture, città, paesaggi (1989); Architetti-pittori e pittori-architetti, da Giotto all’età contemporanea (1985); Umberto Nordio: architettura a Trieste 1926-1943 (1981).
Ha inoltre curato l’edizione di libri di: Le Corbusier, Fernand Léger, Giulia Veronesi, Vittorio Sereni, Paolo Fossati, André Reszler, Julius von Schlosser.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 09 DICEMBRE 2021 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
in redazione: Elena Bertani Luca Bottini Oriana Codispoti Filippo Maria Giordano Federica Pieri
cittabenecomune@casadellacultura.it
iniziativa sostenuta da:
Conferenze & dialoghi
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2018: Cesare de Seta locandina/presentazione sintesi video/testo integrale
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2021: V. Magnago Lampugnani | G. Nuvolati locandina/presentazione sintesi video/testo integrale
Gli incontri
- cultura urbanistica:
- cultura paesaggistica:
Gli autoritratti
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Le letture
2015: online/pubblicazione 2016: online/pubblicazione 2017: online/pubblicazione 2018: online/pubblicazione 2019: online/pubblicazione 2020: online/pubblicazione 2021:
R. Busi, L'urbanistica non è una moda effimera, commento a: L. Colombo, Urbanistica tra ricerca e didattica (Giordano, 2021)
M. Agostinelli, Per una nuova primavera ecologica, commento a: P. P. Poggio, M. Ruzzenenti, «Primavera ecologica» mon amour (Jaca Book, 2020)
F. Bottini, M. De Gaspari, Periferie? Un limbo di disagio pianificato, commento a: Nuove periferie (num. mon. di "Scomodo", 2021)
M. Secchi, Spazi aperti tra innovazione e banalizzazione, commento a: M. Mareggi (a cura di), Spazi aperti (Planum Publisher, 2021)
M.Vergani, Per un'etica ambientale intergenerazionale, commento a: F. G. Menga, L’emergenza del futuro (Donzelli, 2021)
R. Rossi, L'illusione di una città ideale, commento a: S. Misiani, R. Sansa, F. Vistoli, Città di fondazione (FrancoAngeli, 2020)
C. Cellamare, Cambiare le periferie ripoliticizzandole, commento a: F. Cognetti, D. Gambino, J. Lareno Faccini, Periferie del cambiamento (Quodlibet, 2020)
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P. Castoro, Biopolitica e mondo comune, commento a: O. Marzocca, Biopolitics for Beginners (Mimesis Int., 2020)
C. Olmo, Biografia (e morfologia) di una strada, commento a: C. Barioglio, Avenue of the Americas (FrancoAngeli, 2021)
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