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LE CITTÀ SONO FATTE DI QUARTIERI E DI ABITANTI
Commento al libro di Anna Laura Palazzo
Paolo Colarossi
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Una interessante rassegna delle politiche urbane negli Stati Uniti del secondo dopoguerra; ma anche una rassegna dei processi e degli strumenti attraverso i quali le politiche urbane si concretizzano in forme di città e azioni sulle città; con una particolare attenzione ai temi della rigenerazione urbana (prima renewal, poi revitalisation, poi da ultimo regeneration); e infine una quantità di suggestioni per fare comparazioni con la situazione italiana e su quel che potrebbe farsi qui da noi. Tutto questo si può leggere nel libro di Anna Laura Palazzo, Orizzonti dell’America urbana. Scenari politiche progetti
Il volume è formato da una introduzione, un capitolo conclusivo e quattro capitoli centrali dove la ricerca prende corpo.
Fin dal primo capitolo (Propensioni di lungo periodo e rimodulazioni nell’agenda federale), che presenta un compendio dell’evolversi delle politiche urbane nel secondo dopoguerra, emergono gli aspetti interessanti per la riflessione che percorrono tutto il libro e che possono essere sintetizzati nella formula: le metropoli e le città sono fatte anche di quartieri (e di abitanti). Una formula che riassume quello che mi sembra sia un filtro attraverso il quale Anna Palazzo vede le politiche urbane, i processi sociali ed economici, gli strumenti che nei tempi brevi e lunghi fanno le città quando viene data la giusta rilevanza al ruolo che, nel determinare la qualità dell’abitare, può avere il livello locale se coordinato con il livello statale e da questo ben supportato. Nel caso specifico del contesto statunitense politiche, processi e strumenti fin dall’inizio scontano l’ambivalenza e le contraddizioni dello sviluppo urbano USA tra suburbanizzazione e aree urbane (inner cities), dove le prime soffrono, dopo il rapido e intenso sviluppo, di insufficiente infrastrutturazione e le seconde ne risultano “impoverite e fragilizzate” (p. 19). Così che fin dai primi anni del dopoguerra il governo federale deve interessarsi alle città e ai loro problemi e mettere in campo politiche urbane volte al miglioramento della città esistente. Emerge dunque il profilo di una America urbana dove fin dagli anni del secondo dopoguerra sono varate politiche volte ad “(…) alleviare gli effetti alienanti dei grandi governi, della grande industria, delle grandi istituzioni” (p. 54). Politiche che si appoggiano su e sono sostenute da una crescente cultura urbana dal basso, che produce effetti e processi verticali che dal livello federale arrivano fino al livello di quartiere. Politiche che fin dall’inizio provocano tensioni tra i due livelli, generale e locale, causate anche da forti contraddizioni tra obbiettivi di “distruzione di immobili inidonei e insediamenti degradati (slum clearance) nei centri urbani di antico impianto in nome di principi di salute e di igiene pubblica” (p.18), e concrete operazioni di “una modernizzazione arrogante pagata da sistematici sventramenti e dallo sradicamento delle popolazioni dai propri contesti di vita” (p. 19). Si sviluppa così un complesso processo legislativo di tentativi di trovare soluzioni che approda infine, sotto la presidenza Ford (1974 – 1977) al varo del programma di sostegno alle comunità locali Housing and Community Development Act che istituzionalizza la formazione delle Community Development Corporation (CDC), enti senza scopo di lucro, tutt’ora operanti, che “agiscono in sinergia e supporto alle amministrazioni locali, secondo strategie mirate di contrasto alla discriminazione, alla povertà, alla mancanza di partecipazione dei cittadini” (p. 21).
Va premesso, in relazione alle CDC, che “la nozione stratificata di Community, intraducibile nel contesto europeo, risulta correntemente utilizzata sia con riferimento alle varie ripartizioni dei poteri locali, che ad aggregazioni strutturate presenti in molteplici forme di associazionismo alla scala di quartiere” (p. 27).“Una CDC è definita un'organizzazione senza scopo di lucro responsabile nei confronti dei residenti dell'area che serve che riceve assistenza finanziaria (...) e qualsiasi organizzazione della quale più del 50 per cento è di proprietà di tale organizzazione, o altrimenti controllata da tale organizzazione, o designata da una tale organizzazione” (nota a p. 51). La operatività e l’efficacia delle CDC è assicurata da piani di finanziamento con annuali trasferimenti di risorse dal livello federali a stati, contee e comuni “che ne attribuiscono la gestione al settore privato non-profit tramite bandi di evidenza pubblica” (p. 21). Ma operatività ed efficacia sono anche conseguenza della flessibilità operativa delle stesse CDC che è legata a un possibile ampio ventaglio di obbiettivi e necessità locali verificate anche da adeguati processi di partecipazione-concertazione: “rivitalizzare i quartieri, fornire strutture e servizi più efficienti e assicurare riparo e servizi ai senza tetto, cerare e mantenere posti di lavoro, formare cultura di impresa” (p. 51). Un sistema di obbiettivi e azioni che propone i contenuti di una rigenerazione urbana correttamente intesa. Le CDC di fatto oggi testimoniano, dopo ormai circa cinquant’anni di vita attiva, come uno dei principi fondativi delle politiche urbane degli USA sia l’attenzione e l’interesse per la dimensione locale del quartiere. E questo all’interno di un quadro che ha i suoi elementi determinanti in un contesto generale urbano morfologico, economico e sociale le cui caratteristiche più rilevanti sono ben delineate nel secondo capitolo (Forme urbane e forme dell’urbano. Metropoli a confronto). Contesto di estremi, fatto di suburbia e aree metropolitane, di diffusione e forti concentrazioni, di povertà e benessere. Dove l’insediamento delle qualità e quantità dell’urbanità (terziario e servizi) assume le diverse localizzazioni e conformazioni di Primary Downtown, di Secondary Downtown, di Edge city e di Edgeless City (p. 32, tab. 4). Dove l’incidenza percentuale della combinazione di costi per l’alloggio e per gli spostamenti casa-lavoro sul bilancio familiare possono determinare gli incentivi o gli ostacoli alle scelte insediative degli abitanti e la relativa caratterizzazione dei quartieri (p. 37, tab. 6). Dove strategie e programmi di due metropoli come San Diego e Boston sono perciò in parte condizionati e calibrati sulla questione costi per l’alloggio e spostamenti casa-lavoro e, come nel caso delle due metropoli, “ricorrono a zonizzazioni degli usi del suolo per imporre o incoraggiare l’introduzione di quote di affordable housing in aree residenziali appetibili anche dal mercato libero (Inclusionary Housing), integrando lo sviluppo o l’infill con misure di accessibilità al trasporto pubblico (Transit Oriented Development) e di richiamo nei riguardi delle imprese riducendo i livelli di congestione dovuti al pendolarismo casa-lavoro e i costi della mobilità dei ceti più a rischio” (p. 41).
Uno dei fattori più interessante delle politiche urbane USA sta nel ruolo che hanno assunto le Community Development Corporation (CDC) nel processo di sussidiarietà verticale di governance tra livello federale, statale e locale. Le quali CDC hanno, come detto, un assai ampio ventaglio di possibili obbiettivi e relativi compiti in quanto organizzazioni volte allo sviluppo delle comunità e con un “ampio margine di autonomia nella gestione diretta dei fondi, che consente di ancorare le azioni al terreno concreto dei bisogni e delle rivendicazioni locali” (p. 52), anche sulla base di efficaci processi di partecipazione degli abitanti delle aree interessate. Tutto questo pur a fronte di problematiche dovute a vari fattori, quali ad esempio le condizioni di quasi esclusività nei rapporti tra amministrazioni locali e CDC, con conseguenze di rischio per queste ultime di indebolire un loro ruolo di terzietà tra amministrazione e abitanti. Rischio legato anche da loro statuto istituzionale non del tutto chiaro, così che le CDC “tendono spesso a mutuare il carattere di neighborhood advocates con quello di developers, agendo sia come operatori commerciali che come gruppi di pressione” (p. 53). È da sottolineare come, nell’America urbana fin dagli anni settanta dello scorso secolo, nel rapporto governo/abitanti, sia forte e vitale la partecipazione attiva dal basso ed efficaci le conseguenti spinte politiche di movimenti e associazioni nelle città. Una complessiva valutazione sulle politiche di governance multilivello, come sono state e sono applicate nel caso degli USA, mostra luci ed ombre come viene mostrato nella prima parte del terzo capitolo (Governance multilivello, filiere attuative, azioni di sistema). Luci ed ombre che possono essere lette e avvertite in generale anche come le opportunità e le relative criticità di una visione strategica per le città che contenga e contemperi politiche e azioni dal livello statale al livello locale che abbiano come obbiettivo un assetto urbano che sia conformato agli specifici bisogni e domande locali.
Alcuni casi esemplificativi ma significativi dell’attenzione per la dimensione locale nelle politiche urbane USA sono trattati nella seconda parte del terzo capitolo e nel quarto capitolo (Tra competitività e coesione. Politiche urbane a Boston). Nello stato della California il sistema di pianificazione generale (Master Plan e Zoning Code) si accompagna ed è coordinato con “il Community Planning che condensa la formulazione di visioni, obbiettivi, politiche e strategie a lungo raggio per raggiungere la sostenibilità sociale, economica e ambientale alfine di guidare lo sviluppo futuro delle comunità. Esso viene praticato a livello di quartiere integrando le disposizioni sulla parte pubblica della città – spazi aperti, attrezzature e servizi – con politiche settoriali sostenute con diverse linee di bilancio” (p. 57).
Il caso di San Diego è significativo per le strategie adottate negli interventi sulla città esistente tramite il community planning, basate su quattro principali filoni: compensazioni edilizie (land value recapture, density bonus), trasferimenti di diritti edificatori, distribuzione di centralità locali (neighborhood centers), agricoltura urbana. Strategie che vengono adattate alle diverse situazioni e caratteri urbanistici e socio-economici degli ambiti di intervento. Così, nel caso della Downtown, il Downtown San Diego Community Plan se da una parte ammette forti premi edilizi di densificazione, dall’altra richiede come contropartita dotazioni di spazi aperti e “realizzazione di performance ambientali e di edilizia sociale” (p. 66). Inoltre, “la distribuzione di neighborhood center in ciascuno dei quartieri con destinazioni ad usi misti e le densificazioni hanno fornito nelle partnership attivate con promotori immobiliari ampie opportunità di sperimentazioni di modelli di urbanità e tipi edilizi” (p. 66). Oppure, nel Barrio Logan, un quartiere marginale anche se ai margini della Downtown, un primo intervento produce come centralità, di forte impatto e richiamo di scala non solo locale, un parco pubblico (Chicano Park) in un’area sottostante un viadotto. Parco caratterizzato come un monumento di arte civica e cultura pop “chicana”. Successivamente il Barrio Logan Community Plan individua cinque centralità, tra le quali il San Diego Public Market, mercato “come riferimento permanente per attività commerciali, educative e imprenditoriali che ruotano attorno al tema del cibo, per dare uno sbocco commerciale a prodotti locali ben conosciuti nella Contea” (p. 73). O nel village di Jacobs Market Street, dove “intorno alla plaza, ridisegnata come spazio pubblico, sono disposte attrezzature collettive inconsuete in un quartiere suburbano, come sedi di esposizione e performing arts, spazi per la cultura ed eventi speciali” (p. 76).
Più in generale va rilevato l’impegno dello Stato della California “nei riguardi dell’accesso a prodotti alimentari sani distribuiti attraverso filiere di agricoltura urbana sostenute da politiche multilivello” (p. 77). Così che “nel caso di San Diego, le azioni e iniziative che si richiamano all’agricoltura urbana sono state inquadrate entro documenti di pianificazione vigenti: le modifiche adottate nel gennaio 2012 valorizzano il ʻcibo a miglio 0ʼ attraverso due nuove categorie di usi del suolo all’interno del General Plan (Farmers’ Markets e Retail Farms), semplificando l’iter di approvazione dei marcati agricoli in aree di proprietà privata, apportando aggiustamenti ai regolamenti sugli orti comunitari e allentando le restrizioni per l’allevamento di piccoli animali (polli, capre e api) nel caso di edifici unifamiliari e plurifamiliari” (p. 78).
Le politiche urbane, le strategie, i piani e gli interventi nella città di Boston, City of Neighborhoods, si prestano nel modo migliore a rappresentare quelle che potrebbero essere le più interessanti parole d’ordine di una buona cultura urbana e urbanistica: flessibilità e “approccio iterativo e incrementale”, partecipazione-concertazione, attenzione alla dimensione locale, fiducia nell’Urban Design. Flessibilità che, nel caso di Boston, si traduce nell’uso “sostenibile” delle varianti attraverso un controllo e procedure trasparenti di inchiesta pubblica “nel rispetto dei principi di protezione e miglioramento dello spazio pubblico, mitigazione degli impatti sullo spazio costruito e sull’ambiente circostante, promozione della salute pubblica, sicurezza, comodità e benessere, efficienza dell’amministrazione” (p. 97). Sono anche utilizzati “usi condizionali”, che consentono deroghe allo Zoning Code “per comprovate esigenze della cittadinanza”, attraverso un processo di consultazione pubblica. Insomma, un virtuoso processo di planning by doing, “che ha l’onere di assicurare trasparenza al processo negoziale, giustificando la discrezionalità dell’amministrazione in nome dell’interesse pubblico” (p. 97). L’attenzione alla dimensione locale e alla qualità dell’abitare è basata sulla produzione di edilizia sociale, sulla costruzione di reti e sistemi di spazi aperti, su misure di adattamento al cambiamento climatico e su strategie di conservazione delle identità dei quartieri e dei residenti.
Questa attenzione alla dimensione locale delle politiche urbane a Boston e le relative strategie e interventi possono essere esemplificati in particolare attraverso due casi, la Main Streets approach e la Greenway District Plan Initiative. La prima strategia si avvale della attività della Boston Main Street Foundation, “che raccoglie in partenariato pubblico-privato funzionari amministrativi, commercianti, proprietari e residenti, e agisce come motore della rivitalizzazione dei quartieri con strategie di lungo periodo per l’empowerment delle comunità, fornendo conoscenze e competenze per la formazione di impresa con particolare al commercio di prossimità” (p. 111). L’attività della Foundation è poi affiancata da quella del City of Boston Main Streets Office con iniziative che “riguardano il miglioramento dei fronti commerciali, eventi promozionali e di raccolta fondi, concorsi, festival multiculturali e manifestazioni volte a migliorare l’immagine del quartiere” (p. 113).
La Greenway District Plan Initiative nasce a seguito della demolizione di una sopraelevata autostradale che attraversava vari quartieri per una lunghezza di oltre un miglio, sostituita da una viabilità interrata. Sul sedime della interrata, sedime di proprietà pubblica, viene avviata una pianificazione per l’assetto di quelle aree, con la partecipazione rappresentanze di cittadini e di associazioni. Il relativo Master Plan che dà indirizzi per quelle aree prevede che il 75% di queste sia riservato a un sistema di spazi aperti e attrezzature collettive che andranno a costituire il Boston’s Ribbon of Contemporary Parks, dedicato a Rose Fitzgerald Kennedy. Parco che ha il ruolo di ricucitura e di riqualificazione dei quartieri prima separati dalla sopraelevata. Nelle restanti aree libere viene collocata, una edificazione di consolidamento e qualificazione dei margini edilizi dei quartieri. Anche in questo caso si procede con adeguata flessibilità per la concretizzazione degli interventi edilizi. Il Greenway District Planning Study fornisce linee guida per l’edificazione che “precisano gli obbiettivi programmatici e gli ambiti di sviluppo a partire da uno studio delle immorsature tra il nuovo distretto e i quartieri storici. Le elaborazioni riguardano i criteri per la costruzione e densificazione del costruito, l’articolazione di usi del suolo ammissibili in un’ampia gamma negoziabile di usi misti, l’esemplificazione delle volumetrie compatibili con differenti indici di fabbricabilità, dei profili e degli allineamenti” (p. 119). Le linee guida sono accompagnate anche da approfondite valutazioni di impatto relative a quattro tematiche: Urban Design and Form, Environmental Conditions, Program and Use, Economics. In definitiva, anche constatando che i risultati degli interventi sono sì corretti, ma forse non di adeguata qualità, può dirsi che nel caso della Greenway “la qualità più persistente e meno visibile del progetto urbano consiste nella caratterizzazione come processo; oltre i requisiti fissati nelle linee guida, aggiudicatari e decisori tendono a negoziare ulteriori condizioni – densità, volumi e destinazioni d’uso – dilatando i tempi delle valutazioni per assicurare maggiori benefici alla collettività sotto forma di facilities, nel mandato di un’ampia discrezionalità e nel vincolo di una trasparenza scandita da incontri pubblici che declinano in modo originale il binomio flessibilità-certezza dell’approccio strategico” (p. 125).
Completa e integra la qualità e l’interesse dei testi nel libro il bellissimo reportage fotografico con foto della stessa autrice.
Il libro di Anna Palazzo ha un duplice valore: come guida ragionata alla scoperta di interessanti paesaggi della cultura urbana e urbanistica statunitense, e come paragone di confronto con la cultura urbana e urbanistica in Italia. Confronto da fare rispetto ad alcune questioni rilevanti e a valori e principi che possono essere presi come riferimento. Mi sembra di poter riconoscere negli orizzonti dell’America urbana proposti da Anna Palazzo anche una tendenza di scenari, politiche e progetti verso la formazione di condizioni per un buon abitare nella città esistente. Verso, cioè, la formazione nelle aree urbane, che ne sono troppo spesso carenti, di qualità come l’accoglienza (sicurezza, buona qualità di aria e acque, spazi pubblici adeguati e accessibili a tutti), l’urbanità (arredo urbano, servizi e attrezzature), e la bellezza (che deve essere intesa non solo del livello delle eccezionali o rilevanti opere di architettura e di arte, ma anche, e soprattutto, nel grado minimo capace di provocare sensazioni di bene-essere – ovvero sentirsi bene in un luogo grazie alla sua forma, alle attività che può accogliere e al suo valore sociale).
Qualità che presuppongono attenzione alla piccola dimensione (tutte le città, anche le metropoli, sono fatte di quartieri ma soprattutto di abitanti), alla disponibilità e assetto (varietà tipologica e qualità) degli spazi pubblici, alla capacità di disegno urbano (di disegno del paesaggio urbano). E qualità che domandano, per essere soddisfatte, adeguati processi e strumenti. Processi di partecipazione e di concertazione che coinvolgano responsabilmente gli abitanti e strumenti che siano adatti a introiettare nei loro contenuti e dispositivi disegno urbano, flessibilità normativa, modifiche concertate e argomentate, progressione per incrementi, anche modesti, ma nel quadro di una visione complessiva alla quale riferirsi costantemente. Si tratta di costruire scenari, politiche e progetti che avranno nei prossimi decenni, in Italia, l’obbiettivo e il compito di operare sulla città recente, quella città costruita grosso modo negli ultimi settanta anni e che più soffre di carenze delle qualità dell’abitare.
Quanto ai contenuti di quegli scenari, politiche e progetti, anche qui possiamo rilevare alcune tendenze della cultura urbana USA che propongono riflessioni su auspicabili, ma comunque necessarie, innovazioni negli scenari, nelle politiche e nei progetti in Italia. In particolare, su quattro aspetti: processi e forme della partecipazione-concertazione; centralità di quartiere; nuovo rapporto città campagna; rigenerazione urbanistica e non solo edilizia. Certamente sarebbe di grande interesse valutare, nella situazione italiana e in relazione alle politiche urbane per la rigenerazione della città esistente, il potenziale ruolo di organizzazioni del tipo Community Development Corporation che, nel quadro di processi e forme regolamentate e istituzionalizzate per la partecipazione-concertazione nella piccola dimensione del quartiere o di gruppi di quartieri, possano produrre risultati operativi e azioni da parte di imprenditori e abitanti. Risultati che, ai fini della riqualificazione-rigenerazione di parti della città recente, dovrebbero essere concentrati sulla formazione di centralità locali cioè di sistemi di spazi pubblici, attrezzature e servizi, in grado, proprio perché centralità, di riorganizzare e caratterizzare quelle parti urbane, anche grazie alla loro necessariamente buona accessibilità.
Buona accessibilità che significa anche tempi adeguati di percorrenze pedonali e percorsi agevoli e sicuri; il che darebbe un chiaro e concreto indirizzo di assetto urbanistico all’idea di “città 15 minuti”. Indirizzo verso una visione di città policentrica, strutturata da centralità locali a servizio di gruppi di quartieri e dotate di “attrezzature collettive inconsuete” in un quartiere periferico (p. 76). Utilizzando eventualmente, ai fini di acquisizione di aree pubbliche e di risorse per interventi pubblici e privati ma di interesse pubblico, meccanismi di compensazioni edilizie o di trasferimenti di cubature. Meccanismi che si possono definire sostenibili se e in quanto commisurati su quei fini.
Una visione di città, e anche di metropoli, strutturata e articolata in un sistema di “piccole città nella città” (o “piccole città nella metropoli”), ognuna con un centro (una centralità locale) formato da sistemi di spazi pubblici di qualità e da servizi pubblici e privati anche di scala urbana. Così che “centralità urbane” già esistenti o da localizzare diffuse nella città recente potrebbero essere opportunamente incluse nella dimensione locale e contribuire alla qualità del buon abitare per quella parte di città. Centralità urbane e locali nei cui sistemi di spazi e servizi potranno avere un ruolo, a volte anche determinante, parchi giardini pubblici e orti urbani, e anche, per costruire nei quartieri di margine un nuovo rapporto città campagna, attrezzature di servizio per aree agricole urbane e periurbane.
Infine, ma non da ultimo, andrebbe consolidata una tendenza verso una idea di rigenerazione urbanistica che operi concretamente con diversità e ricchezza di azioni materiali e immateriali nella rigenerazione urbana e con una ampia visione verso il futuro; il che comporta ottimismo progettuale e saldezza e convinzione nel tempo per sostenere i principi per un buon abitare. “Nella riflessione degli analisti urbani e nel dibattito pubblico l’efficacia delle community development corporation è un tema ricorrente: nel caso di quartieri caratterizzati da disinvestimenti e alti tassi di disoccupazione, il rafforzamento dei legami di comunità costituisce precondizione per fare breccia oltre la diffidenza e la resistenza e mettere in atto forme di empowerment definite come the process of becoming stronger and more confident, especially in controlling one's life and claiming one's rights”. Questi percorsi in controtendenza con il calcolo politico stretto dalla durata dei mandati amministrativi hanno contribuito al rafforzamento di leadership urbane, ponendo mano ad azioni che richiedono un impegno straordinario e – chiosa Anna Laura Palazzo nel suo bel libro – tempi lunghi” (p. 140).
Paolo Colarossi
N.d.C. - Paolo Colarossi, già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica alla Facoltà di Ingegneria dell'Università Sapienza di Roma, ha diretto il Dipartimento di Architettura e Urbanistica dello stesso ateneo. Membro del Bureau della International Federation for Housing and Planning, ha fondato il Laboratorio Abitare la Città (centro di studi e di progettazioni sperimentali sui quartieri e sullo spazio collettivo) del Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale. E’ tra i fondatori nel 2012 dello Studio Associato Coffice – Architettura e Urbanistica. E’ membro del Comitato Scientifico della rivista Rassegna di Architettura e Urbanistica. I temi sui quali lavora sono quelli della progettazione urbana, della progettazione del paesaggio, della progettazione partecipata e dell’estetica urbana. E’ autore di piani e progetti urbanistici.
Tra le sue pubblicazioni: con J. Lange (a cura di), Tutte le isole di pietra. Ritratti di città nella letteratura (Gangemi, 1996); “Elementi di estetica urbana”, in: P. Colarossi, A. P. Latini (a cura di), La progettazione urbana (Edizioni del Sole 24 Ore, 2008); con A. P. Latini e R. Romano (a cura di), Teaching urban design. The Rome summer school on urban design (Palombi, 2013);.con E. Piroddi, a (cura di) (2019): “Proposte ed esperimenti per una nuova urbanistica”, n. 157 della Rassegna di Architettura e Urbanistica (2021); “Roma è fatta anche di quartieri” in C. Mattogno (a cura di) “Roma contemporanea tra architettura e urbanistica”, (Gangemi, 2022).
Per Città Bene Comune ha scritto: Fare piazze (10 marzo 2016); Per un ritorno al disegno della città (25 maggio 2018); Progettiamo e costruiamo il nostro paesaggio (22 febbraio 2019).
Sullo stesso libro oggetto di questo contributo, v. anche: R. Riboldazzi, Urbanistica: quali politiche per la casa? (19 maggio 2023), introduzione all’incontro con Anna Laura Palazzo tenutosi alla Casa della Cultura il 24 maggio 2023.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 27 OTTOBRE 2023 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
in redazione: Elena Bertani Luca Bottini Oriana Codispoti
cittabenecomune@casadellacultura.it
iniziativa sostenuta da:
Conferenze & dialoghi
2017: Salvatore Settis locandina/presentazione sintesi video/testo integrale
2018: Cesare de Seta locandina/presentazione sintesi video/testo integrale
2019: G. Pasqui | C. Sini locandina/presentazione sintesi video/testo integrale
Gli incontri
Gli autoritratti
2017: Edoardo Salzano 2018: Silvano Tintori 2019: Alberto Magnaghi 2022: Pier Luigi Cervellati
Le letture
2015: online/pubblicazione 2016: online/pubblicazione 2017: online/pubblicazione 2018: online/pubblicazione 2019: online/pubblicazione 2020: online/pubblicazione 2021: online/pubblicazione 2022: online/pubblicazione 2023:
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F. Indovina, La città è un desiderio, commento a: G. Amendola, Desideri di città (Progedit, 2022)
A. Mazzette, La cura come principio regolatore, F. C. Nigrelli (a cura di), Come cambieranno le città e i territori dopo il Covid-19 (Quodlibet Studio, 2021)
P. Pileri, La sostenibilità tradita ancora, commento a: L. Casanova, Ombre sulla neve. Milano-Cortina 2026 (Altreconomia, 2022)
A. Muntoni, L'urbanistica, sociologia che si fa forma, commento a: V. Lupo, Marcello Vittorini, ingegnere urbanista (Gangemi, 2020)
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